Copertina
Autore Théodore Monod
Titolo Il viaggiatore delle dune
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2002, Varianti , pag. 182, dim. 135x220x13 mm , Isbn 978-88-339-1369-8
OriginaleMéharées
EdizioneActes Sud, Paris, 1989
TraduttoreSilvia Accardi
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe viaggi
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Capitolo 2

Tecniche


    Dimenticare così i fumi delle grandi città
    e le discussioni della «gente civile».
                  Maurice Gaudefroy-Demombynes

Un esperto sahariano terminava così, qualche anno fa, un memoriale sul Sahara: «Nel progresso delle nostre conoscenze, la parte migliore, quella utile e concreta, spetterà forse meno ai veicoli perfezionati che viaggiano a tutta velocità da un capo all'altro del deserto, su piste conosciute, compiendo missioni-lampo ed esplorazioni-bolide, che al lento cammino di quattro grosse zampe con lo zoccolo a disco e di due ciabatte in pelle d'antilope».

I miei bagagli personali si preparano in fretta, perché il materiale è ridotto all'osso: porterò i miei burnus, una djellaba marocchina, la mia vecchia sella di cammello, una piccola teiera di stagno, un quarto che è stato smaltato, cosa che non ha alcuna importanza e che, nonostante il nome menzognero, contiene un intero litro, una marmitta, un bollitore, due piatti di ferro battuto, un cucchiaio - niente forchetta, a cosa servirebbe? è un attrezzo da carnivoro -, un treppiedi a cui sospendere il pentolame, un piccolo otre per il burro fuso, dei sacchi di cuoio per il grano macinato, fior di farina d'orzo, riso, datteri seccati, arachidi; pelli di capra per l'acqua; una tenda per i giorni di vento e i tornadi, sandali in pelle di orice o in pneumatico d'auto - inutilizzabili -, un bastone in legno d'acacia, un mongech completeranno un bagaglio ridotto allo stretto necessario.

«Un cosa?» Un mongech. Non avrete la pretesa di circolare in terra tuareg senza mongech, l'indispensabile nécessaire di chi se ne va a piedi nudi in un paese spinoso. Nel regno delle spine, le pinzette non guastano mai.

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Naturalmente. D'altronde la foresta vergine e la savana sono l'intermezzo, l'intervallo. La commedia si recita nel deserto, dove vengo subito richiamato per il secondo atto.

Infatti parteciperò come naturalista (zoologo e botanico) alla missione sahariana Augiéras-Draper che, partendo dall'Hoggar, si dirigerà verso il Sahara sud-occidentale fino a raggiungere il Senegal (1927-28).

Il rapido contatto con il deserto mauritano non mi aveva consentito che un'occhiata; era ora di fare conoscenza più a fondo. Non ci si improvvisa sahariani come non ci si improvvisa marinai, astronomi o ebanisti. Occorre un tirocinio lungo e duro, sia fisico sia mentale. Eccellente occasione per ricominciare.


«Per un mese», continua Ibn Battuta, nel XIV secolo, mentre i trenta bretoni del sire di Beaumanoir fanno a pezzi i loro trenta compagni britannici, «viaggiamo nella contrada dell'Haggàr; ci sono poche piante, molte pietre e il terreno è scabroso. Gli haccàr o haggàr sono una tribù di berberi, che indossa un velo; c'è poco da dir bene di loro: sono dei buoni a nulla».

E noi non aggiungeremo altro. D'altronde una linea di corriere conduce i curiosi nel cuore dell'Hoggar, dove si mescolano turismo, «macchine fotografiche» e feuilleton. Andiamo oltre.


Tappe faticose: Besnard, il geologo, che porta una calotta turcomanna, e io abbiamo adottato come regola di percorrere a piedi metà della tappa, dall'alba alla sosta meridiana, dai venti ai venticinque chilometri. L'attività ci «entra nella pelle», senza riguardi: spine d'acacia, spine seghettate di cenchrus, spaccature dei sandali, bolle. Il divertimento manca di voluttà, soprattutto perché da un lato ho un vaso di vetro che mi gratta l'anca e dall'altro l'erbario, pesanti tavole che mi battono i glutei. E non ci si può nemmeno svestire nelle ore calde, perché la tunica ha tasche indispensabili che ospitano orologio, tubi, lente, coltello, taccuino e tutto quanto.


Timmissao: grande lembo di arenaria orizzontale posato sul penepiano; il muro azzurro del tassili su cui camminiamo da ieri si socchiude e ci inghiotte. Canyon tappezzato da sabbia dolce, impalpabile, fra alte falesie dai colori delicati, spesso color vinaccia. Profumo dolciastro di asclepiade saccheggiata dalle vanesse. Sul soffitto di una grotta iscrizioni arabe, un versetto della Sura della Vacca: «Allora ti libererà da loro Dio, che è Colui-che-comprende e Colui-che-sa».

Due giorni dopo, Tigueurt, fonte perduta in un taglio della falesia; smottamenti e, più in là, una prateria verdeggiante, in miniatura, certo, ma una vera prateria, con menta, cespugli, muschi, felci e un'elegante primulacea acquatica, il samolus valerandi.

Al ritorno un'anatra codone, migratore spossato.

Uova di farfalla, piccoli limoni gialli delicati dai fianchi punteggiati e a volte striati di porpora.

Stasera tramonto di un viola squisito. Gazzelle che saltellano fra le mimose in fiore, su cui ronzano ancora api nere.

Giornate piene dall'alba alla notte, a volte molto più in là. All'aurora bisogna strapparsi all'amichevole tepore dei burnus e avventurarsi tremando nel giorno glaciale, in malandati séroual di cotone aracneo, a piedi nudi sulla sabbia a 0°C. I falò crepitanti che accendiamo con legna di panicum ci scaldano un poco, isolotti di benessere e di chiarore nello spazio ventoso e freddo.

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Tutti sanno che le grotte del sud-ovest francese e della Spagna hanno fornito ammirevoli immagini di cervi, di bisonti e di cinghiali e che i boscimani dell'Africa australe hanno coperto di pitture rosse e nere le pareti delle loro caverne; si conoscono le rovine delle rocce scandinave, la stele nestoriana di Singanfu, il testo discreto, veritiero e per nulla «pubblicitario» di Bisutun e il graffito del crocefisso dalla testa d'asino e dal corpo umano, ma si ignora serenamente che il Sahara formicoli di incisioni rupestri, iscrizioni e pitture.

Dove? Ma un po' dappertutto, almeno ovunque ci siano pietre (e, di conseguenza, né fra le dune né sul reg), naturalmente pietre utilizzabili. Non tutte lo sono, non si può scrivere, incidere o dipingere ovunque: occorre una roccia sana, dalla grana fine, sufficientemente compatta, che non si sbricioli e offra superfici piane.

Alcune arenarie ruiniformi, dalle fenditure nette, forniscono così bellissime pareti, lastre, blocchi di detriti. D'altronde l'arenaria è il supporto più comune alle incisioni, materiale scelto per la confezione dei petroglifi.

A causa della patina. Queste arenarie primarie, siluro-devoniane, hanno un cuore bianco sotto una scorza dura, alterazione superficiale della roccia sotto l'influenza degli agenti atmosferici, pioggia, insolazione ecc. Una vernice nera sullo zucchero. Basterà grattare questa pellicola per ottenere un tratto bianco su fondo nero.

Un'incisione moderna, quella che farò io stesso, sarà dunque bianca. Solo che questo tratto chiaro, ormai privo della protezione che ho grattato via, si troverà esposto agli stessi agenti di «patinatura» del resto della roccia. Nel corso dei secoli muterà lentamente colore, si scurirà a poco a poco, passerà dal bianco al camoscio e al grigio per raggiungere finalmente la stessa intensità della tinta di fondo, su cui non risalterà più perché l'insieme - roccia e disegno avranno ormai lo stesso colore.

Da qui la conclusione evidente è che più un'incisione è scura più è vecchia, cosa spesso esatta, specie per i disegni giustapposti su una stessa pietra e che di conseguenza si trovano in condizioni identiche (di orientamento, illuminazione ecc.). Le incisioni antiche, fortemente patinate, sono a volte difficilissime da percepire, occorre molta attenzione per seguirne i contorni. Invece le incisioni recenti si stagliano vigorosamente sullo sfondo scuro della roccia. Si vedono da lontano.

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Capitolo 1O

Dalla zecca all'elefante


    In questo deserto c'è un gran numero di
    animali pericolosi e ce ne sono altri che
    non offendono nessuno.
                               Leone Africano

A seconda delle volte più o meno, come sempre, tanto la via di mezzo, in cui giace la verità, ci ripugna.

Meno, perché si è creduto a lungo che il Sahara brulicasse di mostri la cui varietà e moltitudine viene attribuita alla mancanza d'acqua, quindi ogni tipo di bestia è costretto a incontrarsi presso il fiume più vicino per estinguere la sete: leopardi, elefanti, dragoni, grossissimi e pesantissimi e che inseguono gli enormi serpenti a cui spunta l'erba sulla schiena, idre dall'aspro e mortale veleno, aspidi, scitali, cenchris guaral, dalla testa e dalla coda velenose, parti che gli arabi tagliano via per mangiare il resto, tori, generati dal lupo e dalla iena, dant dalla corsa talmente leggera che nessun altro animale può essergli paragonato ecc.

Più, perché lo si immagina volentieri completamente privo di vita. Invece, in realtà, se anche gli animali sono rari, ce ne sono un po' dappertutto.

Il botanico Ascherson, nel deserto libico, perse la scommessa di trovare almeno una pianta al giorno. Uno zoologo avrebbe vinto: non credo possibile compiere nel Sahara, nemmeno nelle parti morte dell'Erg Chech, nemmeno nel Tanezrouft, un'intera tappa senza scoprire un segno di vita animale - a parte le mosche che circolano a dorso d'uomo -, almeno una pista di coleottero, una formica, una piuma d'uccello, un cadavere di cavalletta. Ma bisogna guardare da vicino, avere un occhio da naturalista.

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Visto che noi abbiamo bisogno di bere tutti i giorni, ci immaginiamo - sancta simplicitas! - che sia così per tutti. Grave errore: una gran quantità di animali, perfino mammiferi - dunque cugini - vive nel Sahara senza bere. E dove mai potrebbe bere, se anche gliene venisse il capriccio?

Da un pozzo di ottanta metri di profondità non è troppo comodo nemmeno per il beduino - pur munito di arti prensili e di vari strumenti come pulegge, corde, délou - estrarre la propria razione di liquido: come volete che una gazzella, un fennec o una lucertola ci riescano?

Evidentemente se piove - «una sola volta non è un'abitudine» - la suddetta gazzella, il fennec in questione o la lucertola appena menzionata incontreranno una pozzanghera e non sarà loro proibito bagnarvi il muso, ma si tratta di un incidente, di un imprevisto, di un dono gratuito, una munificenza divina. Il regime normale è anidrico.

Almeno sotto forma di acqua liquida, perché bisogna bene che gli animali trovino nel cibo quello che non possono assorbire altrimenti e occorre loro perché, del tutto senza acqua, niente più sangue, niente più latte, niente più lacrime, niente più vita.

Per gli erbivori si può ancora capire: la gazzella che bruca un cespuglio di reseda o d'acetosa, l'antilope addax che mordicchia la sua magra porzione di aristida, bevono mangiando. Detto fra noi l' aristida, con i suoi arbusti piumosi e frementi, anche quando sono verdi, non ha un'aria troppo gustosa, ma se piace all'addax...

D'inverno il cammello, in un pascolo di jerjir, può restare mesi senza bere. Anch'io, se vivessi di uva e insalate.

A rigore, ammetto ancora che i rapaci, il ghepardo, il fennec, le lucertole traggano acqua a sufficienza dalle loro prede. Ma queste ultime, roditori che si nutrono di semi secchi, i grossi coleotteri, le termiti, le formiche, dove vanno a prenderla? Enigma fisiologico non ancora risolto e nemmeno studiato.

Il fatto è però indubitabile: gli animali veramente sahariani non bevono o, più esattamente, possono vivere senza bere.

Tutti? Sì, salvo... tre, il ciuffolotto githagine, il colombo torraiolo e la ganga esclusivamente granivori, questi uccelli sono strettamente legati alle fonti d'acqua e non se ne possono mai allontanare.

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