Copertina
Autore Sally Morgan
Titolo La mia Australia
EdizioneTheoria, Roma-Napoli, 1998 [1997], Gli altri 1 , Isbn 978-88-241-0544-6
OriginaleMy Place [1987]
TraduttoreMaurizio Bartocci
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa australiana
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Indice


I     - L'Ospedale                       9
II    - la fabbrica                     19
III   - nell'esercito sarò              27
IV    - quelli che bevono               35
V     - fare finta                      47
VI    - soltanto un sogno               55
VII   - un cambiamento                  61
VIII  - amici e parenti                 69
IX    - vita selvaggia                  77
X     - il toccasana                    89
XI    - fare progressi                  97
XII   - trionfi e fallimenti           109
XIII  - diventar grande                117
XIV   - animali piuttosto particolari  131
XV    - una nonna nera                 139
XVI   - che gente siamo?               149
XVII  - diventa qualcosa               157
XVIII - il mondo del lavoro            167
XIX   - innovazioni alla casa          171
XX    - una nuova carriera             183
XXI   - la confessione                 195
XXII  - un inizio                      203
XXIII - un ospite                      217
XXIV  - volere è potere                225
XXV   - parte della nostra storia      239
XXVI  - legami con il passato          249

La storia (1893 - 1950) di Arthur Corunna
                                       257
XXVII - e dopo?                        309
XXVIII- ritorno a Corunn               317
XXIX  - qualcuno come me               339

La storia (1931 - 1983) di Gladys Corunna
                                       345
XXX   - qualcosa di serio              433
XXXI  - buone notizie                  447

La storia (1900 - 1983) di Daisy Corunna
                                       455
XXXII - il canto dell'uccello          487

Nota del traduttore                    499


 

 

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Pagina 9 [ inizio libro ]

I: L'Ospedale



Di nuovo L'Ospedale, e l'eco dei miei piedi che attraversavano svogliati i corridoi lunghi e vuoti. Odiavo gli ospedali e gli odori degli ospedali. Odiavo le assi nude che brillavano di cera appena passata, i davanzali senza polvere e lo scintillio del cromo lucente che carpiva la mia sagoma distorta mentre passavamo di corsa. Ero una ragazzina impiastricciata di cinque anni in un ambiente alieno.

A volte odiavo Papà perché stava male e odiavo Mamma perché mi costringeva ad andarlo a trovare. Solo di rado Mamma ci portava Jill e Bill, mia sorella e mio fratello minori. Mi trovavo sempre nella posizione piú scomoda. La mia presenza assicurava l'assenza di discussioni. Mamma non ne poteva piú di discussioni, ne aveva abbastanza.

Sospirai nell'attesa di giungere in fondo all'ultimo dei corridoi. C'erano ancora Le Porte che mi aspettavano. Enormi porte massicce sormontate da spessi riquadri di vetro. Oscillavano su pesanti cardini d'ottone, e quando le spingevo verso l'interno, immaginavo che invece loro spingessero me verso l'esterno. Se non fosse stato per il peso in piú di Mamma, che era notevole, mi sarei ritrovata gambe all'aria ogni volta.

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Pagina 49

Quell'anno non c'era molto da imparare, a parte i diversi modi di fingere la malattia. Tutte le lezioni sembravano non avere alcun rapporto con la vita reale. Spesso mi chiedevo come fosse possibile che la mia insegnante avesse cosí tanto interesse per le addizioni che sbagliavo, e cosí poco per i giochi che facevo fuori dalla scuola, o per il fatto che Papà fosse tornato dall'Ospedale oppure no.

La cosa migliore della scuola era che la seconda e la terza condividevano la stessa aula; questo significava che io e Jill ci vedevamo piú spesso e ci sedevamo accanto.

Un pomeriggio la nostra insegnante domandò se ci fossero dei bambini che sapevano cantare in una lingua straniera. Immediatamente quattro bambini alzarono la mano, io e Jill incluse. A un cenno dell'insegnante, i primi due bambini si alzarono e cantarono «Frere Jacques», uno di seguito all'altro. Poi toccò a me e Jill. Eravamo entrambe molto timide e imbarazzate e, con gli occhi bassi, ci spingemmo davanti.

Ci prendemmo sottobraccio e poi, ciondolando energicamente avanti e indietro, cantammo a squarciagola, in italiano, «L'Internazionale».

Mrs. White e il resto della classe restarono a bocca aperta per la nostra fulminea manifestazione di talento teatrale. Di norma evitavamo qualsiasi forma di esposizione pubblica. - Delizioso, ragazze - disse infine - delizioso.

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Pagina 54

I ragazzini a scuola avevano inoltre cominciato a domandarci da quale paese venissimo. Questo mi confondeva perché, fino ad allora, avevo pensato di essere come loro. Se insistevamo nel dire che eravamo australiani, loro replicavano: - Sí, ma i vostri genitori di certo non sono australiani.

Un giorno, mentre stava lavando i piatti, affrontai Mamma.

- Che significa: «Da dove venite?».

- Significa da quale paese. I ragazzini a scuola vogliono sapere da quale paese veniamo. Secondo loro non siamo australiani. Mamma, siamo australiani?

Mamma rimase in silenzio. Nan grugní in modo risentito, poi si alzò da tavola e uscí.

- Dài, Mamma. Che cosa siamo?

- Che cosa dicono i ragazzini a scuola?

- Tutto. Italiani, greci, indiani.

- Digli che siete indiani.

A quel punto divenni tutta eccitata: - Davvero? Indiani! -. Sembrava cosí esotico. - E quando siamo venuti qui? - continuai.

- Tanto tempo fa - rispose Mamma. - Adesso basta con le domande. Digli che siete indiani e basta.

Era bello finalmente avere una risposta e i nostri compagni di gioco furono soddisfatti. Potevano credere senza problemi che eravamo indiani; volevano solamente che non fingessimo di essere australiani quando non lo eravamo.

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Pagina 85

Da quando era morto Papà, Nan aveva elaborato diverse azioni rituali di emergenza per fare fronte a ciò che riteneva possibili calamità naturali. Per i terremoti, ci aveva istruiti di correre sull'aia davanti a casa nostra e di evitare, mentre andavamo, i pali dell'elettricità. E se eravamo tanto sfortunati che la terra ci si apriva davanti, dovevamo saltare il piú in alto possibile, sperando che una volta tornati giú, la terra si fosse nuovamente richiusa.

Nonostante l'eventualità di un grosso terremoto fosse considerata estremamente remota dal resto del nostro vicinato, Nan ci aveva invece convinti che era uno dei pericoli della vita quotidiana. Avevo degli incubi dove mi vedevo correre in pigiama sull'aia mentre i pali della luce elettrica si abbattevano e tuonavano intorno a me.

Oltre ai terremoti, ciò che Nan temeva di piú erano i temporali. I tuoni e i lampi, suoi vecchi favoriti, non mancavano mai di premere il pulsante del suo panico. Sfrecciava per la casa come una tromba d'aria, ci raccoglieva in braccio e poi ci depositava alla rinfusa nell'ingresso. Poi correva in veranda e trascinava dentro una cassa di legna da ardere. Tornava di corsa e cacciava un grosso pezzo di legno pieno di schegge in ogni paio di mani esitanti, con la seguente criptica istruzione: - Bambini, non mollate quel pezzo di legno o finirete fulminati.

Eravamo talmente spaventati che non osavamo muoverci. Mentre eravamo seduti sul pavimento, presi dal panico, Nan si affrettava, di stanza in stanza, a spegnere le luci e a buttare lenzuola sugli specchi, sulle stoviglie, sulle posate, al bagno e persino sul lavandino della cucina. Una volta fatto tutto questo, filava al contatore ed estraeva tutti i fusibili.

Nella testa di Nan, lampi ed elettricità erano la stessa identica cosa, entrambi pericolosi e totalmente indegni di fede. Rimuoveva i fusibili perché questo voleva dire che l'elettricità, incitata dal violento temporale, non poteva scappare e farci del male. Gettava lenzuola e coperte su tutto ciò che luccicava, perché era credenza comune che non c'era nulla che i lampi amassero di piú che una superficie scintillante.

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Pagina 89

X: il toccasana



Dell'arma segreta di Mamma non sapevamo nulla. Aveva rinunciato, a quanto pare, a ogni tentativo di controllo su di noi, rimettendoci invece nelle mani di Dio.

Suppongo che, a modo suo, Mamma sia sempre stata piuttosto religiosa, ma per noi divenne veramente ovvio solo quando diventammo grandi, e dopo la morte di Papà. Occasionalmente, quando ero piú piccola, era stata alle adunanze in chiesa, ma Papà non era molto favorevole a certe cose e questo bastava a scoraggiarne la pratica. Fondamentalmente, credo, la religione e la spiritualità erano per Mamma una questione privata e personale.

Integrava le sue preghiere portandoci a ogni incontro religioso possibile e immaginabile. Quella era una cosa che si poteva dire di Mamma, che in fatto di religione non era prevenuta. Frequentavamo la Chiesa Cattolica Romana, quella Battista, quella Anglicana, la Chiesa di Cristo e quella Avventista dei Settimo Giorno.

La nostra favorita era l'Avventista del Settimo Giorno. Una delle nostre vicine, Mrs. Brown, era un'Avventista del Settimo Giorno, e ogni due fine settimana intratteneva i ragazzini del posto con dei film. I film non ci dispiacevano, anche se il contenuto non cambiava mai. Quasi ogni film era sul diavolo.

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Pagina 142

Sollevò il braccio e con il pugno chiuso picchiò sul tavolo della cucina. - Voi, dannati ragazzini, non mi volete. Voi volete una maledetta nonna bianca; io sono nera. Sentito? Nera, nera, nera! -. Dopo di che, Nan spinse indietro la sedia e corse in camera sua. Rimasi impalata vicino alla porta. Sentivo che la cinghia della mia cartella pesante mi segava la spalla, ma ero troppo sbalordita per togliermela di closso.

Per la prima volta nei miei quindici anni, avevo preso coscienza del colore di Nan. Aveva ragione, non era bianca. Beh, pensai secondo logica, se lei non era bianca, non lo eravamo neanche noi. Dunque, questo fatto, cosa ci faceva diventare, che cosa mi faceva diventare? Non avevo mai pensato a me stessa, prima d'allora, come a una persona nera.

Quella sera, mentre io e Jill eravamo sdraiate a letto in silenzio, guardando un poster di John, Paud, George e Ringo, dissi: - Jill... lo sapevi che Nan è nera?

- Certo che sí.

- Io no, l'ho appena scoperto.

- So che non lo sapevi, a volte sei proprio stupida. Dio, e poi tu pensi che io sia ingenua con tutte le cose di cui tu non ti accorgi.

- Oh...

- Lo sai che non siamo indiani, vero? - mormorò Jill.

- Mamma ha detto che siamo indiani.

- Guarda Nan, ti sembra indiana?

- Non ho mai veramente pensato al suo aspetto. Forse discende da qualche tribú indiana che noi non conosciamo.

- Ah! Allora sí! Tu sai cosa siamo, vero?

- No, cosa?

- Boong,, siamo Boong! -. Vedevo che l'idea non rendeva felice Jill.

Mi ci vollero alcuni minuti prima di riuscire a mettere insieme il coraggio sufficiente per dire; - Che cos'è un Boong?

- Un Boong, sai, aborigeno. Dio, fra tutte le cose, siamo aborigeni!

- Oh - di colpo avevo capito. C'era un grosso marchio d'infamia sociale nell'essere aborigeni nella nostra scuola.

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Pagina 207

Ormai Jill e io avevamo molti amici all'università. Per tutta la vita la gente ci aveva chiesto di che nazionalità fossimo, molti presumevano che fossimo greche o italiane, ma noi avevamo sempre risposto «indiane». Adesso, quando ce lo chiedevano, dicevamo «aborigeni».

Spesso ci raccontavamo a vicenda quale fosse stato l'ultimo commento. Alcune nostre conoscenze avevano detto: - Aah, voi la borsa ce l'avete solo per i soldi -. A quell'epoca la somma della borsa aborigena superava la somma che ricevevano molti studenti. Quando qualcuno ce lo diceva, noi ci sentivamo imbarazzate, perché sapevamo come sembrava la faccenda agli occhi degli altri. Di colpo avevamo cambiato fedeltà dall'India all'Australia aborigena e credo che, ai loro occhi, non c'era altro motivo per cui dovessimo farlo se non per i soldi.

A volte la gente diceva: - Ma siete fortunate, non si sarebbe proprio detto, potreste passare per qualunque cosa -. Molti studenti reagivano con un silenzio d'imbarazzo. Di tutte quella, forse, era la reazione peggiore. Era come se avessimo detto una parola proibita. Altri mormoravano: - Oh, mi dispiace... - e poi quando si rendevano conto di cosa stavano dicendo, sparivano.

Finora, pensandoci, avevamo entrambe pensato che l'Australia fosse il paese meno razzista dei mondo, adesso però sapevamo che le cose stavano diversamente.

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Pagina 338

Anche noi eravamo contenti. E sopraffatti dal pensiero che stavamo quasi per non venire. Che perdita avremmo subito se avessimo lasciato le cose come stavano. Saremmo sopravvissuti, ma non come un unico popolo. Non avremmo mai conosciuto il nostro luogo.

Quel pomeriggio, partimmo per Perth controvoglia. Nessuno di noi voleva ripartire, Paul compreso. Lui al nord c'era cresciuto e gli piaceva moltissimo. Non ci andava di ritornare e raccogliere i fili delle nostre vite. Ormai eravamo persone diverse. Ciò che era iniziato come una ricerca incerta della conoscenza, era cresciuta in un pellegrinaggio spirituale ed emotivo. Ora avevamo una coscienza aborigena e ne eravamo orgogliosi.

Mamma, in particolare, era stata toccata molto profondamente da questo viaggio.

- E pensare che stavo quasi per perdermelo. Sarei rimasta una persona a metà per tutta la vita. Non credo che davvero mi rendessi conto di quanto mi mancasse finché non sono venuta al nord. Grazie a Dio che sei cosí testarda, Sally.

Ci mettemmo tutti a ridere e poi, ricomponendoci, tornammo ai nostri pensieri. C'erano molte cose a cui pensare. Molte cose con cui venire a patti. Conoscevo Mamma; come me stava pensando a Nan. Adesso la vedevamo con occhi diversi. Capivamo meglio la sua amarezza. E piú di ogni altra cosa, volevamo che lei cambiasse, che fosse orgogliosa di ciò che era. Nella gente che avevamo conosciuto ci avevamo trovato molto di lei e di noi. Ora avevamo un'appartenenza. Volevamo che pure lei ne facesse parte.

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Pagina 345

La storia (1931 - 1983) di Gladys Corunna

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Pagina 354

Non conveniva fare arrabbiare Miss Moore, perché aveva un carattere terribile e quando si arrabbiava, infliggeva terribili punizioni corporali.

Le Madri della Casa non facevano mai alcun lavoro. Il loro lavoro era quello di supervisionare. Dopo che avevamo finito la casa, filavamo in lavanderia a lavare i nostri vestiti. C'erano delle signore che venivano a fare le lenzuola, ma le nostre cose ce le lavavamo da sole.

I miei momenti migliori all'Istituto erano il sabato pomeriggio. Dopo aver terminato le faccende, potevamo fare quello che volevamo. Se faceva troppo freddo per andare a nuotare, andavamo a caccia di cibo.

Io avevo sempre fame. Ero come l'orsetto Pooh, il cibo non mi bastava mai. Lo stomaco mi faceva dei rumori tutto il tempo. Impazzivamo per i mirtilli palustri selvatici che crescevano nella boscaglia, erano dolci e succosi. Anno dopo anno tornavamo sempre agli stessi cespugli, erano sempre carichi. Il problema era che piacevano pure alle iguane. Poteva capitare che tu mangiavi da una parte e un'iguana dall'altra, e non te ne accorgevi finché non ti ci incontravi nel mezzo. Non so chi si spaventasse di piú.

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Pagina 402

Bill disse che lui era seduto nella sua solita posa, gambe divaricate, gomiti sulle ginocchia, e scherzava con l'uomo accanto a lui, quando un siluro gli sfrecciò dritto in mezzo; poi esplose e tutti gli finirono addosso.

Quando rinvenne, era coperto di sangue, corpi, braccia e gambe, budella, dita volate via, e non sapeva cosa fosse suo e cosa no. L'intera stiva era ricoperta di parti umane. Pensava di essere spacciato. La nave cominciò a fare acqua. Alcuni uomini tentarono di uscire attraverso il buco laterale aperto dal siluro, ma vennero respinti all'interno dai fiutti e fatti a pezzi dai bordi squarciati. Le scale d'acciaio che conducevano alla parte superiore della stiva erano state distrutte e non c'era via d'uscita.

I sopravvissuti della parte superiore dello stiva gettarono in basso delle funi e il Capitano, un grosso italiano dai capelli rossi, gridava: - Se c'è qualcuno vivo laggiú, che si arrampichi!

Quando finalmente Bill riuscí a emergere da sotto tutti quei corpi, si accorse di essere ancora tutto intero. Aveva dei pezzi di shrapnel conficcati nelle braccia, nelle gambe e sul torace, ma a parte questo stava bene.

Tirò su l'uomo piú vicino a lui che sembrava potesse essere tutto intero, e si arrampicò sulla fune. Quell'uomo era Frank Potter. Bill disse che il Capitano della nave faceva del suo meglio: correva a destra e a sinistra, urlava e bestemmiava in italiano, e cercava di aiutare i feriti.

Il giorno seguente furono rimorchiati da un cacciatorpediniere italiano. Vennero tirati in secco sulle coste greche e i feriti furono portati a riva e fatti sdraiare sulla spiaggia. Bill disse che nella stiva c'erano piú di cinquecento uomini quando furono colpiti. Al siluro ne sopravvissero solo settanta e molti di loro morirono sulla spiaggia.

Alcuni uomini erano gravemente feriti. A peggiorare le cose, non c'era cibo o medicinali. Gli attendenti passavano per la spiaggia e tagliavano le braccia e le gambe che ormai erano rimaste appena attaccate. Per l'operazione usavano asce da guerra, mentre usavano i pugnali per estrarre gli shrapnel. Bill sapeva che se avessero cercato di estrarre da lui i pezzi di shrapnel, sarebbe morto sicuramente. Era emofiliaco e aveva un gruppo sanguigno raro.

Quelli che erano in grado di camminare, vennero fatti marciare fino alla città piú vicina e messi in mostra come un qualche dannato premio importante. Gli uomini gli sputavano addosso e le donne gli tiravano addosso la lavatura dei piatti e orinali pieni di escrementi.

Restarono a Corinto per un po', poi vennero rimbarcati per l'Italia e mandati al Campo 57.

Bill diceva che lí il comandante era un vero fascista, non era come la maggior parte degli italiani. Era durissimo e provava gusto nel vederli soffrire. Aveva un cartello attaccato che diceva Gli inglesi sono maledetti, ma ancor piú maledetti sono quegli italiani che li rispettano!

Gli italiani cominciarono a bombardare la zona vici- no al campo e fu allora che Bill scappò. Le sentinelle erano cosí spaventate che fuggirono lasciando i cancelli spalancati. Dietro di loro scapparono i prigionieri. Bill disse ad Ambercrombe, l'uomo che era con lui: - Non in mezzo alla strada, altrimenti i tedeschi capiscono che ci hanno bombardati e ci riprendono. Giú nel fossato.

Neanche a dirlo, qualche minuto dopo, ecco che arrivano i tedeschi e respingono dentro tutti quanti. Bill e Ambercrombe rimasero nascosti nel fossato fino al calar della notte.

Ambercrombe voleva dirigersi a sud nella speranza di incontrare gli americani, ma Bill lo convinse ad andare a nord, in Svizzera. Viaggiavano soprattutto di notte, rubavano il cibo e dormivano nei campi.

Alla fine arrivarono a una piccola città e si misero a gironzolare vicino al pozzo al centro del paese, speranzosi che qualche persona amica li notasse. Sapevano che da quelle parti c'erano i tedeschi, ma finora non ne avevano incontrato neanche uno. Speravano, quindi, che la loro fortuna durasse.

Arrivò un vecchio e li guardò. Bill aveva imparato qualche parola d'italiano e gli disse chi erano. Il vecchio andò a chiamare il capo, che li portò a casa sua e gli offrí cibo caldo e vino.

Pensarono che fosse un tipo simpatico, finché lui non gli fece delle proposte indecenti. Bill lo afferrò per il colletto e gli disse di metterli in contatto con la Resistenza, altrimenti per lui sarebbero stati guai. Disse che dovevano lasciargli fare una telefonata. Bill si mise ad ascoltare attentamente e capí che stava chiamando i tedeschi. Lo presero e gliele suonarono, rubarono del cibo e se la diedero a gambe prima che arrivassero i tedeschi.

Continuarono a dirigersi al nord, ma, da quel momento, con la paura di entrare in qualunque città. Alla fine erano esausti, disperati. Tennero d'occhio per giorni un'altra piccola città. Sembrava a posto. Entrarono e, ancora una volta, si misero a gironzolare accanto al pozzo. Quando venne una donna a prendere l'acqua, Bill le chiese se potesse condurli dal capo, che si rivelò essere il marito.

Questa volta furono fortunati. Questi italiani qui odiavano la guerra e i tedeschi. Portarono Bill e Ambercrombe in una fattoria sicura gestita da Giuseppe e Maria Bosso e da Edmea, la loro figlia quattordicenne. Bill diceva che erano persone meravigliose, gente di fegato. Lo trattarono come un figlio. Imparò a parlare bene italiano e, siccome somigliava a un italiano del nord, a volte si faceva passare per uno di loro, bevendo vino e intonando canzoni insieme ai tedeschi nella taverna, proprio come facevano gli altri italiani. Cercavano di fare gli amici con i tedeschi; in quel modo, quelli del paese speravano che, durante i loro viaggi periodici, questi non avrebbero controllato troppo a fondo.

Durante il giorno Bill lavorava nei campi con gli altri braccianti.

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Pagina 430

Sono molto orgogliosa dei miei figli e di quello che sono diventati.

Provo imbarazzo adesso a pensare che, una volta, volevo essere bianca. Da bambina speravo persino di venire adottata da una famiglia bianca, naturalmente una famiglia ricca. Da allora sono cambiata.

Sono ancora una vigliacca, quando un estraneo mi chiede di che nazionalità sono, a volte dico di essere un prodotto della Heinz. Quando lo faccio poi sto male. Lo faccio perché ci sono volte in cui, ancora dentro di me, sono spaventata, spaventata di dire chi sono veramente.

Ma, se non altro, ho iniziato. E spero che i miei figli saranno orgogliosi dei loro bagaglio spirituale da cui hanno avuto origine. Se continuiamo tutti a dire che siamo orgogliosi di essere aborigeni, allora forse gli altri australiani capiranno che siamo un popolo di cui essere orgogliosi. Credo che ogni madre voglia che i propri figli raggiungano la grandezza, o quanto meno uno di loro. Tutto quello che desidero che i miei figli facciano, è trasmettere il loro patrimonio aborigeno.

Credo che tra cento anni non sarà rimasto neanche un aborigeno nero. Il nostro colore si estingue. Ci mescoliamo con altre razze e perdiamo alcune delle caratteristiche fisiche che adesso ci contraddistinguono. Mi piace pensare che, a dispetto di quello che diventeremo, il nostro legame spirituale con la terra e le altre qualità uniche che possediamo, in qualche modo si intrecceranno con le future generazioni di australiani. Cioè, questa qui, dopo tutto, è la nostra terra, e di certo abbiamo qualcosa da offrire.

Non è stato un compito facile quello di mettere a nudo la mia anima. Avrei piuttosto preferito tenere nascoste cose che adesso hanno visto la luce del giorno. Ma, come ogni altra cosa nella mia vita, sapevo che dovevo farlo. A volte mi sento imbarazzata per quello che ho detto, ma so che non posso ritrattare quello che è stato scritto. Non mi appartiene più.

L'unico modo in cui posso spiegarlo è per mezzo di una delle mie regole preferite, che però non sempre ho seguito. Lasciatemi percorrere questa strada una sola volta e fare il bene che potrò; questa strada non la percorrerò mai piú. Forse qualcun altro sta camminando su una strada simile alla mia.

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Pagina 496 [ fine libro ]

- Portami un po' di pane tostato, Gladdie - disse Nan con un tono un po' insolente. - Ho fame -. Mamma corse fuori con le lacrime agli occhi.

- Nan - dissi lentamente mentre mi guardava - a proposito del canto, non hai mica avuto paura quando l'hai sentito, vero?

- Uh, no - disse con tono di beffa - era l'uccello aborigeno, Sally. Dio l'ha mandato per dirmi che presto andrò a casa. A casa dalla mia gente e nella mia terra. Lassú ho un posto, mi stanno tutti aspettando.

Mi si formò un groppo in gola, cosí grosso che non riuscivo a parlare, figuriamoci a deglutire. Alla fine, mormorai: - E' fantastico, Nan...

Mamma ritornò con tè e pane tostato. - Era ora - disse Nan sghignazzando. Mangiò un po' e poi si sdraiò.

Credo che adesso dormirò un po' - disse con un sospiro. Uscimmo in punta di piedi.

- Dimmi ancora di quel canto - dissi a Jill.

Il volto di Jill era un misto di paura, sorpresa e trionfo mentre descriveva a me e a Mamma cosa era successo.

- Magari l'avessi sentito anch'io - sospirò Mamma.

- Anch'io - dissi con invidia.

Piú tardi, sussurrai a Mamma: - Sai, Jill deve essere molto speciale per aver sentito quel canto -. Mamma era d'accordo. Entrambe ci chiedemmo cosa il futuro avrebbe riservato a Jill.

Quel giorno Nan ebbe una giornata molto tranquilla. Una giornata felice. Quell'intensa sensazione che aveva avvolto la nostra casa per cosí tanto tempo era sparita, e aveva preso il suo posto un potente senso di calma.

Alla cinque e mezza del mattino seguente, Ruth chiamò un'ambulanza. Nan aveva insistito perché lo facesse.

Mentre la trasportavano fuori, afferrò la mano di Mamma un'ultima volta. Mentre diceva: - Lascia la mia uce accesa per qualche giorno - nei suoi occhi c'era un messaggio non detto.

La misero nell'ambulanza e Ruth salí accanto a lei. Mamma rimase impalata a guardare in silenzio, accettando la decisione di Nan, e sapendo che questo era il suo sacrificio estremo. Voleva la nostra vecchia casa di famiglia libera dalla morte.

Alle sette di quella stessa mattina squillò il mio telefono.

- Sally? Sono Ruth. Nan è morta venti minuti fa. In tranquillità.

- Grazie - sussurrai.

Lentamente riagganciai. Ero impietrita, non riuscivo a muovermi. Improvvisamente le lacrime mi inondarono il viso. Per qualche ragione, le parole che Jill aveva pronunciato il giorno prima riecheggiavano dentro di me. Sentivo il canto dell'uccello, sentivo il canto dell'uccello. Tutt'intorno.

- Oh, Nan - e gridai con improvvisa certezza - anch'io l'ho sentito. Nel mio cuore, l'ho sentito.

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