Copertina
Autore Benny Morris
Titolo Due popoli una terra
SottotitoloQuale soluzione per Israele e Palestina?
EdizioneRizzoli, Milano, 2008, Piccoli Saggi , pag. 232, cop.fle.sov., dim. 11,8x18x1,5 cm , Isbn 978-88-17-02571-3
OriginaleTwo peoples, one land [2008]
TraduttoreDaniele Didero, Domenico Giusti, Ilaria Katerinov
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe storia contemporanea , paesi: Israele , paesi: Palestina
PrimaPagina


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Indice


1. La soluzione monostatuale                          7

2. Storia delle soluzioni monostatuale e bistatuale  35

3. Il futuro?                                       159

Bibliografia                                        199

Note                                                207



 

 

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Pagina 12

Il ragionamento di Judt è abbastanza semplice: l'idea di Israele, come quella del nazionalismo etnico in generale, ha perso la sua forza di attrazione in seguito alle guerre jugoslave degli anni Novanta, e non è più in grado di supportare dal punto di vista ideologico né di rafforzare l'esistenza di uno Stato ebraico. Oggi viviamo «in un'epoca» che rigetta l'ipotesi di uno Stato in cui «una comunità – gli ebrei – è posta al di sopra delle altre». Lo Stato ebraico, afferma Judt, è stato fondato «troppo tardi», «un tipico progetto separatista tardo-ottocentesco» sovrimposto su «un mondo che nel frattempo è andato avanti, un mondo caratterizzato dai diritti individuali, dalle frontiere aperte e dal diritto internazionale». Judt lascia intendere che, almeno concettualmente, lo Stato-nazione è morto e che «l'idea stessa di uno "Stato ebraico" [...], radicata in un altro tempo e in un altro spazio [...], è un anacronismo [...] . In un mondo dove le nazioni e i popoli sono sempre più amalgamati e imparentati [...]; dove gli impedimenti culturali e nazionali alla comunicazione sono quasi completamente superati [...]; dove un numero sempre crescente di noi ha molteplici identità scelte da sé [...]; in un mondo come questo, Israele è davvero [un] disfunzionale [anacronismo]».

A questa critica generale, in linea di principio, Judt ne aggiunge una seconda, dal carattere più pratico: il processo di pace israelo-palestinese degli accordi di Oslo degli anni Novanta, basato sul presupposto che il risultato ultimo sarebbe stata la creazione di due Stati, è morto, sostanzialmente a causa dell'ostruzionismo israeliano, e non è più possibile resuscitarlo. Non ci può essere – né ci sarà – alcuna spartizione del territorio israelo-palestinese in due Stati. E, sul campo, la realtà demografica (considerando il tasso di nascite di gran lunga più elevato degli arabi e l'attuale situazione demografica, con una popolazione israeliana di 5,4 milioni di ebrei e di 1,3 milioni di arabi, ai quali vanno sommati i 3-3,8 milioni – il numero esatto è oggetto di disputa – di arabi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) implica che Israele non potrà più rimanere a lungo uno Stato che sia al contempo ebraico e democratico.

Nel giro di un decennio o due, tra il Giordano e il Mediterraneo ci saranno più arabi che ebrei. (Di fatto, il geografo Arnon Sofer dell'Università di Haifa sostiene che nel 2020 la popolazione complessiva tra il Giordano e il Mediterraneo raggiungerà i 15,5 milioni di individui, con solo 6,4 milioni di ebrei e 8,8 milioni di arabi, dando vita a una realtà binazionale, anche se caratterizzata da una sostanziale maggioranza araba. Il tasso di nascita arabo-palestinese è il più alto del mondo. La crescita naturale dei musulmani palestinesi è stimata al 3 per cento l'anno; tra la minoranza araba che vive in Israele e la popolazione palestinese della Cisgiordania è del 3,1 per cento; tra le popolazioni beduine che vivono nel sud di Israele arriva al 4,5-5 per cento, e tra gli arabi della Striscia di Gaza è del 3,5-4 per cento l'anno. Per fare un confronto: nel 2006 la crescita annuale della popolazione in Egitto era di circa il 2 per cento, in Turchia dell'1,3 per cento e in Iran dell'1,2 per cento. Nel 2007, il tasso di crescita naturale di Israele era dell'1,5 per cento.) Per continuare a governare l'intera Palestina, gli ebrei dovranno espellere o tutti o la maggior parte degli arabi in modo da assicurarsi che il Paese mantenga una maggioranza e una connotazione ebraiche, o istituire un regime di apartheid tiranneggiando su una maggioranza araba privata dei diritti civili, prospettiva che la società israeliana molto probabilmente aborrirebbe. Nessuna di queste due opzioni, mirate alla conservazione dell'ebraicità dello Stato, potrebbe considerarsi realistica, afferma Judt.

L'unica alternativa per Israele sarebbe quella di ritirarsi dai territori occupati e di facilitare la nascita di uno Stato arabo-palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, cosa che permetterebbe allo Stato israeliano di rimanere ebraico e democratico. Ma ciò non potrebbe succedere e non succederà, dice Judt: è ormai «troppo tardi per que- sto». Ci sono «troppi insediamenti [e] troppi coloni ebrei». I 400.000 coloni israeliani stabilitisi nei territori occupati a partire dal 1967 non accetteranno di vivere in uno Stato arabo-palestinese, e nessun leader israeliano avrà il coraggio, o il potere politico, di sradicarli con la forza, di abbandonarli a se stessi o di reprimere la loro rivolta così come Ben-Gurion, nel 1948, aveva schiacciato le milizie ebraiche dissidenti di destra, l'IZL (Irgun Zvai Le'umi, Organizzazione militare nazionale, che le autorità del Mandato britannico chiamavano l'«Irgun») e i LHI (Lohamei Cherut Yisrael, Combattenti per la libertà di Israele, che le autorità del Mandato britannico chiamavano la «Banda di Stern»). Il trauma politico, ideologico ed economico di un tale sradicamento, che rischierebbe di sfociare in una guerra civile ebraica, sarebbe troppo insostenibile per Israele. Quindi, non si verificherà.

Qual è dunque, per Judt, la soluzione? Ai suoi occhi, essa consiste nella creazione di «un singolo Stato binazionale integrato di ebrei e arabi, israeliani e palestinesi». E questa, aggiunge Judt, non è soltanto una cosa «sempre più probabile», ma è anche «un esito di fatto desiderabile». Dopotutto, «la maggior parte dei lettori di queste argomentazioni vive in Stati pluralisti che sono ormai da molto tempo multietnici e multiculturali». Come esempi di questo milieu pluralista, egli indica Londra, Parigi e Ginevra.

Judt, un ebreo della diaspora, confessa che uno dei motivi di questa sua perorazione è che «gli ebrei non-israeliani si sentono ancora una volta esposti alle critiche e vulnerabili agli attacchi per azioni di cui non sono responsabili [per esempio, per il comportamento tenuto da Israele nei territori occupati]. Ma questa volta è uno Stato ebraico, non un Paese cristiano, a tenerli sotto scacco a causa del suo comportamento». «La deprimente verità» dice Judt ai suoi lettori «è che oggi Israele rappresenta un danno per gli stessi ebrei.»

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A grandi linee, ci sono due alternative future per la realtà geopolitica israelo-palestinese: o come un unico Stato oppure separata in due Stati. Ci potrebbe anche essere una tripartizione, con Israele e due Stati palestinesi separati (uno in Cisgiordania e l'altro nella Striscia di Gaza), ma questa divisione, basata sull'attuale spartizione politica della Striscia di Gaza (sotto il controllo di Hamas) e del cuore della Cisgiordania (governata dall'azione congiunta dell'Autorità nazionale palestinese (ANP) con Fatah), sarebbe inevitabilmente destinata a non durare, poiché gli abitanti arabi dei due territori sono di fatto un unico popolo, in ogni senso, ed è improbabile che possano procedere a lungo su traiettorie politiche diverse (inoltre Gaza, date le sue minuscole dimensioni – 360 chilometri quadrati, con 40 chilometri da nord a sud e 6,5-12 chilometri da est a ovest –, è difficilmente considerabile come un candidato per un'esistenza politica indipendente. La storia, naturalmente, è piena di sorprese, ma pare difficile presumere che questa sia una di esse).

E così bisogna scegliere tra un unico Stato, esteso su tutto il territorio della Palestina del Mandato britannico, tra il Giordano e il Mediterraneo (circa 26.000 chilometri quadrati), oppure due Stati, ossia l'area dello Stato di Israele prima del 1967 (circa 21.000 chilometri quadrati) per gli ebrei e il grosso della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (circa 5000 chilometri quadrati) per gli arabi. Ci sono numerose possibili permutazioni. Guardiamo innanzitutto la varietà di soluzioni monostatuali proposte in passato o nel presente.

Una prima alternativa, che può essere scartata abbastanza rapidamente, è che lo Stato israelo-palestinese venga governato, come un'unica entità politica, non dai propri gruppi nazionali indigeni ma da un terzo elemento esterno, che siano le Nazioni Unite o una grande potenza o un gruppo di grandi potenze. L'idea, data l'evidente difficoltà di trovare una sintesi tra le posizioni politiche fondamentali delle due parti in causa, non è poi così bizzarra come potrebbe sembrare. Nel periodo tra le due guerre mondiali, numerosi Paesi sono stati governati da grandi potenze attraverso la formula dei mandati della Lega delle Nazioni; in tempi più recenti, la Germania, il Giappone, parti dell'ex Congo Belga e l'ex portoghese (ed ex indonesiano) Timor Est sono stati temporaneamente governati da grandi potenze o dalle Nazioni Unite. La stessa Palestina, tra il 1917-18 e la metà del 1948, è stata governata dalla Gran Bretagna sotto il mandato della Lega delle Nazioni. (Prima di allora, la Palestina era stata amministrata dall'impero ottomano, ma ciò ha poco a che vedere con il discorso che stiamo facendo, sia perché negli ultimi decenni dell'impero non c'era una sostanziale presenza ebraica, nel Paese (nel 1881 c'erano circa 25.000 ebrei e 450.000 arabi, e nel 1914 60-85.000 ebrei e 650.000 arabi) e non c'era un reale conflitto «nazionale» tra gli ebrei e gli arabi, sia perché la Palestina non era governata come un'unica entità politica o amministrativa, bensì come un gruppo di sottodistretti, amministrati dalle capitali provinciali di Damasco o Beirut o, nel caso del sottodistretto di Gerusalemme, direttamente da Istanbul.)

Ma il Mandato britannico non ebbe successo, in quanto il governo inglese non riuscì a trovare o a imporre una soluzione per le divisioni arabo-sioniste, o a preparare la popolazione del Paese a un autogoverno unitario congiunto.

Data la crescita della coscienza nazionale arabo-palestinese (e del movimento nazionale palestinese) che si è avuta in seguito, e date le realtà dei numeri e del potere sionista, è altamente improbabile che i due gruppi accettino la definitiva soppressione delle loro rispettive aspirazioni nazionali all'interno della cornice di un'amministrazione internazionale permanente; e la violenza che scoppierebbe quasi subito nel caso che un simile governo internazionale dovesse essere imposto con la forza verrebbe senza dubbio a minare, prima o poi, la disponibilità ad andare avanti di qualunque autorità internazionale. Un governo internazionale provvisorio – che non è inconcepibile, pur essendo anch'esso altamente improbabile – ci lascerebbe poi allo stesso punto di prima, alla ricerca di una soluzione a medio e lungo termine al problema arabo-sionista. A quanto pare, l'ipotesi di un governo straniero esterno su una singola entità politica non è in grado di offrirci nessuna soluzione.

Più rilevanti sono invece tre formule realistiche fondamentali per una soluzione monostatuale: uno Stato con sovranità congiunta arabo-ebraica, basato su una qualche forma di condivisione dei poteri tra le due comunità etniche (come l'Accordo del venerdì santo nell'Irlanda del Nord) o su diritti individuali senza che vi siano diritti intestati a entità etniche collettive (come nel caso del Sudafrica post-apartheid), che possono essere definite entrambe come forme di binazionalismo; uno Stato governato dagli ebrei, con o senza una grande o piccola minoranza araba; e uno Stato governato dagli arabi musulmani, con o senza una grande o piccola minoranza ebraica. Ho scritto «arabi musulmani» perché la percentuale di cristiani tra gli arabi palestinesi è considerevolmente diminuita dal 1947, quando era il 10 per cento. Oggi i cristiani fra gli arabi palestinesi sono meno del 5 per cento, e il loro numero continua a scendere in seguito all'emigrazione in Occidente (soprattutto dalla Cisgiordania: Betlemme oggi è una città a maggioranza musulmana). La percentuale di cristiani fra i cittadini arabi di Israele è più alta, ma considerando il tasso di natalità di gran lunga più elevato dei musulmani e una certa misura di emigrazione cristiana, anche la percentuale di cristiani nella minoranza araba di Israele risulta in declino. Così, l'elemento cristiano nella realtà israelo-palestinese è di fatto trascurabile e politicamente irrilevante. (I nazionalisti arabo-palestinesi, sia di Fatah sia di Hamas, amano parlare dei «musulmani e cristiani» palestinesi quando espongono le loro tesi in Occidente, ma questo è un mero trucco propagandistico del tutto privo di sostanza e di attendibilità; in fin dei conti, la principale ragione per cui gli arabi cristiani continuano ad abbandonare la Terra Santa è stata ed è la paura dei musulmani e dei loro eventuali futuri eccessi, che è anche la causa dell'emigrazione dei cristiani dall'Iraq. Durante gli anni Venti-Quaranta, molti arabi cristiani sarebbero stati felici se la Gran Bretagna avesse continuato per sempre a governare il Paese, e alcuni di loro preferivano probabilmente che fossero gli ebrei, e non i musulmani, a sostituire l'amministrazione del Mandato.)

Mi soffermerò più ampiamente su questi argomenti in seguito, ma per il momento lasciatemi sottolineare che le due varianti più semplici e più logiche di soluzione monostatuale sono quella di uno Stato arabo senza nessuna scomoda presenza ebraica e quella di uno Stato ebraico senza nessuna scomoda presenza araba. Stiamo quindi parlando della questione dell'espulsione. L'idea di una Palestina etnicamente ripulita era stata ripetutamente sollevata dal movimento nazionale arabo-palestinese negli anni Venti-Quaranta, e ci sono fondati motivi per credere che questo fosse l'obiettivo dell'assalto arabo contro l' yishuv – la comunità ebraica in Palestina – nel 1947-48 (o, perlomeno, che questo sarebbe stato il suo esito se tale assalto avesse avuto successo). Dall'altro lato, l'idea di una parziale o totale espulsione degli arabi palestinesi da parte degli ebrei venne discussa e appoggiata da gran parte della leadership sionista tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta, sullo sfondo della Rivolta araba del 1936-39 e dell'Olocausto, e in un certo modo questa linea di pensiero contribuì alla creazione del problema dei profughi arabi nel 1948.

Tanto basti, per il momento, per ciò che riguarda le possibili soluzioni monostatuali. Passiamo ora a quelle bistatuali. Un'ipotesi di questo tipo, che risale all'accordo fra l'Agenzia ebraica e la Transgiordania del 1946-47, prevedrebbe la spartizione della Palestina in due Stati tra gli ebrei e il regno di Giordania, con uno Stato ebraico-israeliano nella Palestina occidentale e uno Stato giordano-cisgiordano - una «Grande Giordania» – governato da Amman nella Palestina orientale. Questa spartizione, presa in considerazione anche nel piano Allon della fine degli anni Sessanta, contemplerebbe quindi una soluzione bistatuale basata su una divisione israelo-giordana del Paese, senza nessuno Stato arabo-palestinese e con la maggior parte degli arabi palestinesi che vivrebbe nella parte della Palestina incorporata dalla Giordania.

Oggi, però, un simile scenario bistatuale, considerando l'attivismo e la forza del nazionalismo arabo-palestinese, è qualcosa di altamente improbabile (anche se alcuni pensatori palestinesi parlano, in termini piuttosto vaghi, di una federazione o confederazione giordano-palestinese che dovrebbe essere creata qualche anno dopo che una divisione abbia dato alla luce uno Stato arabo-palestinese indipendente accanto a Israele).

Ma, a partire dal 1937, la maggior parte delle riflessioni su una soluzione bistatuale ha gravitato attorno all'idea di una divisione della Terra d'Israele (la Palestina storica) tra i suoi due popoli indigeni, gli ebrei e gli arabi palestinesi. Fin dalla nascita di Israele nel 1948-49, e più enfaticamente a partire dalla fine degli anni Ottanta, le discussioni sulla spartizione si sono concentrate sulla possibilità di una coesistenza tra uno Stato ebraico, Israele, definito territorialmente in base ai confini stabiliti negli accordi di armistizio arabo-israeliani del 1949, e uno Stato arabo-palestinese, che sarebbe dovuto sorgere nella maggior parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Una soluzione di questo tipo è abbracciata dalla comunità internazionale, in testa alla quale troviamo Washington, e il suo raggiungimento è l'obiettivo ufficiale delle politiche sia del governo di Israele sia dell'ANP, guidata dal presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ma se un simile accordo sia stato o sia tuttora auspicabile anche dal popolo palestinese e dalla popolazione ebraica di Israele, è una questione che affronteremo nei capitoli successivi.

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I sionisti della prima ora erano consapevoli della presenza araba nel Paese; erano poco meno di mezzo milione intorno al 1882, l'anno in cui i primi sionisti approdarono a Jaffa. All'epoca c'erano circa 25.000 ebrei nel Paese, ma i sionisti prevedevano che con l'immigrazione di massa, graduale o anche repentina, la presenza ebraica sarebbe diventata maggioritaria. Come scriveva Ben-Yehuda in un'altra lettera, nel 1882: «Il fine ultimo è far rivivere la nostra nazione sulle sue terre [...] se solo riusciremo ad aumentare di numero fino a diventare maggioranza [corsivo nell'originale] [...]».

I sionisti vedevano gli arabi come intrusi, i cui antenati nel VII secolo avevano conquistato — o rubato (benché all'impero cristiano bizantino, non agli ebrei) — e poi islamizzato e arabizzato la Palestina, una terra che apparteneva ad altri. E nell'Ottocento, la grande maggioranza degli arabi nell'impero ottomano, pur avendo in comune una lingua, una coscienza storica e una cultura, non covava ambizioni o sentimenti nazionalisti; si accontentava di vivere come sudditi dell'impero musulmano dell'epoca. Negib 'Azoury, l'ex funzionario ottomano (cristiano libanese) e araldo del nazionalismo arabo, fu tra i primi e tra i pochi a prevedere, già nel 1905, uno scontro tra il nascente nazionalismo arabo (non il nascente nazionalismo arabo-palestinese, che all'epoca non era neppure lontanamente ipotizzato) e il nazionalismo ebraico. In Le réveil de la nation arabe dans l'Asie turque, pubblicato in quell'anno, aveva sottolineato «il risveglio della nazione araba e lo sforzo segreto degli ebrei per ricostituire su vastissima scala l'antico Regno di Israele». I due movimenti, scriveva 'Azoury, «sono destinati a combattersi finché uno dei due non prevarrà».

I coloni sionisti iniziarono a stabilirsi in Palestina nel 1882; all'epoca forse non c'era ancora un «nazionalismo» arabo, ma gli abitanti arabi della Palestina iniziarono subito a criticare e a temere il forte afflusso sionista, vedendo in esso una minaccia all'«arabicità» del loro Paese e forse, nel lungo periodo, una minaccia alla stessa permanenza degli arabi nel Paese. A partire dal 1891 iniziarono a fare petizioni a Costantinopoli per fermare l'afflusso dei sionisti, l'acquisto di terre e la colonizzazione e, anche se in un primo momento solo raramente e in modo scoordinato, ad attaccare i coloni ebrei.

Da parte loro, i primi coloni sionisti non si consideravano i protagonisti in un dramma di nazionalismi rivali, né antagonisti per il possesso della terra. Come i coloni europei in altre zone del mondo, ritenevano i nativi degli oggetti, come parte del panorama, o come briganti fastidiosi; certamente non dei potenziali nemici nazionalisti. E, in quanto sionisti, ovviamente, sostenevano che la Terra di Israele appartenesse agli ebrei e a nessun altro.

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Il futuro?



Nel precedente capitolo, ho tracciato le separate traiettorie percorse prima del 1948 dal pensiero politico sionista e da quello arabo-palestinese riguardo a quello che desideravano fosse il futuro della Palestina. Ho mostrato che inizialmente entrambi i movimenti nazionali — il movimento nazionale ebraico-sionista a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento e il movimento nazionale arabo-palestinese a partire dagli anni Venti del Novecento — cercarono rispettivamente di conquistare la sovranità sull'intero Paese.

La principale corrente del movimento sionista, guidata da politici e partiti pragmatici e minacciata dall'assalto nazista contro gli ebrei in Europa oltre che da quello arabo in Palestina, tra il 1937 e il 1947, accettò gradualmente l'idea di condividere o spartire il Paese con gli arabi, non per altruismo o per un senso di correttezza, ma perché si rendeva conto che questo, e nulla di più, era quanto la storia poteva offrire agli ebrei, e perché c'era il bisogno immediato di un porto sicuro, per quanto piccolo. Fu per queste ragioni che l' yishuv, in generale, salutò con gioia, danzando per le strade, la risoluzione di spartizione dell'ONU del 29 novembre 1947. All'indomani della guerra del 1948, il Paese venne di fatto diviso, con gli ebrei che fecero la parte del leone (circa 21.000 chilometri quadrati, che divennero il territorio dello Stato di Israele), e gli arabi che andarono a occupare la Cisgiordania e Gerusalemme Est (sotto il controllo giordano) e la Striscia di Gaza (sotto il controllo egiziano).

Nel corso degli anni che vanno dal 1949 al 1967, la maggioranza degli israeliani, e la loro serie di successivi governi a guida laburista, accettarono la spartizione de facto del Paese. Ma, nel 1967, la vittoria nella Guerra dei Sei giorni e l'occupazione dei territori risvegliarono in molti il desiderio di costituire un «Grande Israele», che avrebbe dovuto abbracciare l'area già controllata da Israele prima del 1967 e i territori appena occupati della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza (e, forse, anche le alture del Golan e alcune parti della penisola del Sinai). Il governo laburista in carica, guidato da Levi Eshkol, iniziò a stabilire degli insediamenti nei territori occupati, e i suoi successori, Golda Meir e Yitzhak Rabin (e il ministro della Difesa di quest'ultimo, Shimon Peres), portarono moderatamente avanti questa politica. L'iniziativa venne quindi grandemente rafforzata dopo l'avvento al potere del Likud, nel 1977. Senza dubbio, la fondazione, l'esistenza e l'espansione degli insediamenti, specialmente nel cuore collinare della Cisgiordania, venne a complicare il lavoro dei leader intenzionati a siglare la pace con i palestinesi e a raggiungere un accordo bistatuale. Gli arabi palestinesi rifiutavano insediamenti ebraici nel loro «Stato» dopo l'eventuale ritiro israeliano (anche se, naturalmente, non vedevano nulla di sbagliato nella presenza di numerose dozzine di villaggi e cittadine arabe nel territorio di Israele), e i governi israeliani erano restii a sradicare gli insediamenti o anche solo a tenere a freno la spinta alla colonizzazione, sia perché alcuni ministri appoggiavano l'espansione, sia per la riluttanza a scontrarsi con i coloni e i loro sostenitori di destra. Ciò venne a limitare la capacità del governo di compiere dei passi in avanti verso un accordo con i palestinesi.

Sia come sia — ed è chiaro che l'espansione della colonizzazione era contrastata da gran parte dell'opinione pubblica israeliana (e, dopo il 1987, senza dubbio dalla maggioranza) – la popolarità della Weltanschauunge spansionista del Likud si dimostrò di vita breve. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la penisola del Sinai venne restituita all'Egitto in cambio della pace; e, in seguito allo scoppio della Prima intifada nel dicembre 1987, la maggioranza degli israeliani si convinse di quanto fosse auspicabile liberarsi dal fardello dell'occupazione delle aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, con la loro cospicua popolazione palestinese. Questo desiderio trovò la propria espressione politica nelle elezioni del 1992, quando il Likud venne sconfitto e i laburisti poterono ritornare al governo, con Yitzhak Rabin come primo ministro. Da allora in poi, la politica israeliana è stata dominata, perlopiù, da partiti – i laburisti, Kadima – oltremodo consapevoli delle dinamiche demografiche che stavano inesorabilmente conducendo verso la presenza di una maggioranza araba in un eventuale «Grande Israele», e desiderosi di separarsi dai palestinesi e dai loro territori e di raggiungere un accordo definitivo basato sull'esistenza di due Stati. Anche la leadership del Likud è infine arrivata ad accettare l'idea secondo cui, a lungo termine, governare su un altro popolo (ostile) non sarebbe più stata una strada percorribile. Nel 2000, sotto il governo laburista di Ehud Barak, Israele ha cercato, con l'aiuto statunitense, di concludere un accordo bistatuale con Arafat e l'OLP; nell'estate del 2005, il successore di Barak, Ariel Sharon, il capo del nuovo partito Kadima, ha sradicato unilateralmente gli insediamenti israeliani e ha richiamato le Forze israeliane di difesa dall'intera Striscia di Gala, segnalando inoltre la propria intenzione di fare lo stesso, anche nel grosso della Cisgiordania se i palestinesi si fossero dimostrati non disposti a raggiungere un accordo che portasse alla formazione di due Stati. Israele ha quindi iniziato a costruire una barriera – per la maggior parte sotto forma di recinzione, in alcuni piccoli tratti come muro – per separare il territorio israeliano vero e proprio da circa il 93 per cento della Cisgiordania, al fine di gettare le basi sul campo per una soluzione bistatuale da raggiungersi attraverso un accordo, oppure, in sua assenza, per mezzo di una decisione unilaterale. Era quindi questa, quella dell'imperativo demografico – oltre al desiderio di tener fuori gli attentatori-suicidi arabi –, la logica che stava dietro alla costruzione della barriera, non la discriminazione o la volontà di rubare la terra araba (anche se, nel tracciarne il percorso, i pianificatori avevano incluso nello Stato ebraico un'area territoriale un po' più ampia rispetto a quella che le proposte di Clinton avevano destinato a Israele come cessione dalla Cisgiordania).

Ma la possibilità di un ritiro unilaterale israeliano dalla Cisgiordania è stata in seguito complicata dal fatto che, dopo il ritiro da Gaza, i fondamentalisti islamici hanno continuato a usare l'area come una rampa di lancio per incessanti attacchi missilistici contro gli insediamenti israeliani di confine, incluse le città di Sderot e Ashkelon (con una popolazione di 120.000 abitanti). I leader israeliani hanno iniziato a temere – cosa del tutto naturale – che un analogo ritiro dalla Cisgiordania sarebbe stato seguito da un molto più pericoloso lancio di razzi contro i centri più popolati del Paese, ovvero Gerusalemme e l'area di Tel Aviv. È oggi chiaro che nessun leader israeliano intraprenderà un ritiro dalla Cisgiordania – unilateralmente o in accordo con i palestinesi – prima che le IDF abbiano acquisito la capacità tecnologica di proteggere i propri centri abitati dagli attacchi missilistici a corto raggio. Gli scienziati americani e israeliani stanno lavorando sugli armamenti necessari a tale scopo, inclusi i cannoni laser, ma un sistema del genere non potrà essere operativo prima del 2013 e non è certo che si dimostrerà veramente efficace. Inoltre, le contromisure – raggi laser e missili antimissile – attualmente in fase di sviluppo sono talmente più costosi dei primitivi razzi Qassam che un attrito prolungato tra le due forze potrebbe impoverire Israele al punto di rendere i sistemi di difesa stessi non funzionanti a causa di assenza di manutenzione.

La maggioranza degli israeliani è ancora favorevole a un ritiro dalla Cisgiordania nel quadro di un accordo di pace con i palestinesi. È incerto se una maggioranza del genere ci sarà anche in sostegno di un ritiro unilaterale. Non è nemmeno chiaro se la maggior parte degli israeliani sarebbe favorevole a un accordo che preveda il ritiro di Israele da tutta – o gran parte di – Gerusalemme; di certo, non approveranno un tale ritiro che non sia accompagnato da un completo e definitivo accordo di pace. Ma la schiacciante maggioranza degli israeliani, come i sondaggi continuano a mostrare da decenni, sono favorevoli alla spartizione e a un accordo bistatuale che ponga fine al conflitto.


Questa è stata l'evoluzione politica del sionismo. Quella del movimento nazionale arabo-palestinese è stata radicalmente diversa. Anzi, di fatto non c'è stata alcuna evoluzione.

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Ma nonostante quanto finora detto, la società ebraica israeliana rimane in gran parte laica e i valori in essa predominanti sono quelli democratici occidentali. Questi valori sono difficilmente compatibili con quelli autoritari e religiosi della società arabo-palestinese, che si sta spostando costantemente verso una sempre maggiore religiosità. Quarant'anni fa, erano poche le donne arabe in Israele e nei territori palestinesi che indossavano foulard o veli; oggi costituiscono la quasi totalità. Decenni fa, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (e a Gerusalemme Est) c'erano diverse sale cinematografiche funzionanti; oggi non ce n'è nessuna. La subordinazione delle donne e l'ostracismo – o, meglio, il disprezzo – degli omosessuali sono la norma nella società della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (così come nella maggior parte del mondo arabo), e i delitti d'onore, sia nella società araba israeliana sia nei territori palestinesi, di mogli, sorelle e figlie – per aver infranto i codici d'abbigliamento tradizionali, o per essere andate a letto, o anche per aver semplicemente flirtato, con gli uomini sbagliati – sono comuni. Nella società ebraica israeliana, questi comportamenti sociali non sono affatto la norma. E Hamas, un'organizzazione antidemocratica, ha dimostrato con la sua presa del potere nella Striscia di Gaza, nel giugno 2007, di non aver rispetto per quelli che in Occidente sono percepiti come i valori della civiltà, e di essere pronto a liberarsi anche della loro semplice apparenza, come un serpente muta la sua pelle, non appena non gli tornerà più utile fingere di accettarli.

La mentalità e i valori di base della società ebraica israeliana e di quella musulmana palestinese sono talmente differenti e incompatibili da far sì che l'ipotesi di uno Stato binazionale possa essere considerata sostenibile solo da menti incapaci di valutare la realtà dei fatti. Il valore attribuito alla vita umana e al governo della legge (laica) è completamente diverso, come ha mostrato, nello stesso Israele, lo iato tra i dati statistici ebraici e arabi riguardo al crimine e alle violazioni del codice della strada che portano a incidenti letali (il cui numero tra gli arabi è di circa il 100 per cento più alto di quello che si registra fra gli ebrei). E a questi sistemi di valori antitetici vanno aggiunte le differenti, e spesso contrastanti, storie e memorie collettive delle due società, le loro diverse lingue e culture e il profondo divario economico che le separa. (Un espressione di quest'ultimo divano è data dal fatto che gli arabi israeliani e della Cisgiordania sono responsabili di un numero sproporzionato di crimini contro la proprietà in Israele.) Ognuno di questi fattori, preso da solo, costituirebbe probabilmente una barriera insuperabile al successo del binazionalismo.

E, naturalmente, ci sono gli ostacoli politico-ideologici. Dal lato ebraico, il problema fondamentale è presto detto: il sionismo è nato per risolvere la questione ebraica attraverso la creazione di un'entità politica ebraica, abitata e governata in gran parte, se non esclusivamente, da ebrei, un posto dove gli ebrei potessero finalmente vivere non come una minoranza nella casa di qualcun altro, chiedendo il suo permesso. E il sionismo ha raggiunto questo suo obiettivo nel 1948 con la fondazione di uno Stato a maggioranza ebraica. Sessant'anni dopo, questo è ciò che continua a desiderare la stragrande maggioranza degli ebrei; essi si rifiutano di condividere la sovranità del loro Stato con un altro popolo, e senza dubbio resisteranno con accanimento a ogni tentativo di trasformarli in una minoranza all'interno di quella che considerano la loro terra. E la maggior parte degli ebrei israeliani è convinta che questo sarebbe il risultato ultimo della creazione di uno Stato binazionale, dato il tasso di nascite più elevato degli arabi e il possibile ritorno in massa dei profughi palestinesi.

Ma, dal lato arabo, l'atteggiamento di rifiuto è come minimo altrettanto radicale. L'idea di condividere la Palestina (come, di fatto, la condivisione di qualunque terra arabo-musulmana con non-musulmani e non-arabi) – o attraverso una spartizione del Paese in due Stati, uno ebraico e l'altro arabo, o attraverso un'entità binazionale unitaria, basata sulla parità politica tra le due comunità – è aliena alla mentalità arabo-musulmana. A partire dal VII e dall'VIII secolo, quando le tribu hijazi partirono dall'Arabia e conquistarono le terre (in gran parte cristiane) del Medio Oriente e dell'Africa del Nord, spingendosi fino alla Francia meridionale, gli arabi musulmani hanno dominato, con le leggi e con la forza, nel loro ambiente sociale e politico, anche quando, come nei primi anni dell'ondata islamica, gli arabi musulmani erano in minoranza. E, dopo aver occupato aree non-arabe, gli arabi musulmani hanno sempre cercato di conquistare la maggioranza, attraverso le conversioni forzate, i massacri e/o le espulsioni. Dall'VIII o IX secolo, gli arabi musulmani hanno rappresentato la maggioranza nel mondo islamico e lo hanno dominato politicamente, e si sono sempre più abituati a questa posizione di dominio; il concetto stesso di condividere il potere o di essere una minoranza in uno Stato che non sia arabo-musulmano è per loro inconcepibile. Nel mondo arabo-musulmano, non ci sono mai state strutture politiche binazionali o bireligiose. Ci sono soltanto delle entità politiche in cui gli arabi musulmani sono i padroni oppure, se in minoranza, in cui aspirano a ottenere la maggioranza e a comandare.

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