Copertina
Autore Kate Morton
Titolo Ritorno a Riverton Manor
EdizioneSonzogno, Milano, 2007 , pag. 522, cop.ril.sov., dim. 14x22,5x3,5 cm , Isbn 978-88-454-1408-4
OriginaleThe Shifting Fog
EdizioneWarner Books, New York, 2005
TraduttoreMassimo Ortelio
LettoreLuca Vita, 2007
Classe narrativa australiana , narrativa inglese
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Pagina 15

IL RISVEGLIO DEI FANTASMI



Lo scorso novembre ho avuto un incubo.

Era il 1924 e mi trovavo di nuovo a Riverton. Le porte erano tutte spalancate e la brezza estiva gonfiava le tende di seta. Un'orchestra appollaiata in cima alla collina sotto l'antico acero, i violini che cantavano pigri nella calura. Risate scroscianti e tintinnar di cristalli riempivano l'aria e il cielo aveva quella sfumatura d'azzurro che pensavamo tutti fosse stata distrutta per sempre dalla guerra. Uno dei valletti, nell'impeccabile divisa bianca e nera, versava champagne in cima a un castello di bicchieri e tutti battevano le mani, deliziati da tanta prodigalità.

Vedevo me stessa, come ci si vede a volte in sogno, in mezzo alla folla degli invitati. Mi muovevo lentamente, molto più lentamente di quanto non sia possibile nella vita reale, e gli altri ospiti non erano che un ammasso confuso di seta e paillette.

Stavo cercando qualcuno.

Poi la scena cambiava e mi trovavo accanto al padiglione del giardino, solo che quello non era il padiglione di Riverton... non lo era affatto. Al posto dello splendido edificio disegnato da Teddy c'era una vecchia costruzione con l'edera che si arrampicava sui muri, insinuandosi fin dentro le finestre e strangolando i pilastri.

Qualcuno stava chiamando il mio nome. Era una donna, di cui riconoscevo subito la voce, da dietro il padiglione, dalla sponda del lago. Scendevo lungo il pendio, strusciando le mani contro le canne. Una figura accovacciata sulla riva.

Era Hannah, con l'abito da sposa imbrattato di schizzi di fango fra le rose ricamate. Alzava lo sguardo verso di me, il volto pallido seminascosto dall'ombra. La sua voce mi gelava il sangue. "Troppo tardi." Indicava le mie mani. "Troppo tardi."

Io mi guardavo le mani, mani di ragazza coperte dalla melma scura del fiume, e fra di esse il corpicino, rigido e freddo, di un foxhound.


Ovviamente so cos'è stato. La lettera di quella regista. Non ricevo molta posta, ormai: qualche cartolina da amici in vacanza, una lettera impersonale dalla banca, l'invito al battesimo di un bimbo i cui genitori, mi accorgo con stupore, non sono più i bambini che ricordavo.

La lettera di Ursula era arrivata un martedì mattina di fine novembre e Sylvia me l'aveva portata quando era venuta a rifare il letto. Aveva sollevato le sopracciglia pesantemente segnate dalla matita, agitando la busta.

"C'è posta. Dal francobollo si direbbe che venga dagli Stati Uniti. Suo nipote, forse?" Il sopracciglio sinistro aggrottato, come un punto di domanda, Sylvia aveva aggiunto sottovoce, in un sussurro roco: "Che brutta storia. Proprio terribile. Un così bel ragazzo".

La ringraziai per la lettera e lei fece schioccare la lingua con rammarico. Mi piace Sylvia. È una delle poche persone capaci di scorgere oltre le rughe del mio viso la ventenne che vive ancora dentro di me. Però non mi va di parlare di Marcus. Le chiesi di aprire le tende e lei strinse le labbra un istante per poi passare a un altro dei suoi argomenti preferiti: il tempo. Avrebbe nevicato a Natale? Che disastro sarebbe stato per gli ospiti artritici del ricovero. Io rispondevo alle sue domande ma avevo la mente altrove. Fissavo la busta sul mio grembo, incuriosita dalla grafia nervosa, dal francobollo straniero, da quei margini gualciti che tradivano un travaglio prolungato.

"Vuole che gliela legga io?" disse Sylvia speranzosa, finendo di sprimacciare i cuscini. "Così si riposa gli occhi."

"No. Grazie. Però forse potresti passarmi gli occhiali."

Appena se ne fu andata, con la promessa di tornare per aiutarmi a vestirmi dopo aver finito il giro, tirai fuori la lettera dalla busta, con mani tremanti, chiedendomi se Marcus si fosse finalmente deciso a tornare.

Non era di Marcus. A scrivermi era una giovane donna che voleva fare un film sul passato. Mi invitava a visitare il set, a rievocare per lei cose e luoghi di un tempo lontano. Come se non avessi trascorso tutta la vita illudendomi di averli dimenticati.

Ignorai la lettera. La ripiegai con cura infilandola zitta zitta fra le pagine di un libro che avevo smesso di leggere da un pezzo. E sospirai. Non era la prima volta che qualcosa veniva a rammentarmi le cose accadute a Riverton, a Robbie e alle sorelle Hartford. Una sera avevo visto l'ultima parte di un documentario sui poeti di guerra che Ruth stava seguendo alla televisione. Quando il volto di Robbie era apparso sullo schermo con sotto il suo nome scritto in corsivo, mi era venuta la pelle d'oca. Ma tutto era finito lì. Ruth non aveva fatto una piega, la voce fuori campo aveva proseguito il racconto e io mi ero rimessa ad asciugare i piatti della cena.

Un'altra volta, leggendo la recensione di un programma nella guida-Tv, mi era caduto l'occhio su un nome familiare. Era un documentario dedicato ai settant'anni di vita del cinema britannico. Presi nota dell'orario, con il cuore che batteva forte, chiedendomi se avrei avuto il coraggio di guardarlo. Andò a finire che mi addormentai durante la trasmissione. C'era ben poco su Emmeline. Qualche foto pubblicitaria, nessuna delle quali rendeva giustizia alla sua bellezza, e il trailer di uno dei suoi film in bianco e nero, The Venus Affair, dove quasi non sembrava lei, con le guance scavate e i movimenti goffi da marionetta. Neanche una parola sugli altri film, quelli che avevano rischiato di dare scandalo. Suppongo non meritino neppure di essere citati, in quest'epoca di promiscuità e lassismo.

Ma anche se queste memorie si erano riaffacciate in precedenza nella mia mente, la lettera di Ursula fu tutt'altra cosa. Era la prima volta in oltre settant'anni che qualcuno collegava me a quegli eventi, ricordando che una giovane donna di nome Grace Reeves si trovava a Riverton quell'estate. Mi faceva sentire in qualche modo vulnerabile, scoperta. Colpevole.

No. Ero decisa: la lettera non avrebbe ottenuto risposta.

E fu così.

Poi però accadde qualcosa di strano. Ricordi consegnati da lungo tempo ai più oscuri recessi della mente presero a filtrare dalle crepe. Le immagini saltavano fuori dal nulla in ordine sparso ma perfettamente nitide, come se non fosse passata una vita da allora. E presto quelle prime gocce esitanti si mutarono in diluvio. Interi dialoghi, parola per parola, sfumatura per sfumatura, come le scene di un film.

Sono sorpresa di me stessa. Sebbene le tarme abbiano divorato mesi interi delle mie memorie più recenti, scopro che il passato più remoto è chiaro e vivido. Ultimamente vengono a trovarmi spesso i fantasmi di quel passato e mi accorgo con stupore che non mi turbano più di tanto. Non quanto pensavo. In realtà gli spettri da cui sono scappata per una vita intera sono diventati per me quasi una consolazione, li accolgo con piacere e ne pregusto l'arrivo, come i telefilm di cui Sylvia parla continuamente, sbrigandosi a finire il giro per correre a vederli giù nella sala della ricreazione. Avevo dimenticato queste memorie lucide nel buio.

La settimana scorsa, quando è arrivata la seconda busta con la stessa grafia nervosa sulla stessa carta sottile, ho capito subito che avrei detto di sì, che sarei andata a visitare il set. Ero curiosa, una sensazione che non provavo da tempo. C'è poco da essere curiosi a novantotto anni, ma volevo conoscere questa Ursula Ryan che intende riportarli tutti in vita e sembra tanto appassionata alle loro vicende.

Così le ho scritto una lettera, ho mandata Sylvia a spedirla e ci siamo date appuntamento.

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SAFFRON HIGH STREET



Sta per piovere. La mia schiena è molto più precisa di qualunque stazione meteorologica e la notte scorsa sono rimasta sveglia, con le ossa doloranti, a rimpiangere sottovoce la perduta elasticità. Mentre mi sforzavo invano di inarcare e sciogliere il mio scheletro contratto, il fastidio si è trasformato in frustrazione, la frustrazione in noia e la noia in terrore. Il terrore che la notte non avesse più fine, la paura di rimanere intrappolata per sempre in quella galleria deserta e sconfinata.

Basta. Non voglio più rimuginare sulle mie debolezze. È seccante perfino per me stessa. Comunque alla fine devo essermi addormentata perché stamattina mi sono svegliata, e a quanto mi consta se non c'è una cosa non può esserci l'altra. Ero ancora a letto, con la camicia da notte arrotolata intorno alla vita, quando una ragazza con le maniche della camicia rimboccate fino al gomito e una lunga treccia (non lunga come la mia, s'intende) ha fatto irruzione in camera e ha tirato le tende per far entrare un po' di luce. Non trattandosi di Sylvia, ho capito che deve essere domenica.

La ragazza — Helen, stando alla targhetta — mi ha trascinata come un sacco dentro la doccia, brancandomi per le braccia, lo smalto del colore delle more che affondava nella mia carne flaccica e bianca. Si è gettata la treccia oltre la spalla e ha iniziato a insaponarmi il torace e le membra, sfregando via la patina sottile della notte. Intanto canticchiava una canzone che non conosco. Dopo avermi doverosamente purificata mi ha fatta sedere sul sedile di plastica lasciandomi da sola sotto lo scroscio d'acqua calda. Aggrappandomi alle maniglie con entrambe le mani sono riuscita a chinarmi in avanti, sospirando mentre l'acqua dava un po' di sollievo alla mia povera schiena.

Sempre con l'aiuto di Helen mi sono asciugata, vestita e preparata, e alle sette e mezzo ero seduta nel refettorio. Sono riuscita a mandar giù un pezzo di pane tostato che sembrava gomma e una tazza di tè prima che Ruth arrivasse per portarmi in chiesa.

Non che io sia profondamente religiosa. Anzi, a un certo punto della mia vita avevo perso la fede ed ero in collera con quel padre amorevole che lasciava i suoi figli in balia degli orrori terreni. Ma ho fatto la pace con Dio molto tempo fa. Niente ammorbidisce le persone come la vecchiaia. Inoltre a Ruth piace andare in chiesa, e per quello che mi costa.

Siamo in Quaresima, il periodo di meditazione e pentimento che precede la Pasqua, e stamattina il pulpito era coperto da un drappo color porpora. Il sermone è stato abbastanza gradevole. Parlava di colpa e perdono (due concetti attinenti all'impresa che ho deciso di compiere). Il pastore ha letto un brano dal Vangelo di Giovanni, incitando i fedeli a non dare ascolto ai predicatori di sventure millenaristiche, cercando la pace in Cristo. "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non attraverso di me." Poi ci ha invitati a seguire l'esempio degli Apostoli, all'alba del primo millennio. Con l'eccezione di Giuda, ovviamente: c'è ben poco di raccomandabile in un tizio che vende Cristo per trenta pezzi d'argento e poi si impicca.

È nostra abitudine, dopo la funzione, fare una piccola passeggiata fino a High Street per prendere il tè da Maggie's. Andiamo sempre da Maggie's, anche se Maggie se l'è filata da un pezzo con il marito della sua migliore amica. Stamattina, mentre percorrevo lentamente la lieve discesa di Church Street, con la mano di Ruth sul mio braccio, ho notato che le prime, impazienti gemme cominciano a spuntare sulla siepe lungo il marciapiede. La ruota ha compiuto un altro giro e la primavera è alle porte.

Ci siamo riposate un momento su una panchina, sotto l'olmo secolare il cui tronco mastodontico serve da incrocio fra la Church e la High Street. Il sole invernale filtrava fra la trina di rami spogli, scaldandomi la schiena. Sono strane le terse giornate di fine inverno, quando l'aria può essere fredda e tiepida a un tempo.

Quand'ero ragazza queste vie erano affollate di cavalli, carrozze e calessi. Dopo la guerra anche di automobili: Austen e Tin Lizzie, con i guidatori seminascosti dagli occhialoni e lo strepito dei clacson. Le strade allora erano sterrate, piene di tombini e sterco di cavallo. Anziane signore che spingevano carrozzine con le ruote a raggi e giovanissimi strilloni dallo sguardo vacuo.

La venditrice di sale si piazzava sempre sull'angolo, dove adesso c'è il distributore di benzina. Vera Pipp: una donnina col berretto di lana e la pipa di coccio perennemente appesa al labbro. Nascosta dietro la gonna di mia madre, io guardavo intimorita la signora Pipp, mentre sollevava con un grosso uncino le lastre di sale dal suo carretto per poi ridurle in pezzi più piccoli con la sega e il coltello. Compariva spesso nei miei incubi, con la pipa di coccio e l'uncino scintillante.

Il banco dei pegni invece era dall'altra parte della strada con l'inconfondibile insegna, le tre palle d'ottone, presente all'inizio del secolo in ogni città della Gran Bretagna. Io e mia madre ci andavamo tutti i lunedì a impegnare i vestiti della domenica per pochi scellini. Al venerdì, quando la modista le pagava il lavoro di rammendo, mi mandava a riscattarli.

Il mio preferito però era il droghiere. La bottega è rimasta identica a quella di allora, ma ai miei tempi era gestita da un uomo alto e magro con l'accento marcato e le sopracciglia ancora più marcate che si adoperava, assieme alla moglie tracagnotta, per soddisfare le richieste dei clienti, anche le più insolite. Perfino in tempo di guerra, il signor Georgias riusciva a procurarti un buon pacchetto di tè, e a un prezzo giusto. Ai miei occhi di bambina quel negozio era il paese delle meraviglie. Andavo sempre a sbirciare dalla vetrina, sbavando davanti alle scatole colorate del malto in polvere Horlicks, ai biscotti allo zenzero Huntley & Palmer. Ghiottonerie che noi non ci potevamo certo permettere. I banconi erano colmi di burro e gialle forme di formaggio, confezioni di uova, a volte ancora tiepide, fagioli secchi che il droghiere pesava con la bilancia d'ottone. Certi giorni, i giorni migliori, mia madre si portava una pentola da casa e il signor Georgias la riempiva fino all'orlo di melassa scura...

Ruth mi ha dato un colpetto sul braccio e mi ha aiutata a tirarmi su. Poi ci siamo rimesse in cammino verso la tenda a righe bianche e rosse un po' sbiadite di Maggie's. Abbiamo ordinato il solito – due tazze di English breakfast e una focaccina dolce in due – e ci siamo sedute al tavolo davanti alla vetrina.

La ragazza che ci ha servite era nuova del posto e anche del mestiere, temo, a giudicare dalla goffaggine con cui reggeva i piattini, uno per mano, tenendo quello della focaccina in precario equilibrio sul polso.

Ruth le ha rivolto un'occhiata di rimprovero, aggrottando le sopracciglia davanti alle pozze che si erano inevitabilmente formate nei piattini. Tuttavia si è trattenuta, per compassione, e non ha aperto bocca, stendendo i tovagliolini di carta fra tazza e piattino per assorbire il liquido versato.

Abbiamo sorseggiato il tè in silenzio, come al solito, finché Ruth non mi ha avvicinato il piatto con la focaccina dolce, dicendo: "Mangia anche la mia parte. Sei tanto magra".

Volevo ricordarle la massima della signora Simpson: una donna non è mai troppo ricca né troppo magra, ma ho preferito lasciar perdere. Il senso dell'umorismo non è mai stato il suo forte e ultimamente sembra averla abbandonata del tutto.

In effetti sono dimagrita. Ho perso l'appetito. Avverto ancora lo stimolo della fame ma non sento più i gusti. E quando l'ultima delle tue papille gustative avvizzisce e muore, muore con essa anche la voglia di mangiare. È buffo: da giovane lottavo disperatamente per adattarmi all'ideale di bellezza suggerito dalla moda – braccia sottili, seni piccoli, viso esangue –, e ora che sono vecchia sono diventata esattamente così. Non che m'illuda per questo di assomigliare a una Coco Chanel.

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Passò anche il Natale e la biblioteca di lord Ashbury fu dichiarata esente dalla polvere. Dopo Santo Stefano, nonostante il gran freddo, la signora Townsend mi spedì a Saffron Green a sbrigare una commissione. Lady Violet aveva in mente di organizzare un pranzo di Capodanno per raccogliere fondi a favore del suo comitato d'accoglienza per i profughi belgi. Nancy le aveva sentito dire che era pronta a estendere l'iniziativa anche ai rifugiati francesi e perfino portoghesi, qualora fosse stato necessario.

Secondo la signora Townsend, niente faceva fare bella figura in un pranzo importante quanto l'autentica pasticceria greca del signor Georgias. Non che fosse alla portata di cani e porci, precisò gonfia d'alterigia, soprattutto di quei tempi. Certo che no. Così mi ordinò di andare in drogheria a comandare il servizio speciale per la signora Townsend di Riverton.

A dispetto della temperatura glaciale, ero felice di andare in paese. Dopo le lunghe festività – Natale, e adesso Capodanno – mi faceva piacere uscire un po', stare da sola, trascorrere una mattinata lontano dall'incessante controllo di Nancy. Dopo qualche mese di pace relativa, la cameriera aveva ripreso a starmi alle costole, sgridandomi e correggendomi di continuo. Avevo la spiacevole sensazione che mi stesse preparando a qualche nuovo e imprevedibile incarico.

Inoltre un motivo personale e segreto mi spingeva verso il villaggio. Era da poco uscito il quarto romanzo di Arthur Conan Doyle basato sulle inchieste di Sherlock Holmes, e io mi ero accordata con un ambulante perché me ne procurasse una copia. Mi sarebbe costato i risparmi di sei mesi, ma per la prima volta avrei acquistato un libro nuovo. La valle della paura. Il titolo bastava già a mandarmi in sollucchero.

L'ambulante viveva con la moglie e sei figli in una casetta grigia infilata in mezzo a tante altre identiche, nel quartiere fatiscente dietro la stazione, dove l'aria puzzava sempre di carbone. Il selciato era annerito e una coltre di fuliggine copriva í lampioni. Bussai piano alla porta sbilenca e aspettai. Sul gradino sedeva un bimbetto che non doveva avere più ditre anni, con le scarpine sudicie e un maglione consunto. Picchiava sul pluviale con un bastone. Le ginocchie nude erano disseminate di croste e livide per il freddo.

Bussai di nuovo, più forte questa volta. Finalmente la porta si aprì e comparve una donnina magra come un rastrello, con il pancione seminascosto dal grembiule e un neonato dagli occhi arrossati in braccio. Non fiatò, fissandomi con uno sguardo spento, mentre cercavo le parole.

"Salve", dissi, sforzandomi di imitare i modi spicci di Nancy. "Grace Reeves. Sto cercando il signor Jones."

Silenzio.

"Sono una cliente", ritentai, balbettando, e le mie parole assunsero un'inopinata cadenza interrogativa. "Sono qui per un libro?"

Dal fremito quasi impercettibile delle sue palpebre, intuii che aveva capito. Sollevò il bimbo sul fianco ossuto e chinò la testa verso l'interno della casupola. "Di là."

La donna si spostò e io m'infilai dentro, dirigendomi nell'unica direzione consentita dalla minuscola casetta. Oltre la soglia c'era la cucina impregnata dal fetore del latte rancido. Seduti al tavolino, due ragazzi macilenti giocavano con dei sassi sul legno di pino pieno di graffi.

Il più grande mandò la sua pietra a cozzare contro quella del fratello, dopo di che alzò gli occhi, due piccole lune piene nel volto scavato. "Stai cercando papà?"

Annuii.

"È fuori a lubrificare il carretto."

Vista la mia aria smarrita, il ragazzetto puntò il ditino verso la porta di legno accanto alla stufa.

Annuii di nuovo, sforzandomi di sorridere.

"Presto comincerò a lavorare come lui", fece il ragazzetto, gli occhi fissi sul sasso, in attesa di ripetere il tiro. "Appena avrò compiuto otto anni."

"Fortunello", disse l'altro con invidia.

Il più grande si strinse nelle spalle. "Qualcuno deve mandare avanti la baracca mentre papà è via. E tu sei troppo piccolo."

Mi avvicinai alla porticina e la spinsi.

Al di là della corda del bucato, da cui pendevano lenzuola e camicie ingiallite, scorsi l'ambulante intento a ispezionare le ruote del suo carretto. "Dannato terrovecchio", brontolò fra i denti.

Io mi schiarii la voce e l'uomo si voltò di colpo sbattendo la testa contro l'asta del barroccio.

"'Fanculo!" L'ambulante mi diede un'occhiata, la pipa che penzolava dal labbro.

Mi sforzai di ritrovare la voce di Nancy, non ci riuscii e allora dissi con l'unica voce che avevo: "Sono Grace. Sono qui per il libro?" Poi siccome l'uomo non fiatava aggiunsi: "Sir Arthur Conan Doyle?"

L'ambulante si appoggiò al carro. "Lo so chi siete." Il suo fiato aveva l'odore dolciastro del tabacco. Si pulì le mani sporche di grasso nei calzoni e disse: "Stavo aggiustando il carro per il ragazzo".

"Quando partite?"

L'uomo si voltò a guardare il cielo, al di là dei pallidi fantasmi appesi alle corde. "Il mese prossimo. Fanteria di marina." Si passò la mano sporca sulla fronte. "E da quando ero bambino che sognavo di vedere l'oceano." Mi guardò negli occhi e la desolazione sul suo volto mi costrinse a distogliere lo sguardo. Sua moglie, il neonato e i due ragazzini ci osservavano dalla finestra della cucina. Il vetro irregolare e appannato dalla fuliggine dava l'impressione che le loro facce fossero riflesse in uno stagno melmoso.

L'ambulante aveva seguito il mio sguardo. "Uno può passarsela bene sotto le armi", disse. "Con un po' di fortuna." Poi gettò via lo straccio e aggiunse: "Venite, il libro è in casa".

La transazione ebbe luogo nell'angusto tinello, dopo di che mi accompagnò alla porta. Evitai con cura di guardarmi intorno per non vedere di nuovo le facce affamate dei bambini. Mentre uscivo sentii il più grande che diceva: "Cos'ha comprato la signora, papà? Del sapone? Sapeva di sapone. Era una bella signora, vero, papà?"

Iniziai a camminare in fretta, più in fretta che potevo senza mettermi a correre. Volevo allontanarmi da quella casa e da quei bambini tanto poveri da scambiare una semplice domestica, come me, per una ricca signora.

Fu con sollievo che svoltai in Railway Street, felice di lasciarmi alle spalle il lezzo opprimente del carbone e della miseria. Non ero certo ignara delle asprezze della vita, c'erano stati giorni in cui io e mia madre avevamo faticato a tirare avanti. Ma Riverton mi aveva cambiata. Solo in quel momento me ne resi conto. Mi ero abituata al calore, alle comodità, all'abbondanza. e cominciavo a dare tutto ciò per scontato. Mentre camminavo in fretta, attraversando la strada dietro il carro del lattaio, le guance che mi bruciavano per il freddo pungente, giurai a me stessa che non sarei mai più tornata indietro. Non avrei perso il posto, come mia madre.

Poco prima dell'incrocio con High Street, mi infilai sotto una tenda e riparai in un andito, contro un portone nero con sopra una targa d'ottone. Ogni mio respiro si tramutava in candide nuvolette. Tirai fuori il mio prezioso acquisto dal cappotto e mi tolsi i guanti.

Gli avevo dato appena un'occhiata a casa dell'ambulante, solo per accertarmi che fosse il libro giusto. Ora potevo finalmente studiarne la copertina, passare le dita sulla rilegatura di cuoio, sfiorando i caratteri incisi sul dorso, La valle della paura. Sussurrai quelle parole così suggestive e mi avvicinai il libro al naso, inebriata dall'odore dell'inchiostro. Il profumo delle possibilità.

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All'improvviso qualcosa si mosse nell'ombra delle scale e un attimo dopo una donnetta di mezz'età si materializzò sulla soglia.

"Signorina Starling..." balbettò sorpreso il signor Hamilton. "Non vi avevo vista. Entrate. La nostra Grace vi preparerà subito una tazza di tè." Si voltò verso di me con le labbra più strizzate di un borsellino e disse indicando la stufa: "Coraggio, Grace. Una tazza di tè per la signorina Starling!"

La signorina Starling si schiarì la voce, indugiando un momento sulla soglia. Poi andò in punta di piedi verso la sedia più vicina, una cartellina di cuoio stretta sotto il braccio lentigginoso.

Lucy Starling era la segretaria del signor Frederick. Assunta originariamente per la fabbrica di Ipswich, alla fine della guerra, quando la famiglia si era trasferita a Riverton in pianta stabile, aveva iniziato a venire due volte la settimana a lavorare nello studio del signor Frederick. Aveva un aspetto assolutamente ordinario. Capelli castano chiaro nascosti sotto un modesto cappellino di paglia, gonna dalle spente sfumature marrone e oliva, una camicetta bianca. L'unico suo vezzo, un piccolo cammeo color crema, pareva consapevole della propria mediocrità dal modo in cui si voltava di continuo a rivelare la modesta chiusura d'argento.

Aveva perduto il fidanzato a Ypres e portava il lutto allo stesso modo dei vestiti, con monocorde semplicità, un dolore troppo composto per suscitare compassione. Nancy, che era esperta in queste cose, diceva che era un vero peccato che avesse perso un uomo disposto a sposarla, perché il fulmine non colpisce mai due volte nello stesso posto, e con quell'aspetto e quell'età quasi sicuramente era destinata a rimanere zitella. Nancy aggiungeva, saggiamente, che avremmo fatto bene a controllare che non sparisse nulla dalla casa, peeché la signorina Starling poteva aver bisogno di pensare alla propria vecchiaia.

Né quelli di Nancy furono gli unici sospetti destati dalla segretaria. L'arrivo di questa donnina cheta, riservata e, a detta di tutti, coscienziosa, creò un'agitazione fra noi domestici che oggi sarebbe addirittura inimmaginabile.

Era la sua stessa collocazione a causare tanta inquietudine. Non era giusto, diceva la signora Townsend, che una piccolo-borghese si prendesse quelle libertà nella casa dei signori, sedendosi nello studio del padrone, andando in giro a pavoneggiarsi e assumendo atteggiamenti in netto contrasto con la sua condizione sociale. Era difficile accusare la signorina Starling di pavoneggiarsi - con i suoi capelli color topo, i vestiti fatti in casa e quel sorrisetto schivo. Tuttavia, capivo perfettamente il cruccio della signora Townsend. I confini fra piani alti e servitù erano sempre stati chiari e netti, ma con l'arrivo della signorina Starling le vecchie certezze avevano iniziato a cadere.

Per qualche tempo, insomma, la segretaria non era stata né una di Loro né una di Noi.

La sua improvvisa comparsa in cucina quel pomeriggio fece arrossire d'imbarazzo il signor Hamilton che cominciò a tormentarsi nervosamente il bavero della giacca. La situazione, già di per sé anomala, sgomentava il signor Hamilton che vedeva una possibile avversaria nell'ignara donnetta. Infatti, se il maggiordomo, in quanto capo della servitù, sovrintendeva a ogni aspetto della vita domestica, la donnetta, in quanto segretaria particolare del padrone, aveva accesso ai più segreti affari di famiglia.

Il signor Hamilton estrasse l'orologio d'oro dal taschino e confrontò ostentatamente l'ora con quella dell'orologio sulla parete. La cipolla era un regalo di lord Ashbury, e lui ne andava immensamente fiero. Aveva il potere di rasserenarlo e lo aiutava a mantenere la propria autorevolezza quando era in difficoltà. Alla fine si passò il pollice pallido sulla fronte e disse: "Dov'è Alfred?"

"Sta apparecchiando, signor Hamilton", risposi, felice che l'opprimente cappa di silenzio fosse venuta meno.

"Ancora?" Il signor Hamilton chiuse l'orologio con un colpo secco. Finalmente aveva trovato un obiettivo su cui sfogare il suo nervosismo. "Sarà almeno un quarto d'ora che è salito con i ballon per il brandy. In tutta franchezza il ragazzo mi preoccupa. Vorrei sapere cosa gli hanno insegnato sotto le armi. Da quando è tornato è volubile come una piuma."

Trasalii, come se quella critica fosse rivolta a me.

"È tipico dei reduci", disse Nancy. "Ne arrivano certi alla stazione con delle facce... strane." La cameriera smise di strofinare i bicchieri da vino nello sforzo di trovare le parole giuste. "Sembrano tutti un po' nervosi... agitati."

"E ci credo", intervenne la signora Townsend scuotendo la testa. "Ha solo bisogno di qualche buon bocconcino. Anche tu saresti agitata dopo aver mangiato per anni le razioni dell'esercito. Voglio dire, cos'è che gli davano: carne in scatola?"

La signorina Starling si schiarì la voce e disse in tono compito: "Mi pare che la chiamino nevrosi da guerra". Si guardò intorno intimidita dal silenzio che era caduto nella stanza. "Almeno così ho letto. Molti dei nostri soldati ne sono affetti. Non bisogna essere troppo duri con Alfred."

Alcune foglioline di tè mi scivolarono dalla mano piovendo sul tavolo di pino.

La signora Townsend posò il matterello e si rimboccò le maniche infarinate fino ai gomiti. Il sangue le imporporava le guance. "Ora statemi bene a sentire", disse con un'autorità che non le spettava e che è appannaggio di solito di madri e poliziotti. "Non mi vanno per niente questi discorsi. Alfred non ha nulla che non possa essere curato dalla mia cucina!"

"Certo, signora Townsend", dissi guardando negli occhi la signorina Starling. "Grazie ai vostri manicaretti il nostro Alfred tornerà presto sano come un pesce."

"Non posso più fare le buone cose di un tempo, purtroppo, per colpa di quegli U-boat e del razionamento", aggiunse la cuoca con un lieve tremito nella voce, fissando la segretaria. "Ma so perfettamente quali sono i piatti preferiti del giovane Alfred."

"Naturalmente", mormorò la signorina Starling con un imbarazzo tradito dall'improvvisa comparsa delle lentiggini sulle sue guance palline. "Non intendevo affatto..." Le sue labbra continuarono a muoversi nella vana ricerca delle parole giuste. Poi s'irrigidirono in un sorrisetto tirato. "Naturalmente voi conoscete Alfred molto meglio di me."

La signora Townsend annuì con decisione e tornò soddisfatta all'attacco della sfoglia. La tensione si era in qualche modo alleggerita e il signor Hamilton si voltò verso di me, il viso segnato da quel pomeriggio faticoso. "Sbrigati con il tè, ragazza", disse. "E appena avrai finito sali ad aiutare le signorine a vestirsi per la cena. Non metterci troppo, però. Devi ancora sistemare i segnaposto e i fiori sulla tavola."

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