Autore Paolo Mottana
Titolo Cattivi maestri
SottotitoloLa controeducazione di René Schérer, Raou Vaneigem e Hakim Bey
EdizioneCastelvecchi, Roma, 2014, I Timoni , pag. 126, cop.fle., dim. 15x22x1,3 cm , Isbn 978-88-68262-01-3
LettoreGiangiacomo Pisa, 2015
Classe filosofia , pedagogia , scuola , universita' , lavoro , esoterismo









 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    Introduzione                  7


    René Schérer                 11

    Raoul Vaneigem               53

    Hakim Bey                    83


    Note                        113

    Bibliografia                117

_______________________________________


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione


Ancora una volta occorrono guide indiane, cattivi maestri, astuti pirati che ci aiutino a dissequestrare la nostra vita, la nostra educazione, il nostro pensiero dalle trappole cui sono stati inchiodati. Non possiamo più aspettare, viviamo nell'insostenibile, sopportiamo in uno stato stuporoso il furto del tempo, del godimento, della bellezza. Persi in rotte poco battute, i mentori di un'altra storia fanno cenno. Questo libro tenta di aggrapparsi al loro richiamo, troppo spesso eluso e sabotato, ed è dedicato a tutti coloro, tutti e nessuno, che ancora si accorgono della deprivazione sistematica che ci affligge.

René Schérer , esploratore dei confini in cui l'infanzia si fa erranza e desiderio, stato liminare in cui sono ribaltate tutte le ovvietà dei catechismi educativi e in cui finalmente il mondo è un inesauribile flusso di scambi e di possibilità inaudite. Raoul Vaneigem , mentore di una vita finalmente ricomposta con l'orizzonte del possibile, dissacratore e scopritore di un libero pensiero a partire dal quale tutti gli idoli e i feticci di due millenni di civiltà appaiono finalmente per quello che sono, gogne cui siamo appesi come cadaveri. Hakim Bey , pirata autentico, guru, mistico sufi e gran maestro dell'insurrezione poetica e nomade, animatore della grande utopia delle T.A.Z., zone di autodeterminazione radicale.

Autori accomunati dall'appartenenza a un humus che trova nella rivoluzione del Sessantotto il suo nucleo di condensazione. Il Sessantotto che, a onta di quello che oggi troppo spesso si proclama polemicamente, rimane un periodo esaltante di emancipazione politica e culturale dai vincoli delle teologie e delle metafisiche, un «evento» a partire dal quale è maturata una inedita prospettiva societaria, per quanto poi sistematicamente tradita e si è dischiusa una potente disposizione alla sovversione e all'esplorazione dei limiti del pensiero e dell'esperienza.

Se i primi due hanno attinto la loro irriducibilità e il loro singolarissimo antagonismo soprattutto dagli esponenti più radicali della cultura francese, da Breton, Bataille, Artaud a filosofi come Bergson, Foucault, Deleuze, allo strutturalismo e al post-strutturalismo filosofici ma anche a una ricerca antropologica e sociologica davvero plurale e raffinatissima, il terzo si è ispirato ad alcuni filoni della tradizione anarchica, ha alimentato il gusto dell'investigazione plurale nel mondo della differenza e dell'eversione societaria, contaminando brillantemente la mistica sufí e un originale ermetismo «egualitario» con la cultura beatnik e un nomadismo erotico e allucinato.

Schérer, Vaneigem e Bey appaiono figure in cui si intrecciano felicemente molte delle riflessioni e delle più elaborate discussioni che hanno animato il Novecento e che hanno condotto ad affrontare alcuni dei nodi più rigidi e persistenti dell'esperienza dell'uomo contemporaneo proprio sui terreni vitalissimi della cultura, del desiderio e dell'educazione.

[...]


Naturalmente si tratta di una selezione che non pretende di esaurire il campo di espressioni, riflessioni e proposte che insistano nello stesso solco. Accanto a questi, altri autori, da Paul Goodman a Wilhelm Reich, da Fernand Deligny a Georges Lapassade a Ivan Illich e a molti altri, talora meno noti, hanno certamente contribuito a intrecciare i fili, ricchi di corrispondenze, intorno a un'autentica controcultura dell'educazione. Ad essi, come irriducibili «cattivi maestri» di un'educazione che non si metta al servizio del «sequestro pedagogico», delle pratiche violente di conformazione al sistema di cui le istituzioni educative sono state nel tempo i maggiori agenti, crediamo occorra volgersi per continuare nel difficile sentiero di un'altra educazione, di un'altra vita, una vita al centro della quale l'antica ispirazione fourierista dell'attrazione appassionata, significativo perno di rilancio di un'ecosofia e di una controfilosofia dell'educazione capace di resistere a questo nostro tempo distruttivo e feroce, resti l'orizzonte irrecusabile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 13

RENÉ SCHÉRER



Il «vizio pedagogico»

«È il vizio pedagogico che va estirpato» (Schérer, 1976, 139). È questa una delle espressioni che troviamo alla fine del testo più noto e citato di René Schérer, un testo del 1974 che uscì con íl titolo emblematico di Emilio pervertito. Un libro che scosse la comunità pedagogica e non solo, in un'epoca di grandi rivolgimenti sociali, politici e culturali ma che, a mio giudizio, non può essere confinato in quell'epoca come una reliquia del passato. René Schérer vi ha esposto, infatti, i motivi di fondo di un'analisi spregiudicata e radicale del «vizio pedagogico» e del «sistema» di dominio incarnato dalle istituzioni educative che ancora oggi è tutt'altro che esaurito.

Un tale testo resta una pietra miliare e una scaturigine essenziale per il pensiero controeducativo (Mottana, 2012), non solo perché, come vedremo, a partire da esso l'autore francese ha proceduto a una incessante e inesausta decostruzione della cultura educativa senza limitarsi a processare una pedagogia ancorata al panottismo benthamiano o allo «scopismo» incarnato dal precettore di Emilio. Ma anche e fondamentalmente perché è grazie a quel testo, a partire da quelle righe, che si può provare a ricostruire il profilo di una filosofia contestataria e al tempo stesso finemente analitica in grado di aggredire il sistema di potere e il dispositivo disciplinare della pedagogia familiare e scolastica, per profilarne il superamento così come per poter immaginare i contorni di un'utopia «antipedagogica» di cui oggi più che mai si avverte la necessità.

Torniamo allora al passaggio citato, estratto dalle pagine conclusive dell' Emilio pervertito. Ecco come prosegue: «Se la setta dei maestri e dei pedagogisti vuole finire in bellezza e riscattarsi almeno un po' dal ridicolo nel quale sta tramontando, dovrà esclusivamente dedicarsi a questo compito, facendosi attenta alle attrazioni appassionate dei bambini e aiutandoli a soddisfare l'immensità dei loro desideri al di fuori delle famiglie e contro di esse» (ibidem). Qui Schérer preconizzava correttamente un tempo della fine, anzitutto fine della pedagogia come campo di sapere dotato di una sua specifica dignità epistemica (cfr. Massa, 1988), mentre come sappiamo fin troppo bene la setta dei maestri e dei pedagogisti ha trovato modo di protrarre la propria esistenza non senza metamorfosi e travestimenti (si pensi alle contemporanee figure imperversanti dei trainers, dei mentors, dei tutors, delle tate, dei nuovi operatori dell'educazione a vario titolo onnipresenti sulla scena di una società sempre più pedagogizzata e psicologízzata).

Ma il punto essenziale sollevato dal filosofo francese, perno di un'operazione controculturale decisiva e ancora del tutto disattesa, è il richiamo alla «possibilità senza limiti d'esercizio», come scrive poco sopra (Schérer, 1976, 138), di quell'«attrazione appassionata», che egli attinge in modo convinto ed esplicito da Fourier, cui una pedagogia consapevole del suo ruolo emancipatorio avrebbe dovuto mirare da sempre, invece che «di farsi un posto di servitore zelante per una borghesia che in un primo tempo l'aveva giustamente respinta o trattata, nella persona dei precettori privati, come un'accozzaglia di servitori salariati» (ibidem).

Una pedagogia non venduta e alienata avrebbe dovuto cercare di aiutare i bambini (e gli adolescenti) a «soddisfare l'immensità dei loro desideri al di fuori delle famiglie e contro di esse», mentre invece «ha pensato soprattutto a fornire alle altre classi un modello di ascesa e di perfetta integrazione sociale» (ibidem). La «setta» pedagogica, nelle parole di Schérer, ha definitivamente tradito «la fiducia dei bambini», si è consegnata alle «potenze reali in regime di civiltà» (quella «civiltà», che porta nella sua parola, tratta di peso da Fourier, tutto il disprezzo che le tributava il pensatore inesauribile di Besançon).

La diagnosi di Schérer — in questo testo, come altrove — è radicale e impietosa. La pedagogia, più precisamente la setta dei pedagogisti, ha approvato il dispositivo disciplinare che ha represso i desideri e le possibilità vitali dell'infanzia in cambio di una protezione, di una securizzazione, di un incapsulamento che dona all'infanzia una fondamentale «funzione di verità» (Schérer, 1978, 11), ne fa la figura in germe di una umanità asservita ai suoi ruoli prescritti e alienati fin dall'origine. La pedagogia moderna, sempre più strumento di assoggettamento, non reprime l'infanzia in quanto tale, sia ben chiaro, ne fa piuttosto un soggetto elettivo, custodito, curato ma inesorabilmente deprivato della sua autonomia desiderante e della sua potenzialità eversiva. Gli estirpa quella che Fernand Deligny, citato nel testo Co-ire. Album sistematico dell'infanzia (Schérer, Hocquenghem, 1979), definisce l' «erre» del bambino, la disposizione all'erranza, al vagabondaggio, il fascino esercitato sul bambino dall'andar «fuori», via dalla famiglia e dalla sua reclusione, verso l'«Aperto» di cui parla Rilke (peraltro continuamente citato da Schérer).

L' «erre» è «un modo di muoversi, di camminare, di velocità acquatica... parola abbastanza ricca che parla di passi, di mare, di animali» (Deligny, 1977). Ma nell' Emilio pervertito è però anche e soprattutto l'esercizio appassionato dei «suoi gusti» e specialmente della «sua sessualità incontenibile» (Schérer, 1976, 138). Una sessualità che oggi non viene più puramente repressa da una pedagogia che la psicoanalisi ha portato, almeno parzialmente, a riconoscere, ma che viene confinata, igienizzata, tollerata a patto che non si faccia trasgressione dell'ordine della famiglia e dei suoi interdetti. Al bambino viene finalmente riconosciuta una sessualità (grazie alla progressiva introiezione del freudismo), l'infanzia masturbatrice non è più perseguitata e punita, come invece era avvenuto fino all'inizio del secolo passato: tuttavia interviene una nuova intangibilità a garantire il bambino dal pericolo dei traviamenti. «La sessualità affermata diviene uno dei suoi diritti e il bambino, invece che esserne disinformato, deve essere avvisato di tale diritto proprio per proteggersi contro i pederasti» (Schérer, 1978, 44), vere figure del «disastro» pedagogico e dello sviamento senza ritorno dell'infanzia.

Il «vizio pedagogico» si affina e il predicato «distacco assoluto da tutte le pratiche pedagogiche correnti» (Schérer, 1976, 139), che Schérer prescriveva all'utopia antipedagogica nell' Emilio pervertito, deve aggiornare i suoi strumenti di analisi e di azione. Il disciplinamento non si attenua, al contrario si raffina e si maschera senza tuttavia lasciare la presa su un'infanzia sempre più osservata, ispezionata e manipolata. Ma in cosa si esprime, come si manifesta il «Sistema che ha creato l'infanzia moderna», per adottare la parole dell'incipit di Co-ire. Album sistematico dell'infanzia (Schérer, Hocquenghem, 1979, 7)?

Si tratta di un sistema incardinato su di un regime disciplinare di ordine «scopico», vale a dire eretto sull'esercizio della sorveglianza e sul «supplemento» garantito dalla premurosa cura educativa che mira a preservare il bambino dalle sue stesse tendenze naturali. Jean-Jacques Rousseau, citato ripetutamente da Schérer come il fondatore di un tale ordine nel suo Emilio, lo dice esplicitamente: «Vegliate diligentemente il ragazzo, il quale può salvaguardarsi da tutto il resto, ma tocca a voi salvarlo da se stesso» (cit. Schérer, 1976, 17). «La struttura di esclusione e di sorveglianza che, estendendosi a tutta la società, diventerà l'ideale dell'ordine borghese, comincia con il bambino: il bambino come oggetto di osservazione sotto uno sguardo» (26). Si tratta, come è evidente e come è stato ampiamente sottolineato da Foucault con riferimento a tutte le istituzioni della modernità, di una struttura che si è evoluta nella forma del dominio disciplinare, dell'«occhio onnipresente, il panottico» ben noto, di cui la rappresentazione benthamiana rimane la più folgorante esemplificazione.

Si tratta di un meccanismo operante a molti livelli, capace di garantire un esercizio del potere di controllo anche relativamente discreto che, nel tempo, saprà rendersi ancor più invisibile celandosi nelle maglie di una sempre più articolata legittimazione scientifico-psicologica. Il bambino va protetto da se stesso e da tutto ciò che può attentare al suo mirabile equilibrio, quell'equilibrio che si misura naturalmente sulla sintonia con un sistema di attese che ne prefigurano il destino di adulto docile e conformato al lavoro nel sistema governato dal capitale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 43

L'utopia di Schérer è un'utopia libertaria, schierata, in palese contrasto con il primato dell'economia mercantile: «La parola d'ordine utopica, gioiosa, affermativa è la replica a questo tempo del lavoro, della produttività industriale, alla comunicazione mediatica. A questo tempo compulsivamente pressato, essa oppone una fretta che è anche una lentezza, una distensione» (Schérer, 1998b, 58-59). L'insistenza sul qui e ora di ogni pensiero che non abdichi alla pulsione del piacere, è anche sempre in divenire, mai presa di possesso e consolidamento fittizio.

Sotto questo profilo si coglie la nettezza della posizione di Schérer sul maggio Sessantotto. In uno scritto del 1990, che si intitola Fonction utopique de l'université, contenuto in Utopies nomades, Schérer, che a differenza di tanti non ha mai sconfessato quell'esperienza pur riconoscendone alcuni limiti, tesse l'elogio di quella che definisce una vera «rivoluzione culturale». Quella che, per usare l'espressione di Guy Hocquenghem citata nel testo (137), può anche essere ricordata come l'après-mai des faunes (espressione intraducibile che richiama tuttavia la poesia mallarmeana e l'opera musicale di Debussy), per indicare il carattere festivo, sensuale e pagano di quella stagione, un vero tempo d'utopia, (un tempo e una «zona» di «autonomia» sovversiva e transeunte, lo considererà Hakim Bey).

In questo saggio, tuttavia, Schérer sottolinea un elemento che mi sta particolarmente a cuore e cioè il fatto che il carattere di rivoluzione culturale fu presente soprattutto per quanto riguarda l'impatto che quell'esperienza ebbe sull'Università. Quegli avvenimenti, come sono spesso definiti, ebbero infatti nell'Università il loro scenario principale ed essa ne fu letteralmente sovvertita (per il tempo che «gli avvenimenti» durarono). E l'evento, per così dire, si riassume soprattutto, per Schérer, nel fatto che l'Università fu costretta a rompere la sua chiusura nei confronti dell'ambiente esterno, del mondo esterno. Questo esterno che travolse la rigidità autoperpetuantesi del mondo universitario fu «nient'altro che la cultura», dice ancora Schérer. Cultura non certo nel senso della cultura libresca, di quella cultura che è a sua volta sigillata nei feretri delle discipline e che viene travasata con scarso entusiasmo nelle scuole e negli istituti di istruzione superiori, la cultura invece come «molteplicità dei modi di vita, il loro divenire caotico, i ribollimenti, prima che si cristallizzino sotto forma di conoscenze» (138).

«Sessantotto, relativamente all'Università, è la trasformazione del fuori nel dentro, è l'esteriore che diventa bruscamente interiore e che si impadronisce dei luoghi per i quali era rimasto fino ad allora estraneo. Da cui la tendenza curiosa, specifica del maggio, la sua cifra più propria, anche se non esclusiva: la tendenza all' occupazione» (ibidem).

Finalmente la vita invade l'asettico spazio istituzionale e lo fa simbolicamente sotto la spinta del desiderio: la scintilla scatenante, ricorda ancora Schérer, fu infatti il ridicolo divieto in vigore nel campus di Nanterre, che impediva le visite notturne agli studenti, che impediva la libera circolazione dell'eros, fu esso a scatenare la rivolta. E una volta aperta la breccia, l'Università diventò il teatro dove affluirono, occupandolo, i molteplici volti del desiderio. Sono le macchine desideranti escluse dalla vita culturale dell'Università, che, nel maggio Sessantotto, mobilitate dalla pulsione sessuale, vi fanno irruzione, consentendo al contempo di trascinarvi tutte le dimensioni vitali e vitalistiche fino ad allora confinate all'esterno da una concezione dell'esperienza culturale incredibilmente separata, mortifera e ascetica. Quella che, purtroppo, vediamo ritornare a installarsi negli atenei contemporanei, sospinta questa volta dalle esigenze del mercato, dell'economia, della ragione utilitaria scatenata. E naturalmente dalla sotterranea connivenza di una parte assai rilevante del mondo istituzionale, dei suoi dirigenti e dei docenti, neppure troppo nascostamente impegnati da sempre a fare della cultura un mondo chiuso, aristocratico e mortalmente autoriferito.

È in questo senso, prosegue Schérer, che l'Università, nel Sessantotto, è promossa al rango eccezionale di «luogo utopico». Finalmente essa, in maniera tutt'altro che incline a rappresentare l'utopia in quanto luogo immobile e isolato, si fa utopica proprio in quanto invece fa calare il suo ponte levatoio, per poter essere investita dalla materia vivente, così esplicitamente rappresentata da tutta la «cultura» autonoma che viene generata fuori dall'Università (e Schérer, nella scia di Deleuze, ha buon gioco a ricordare che all'epoca, l'intellettuale francese più internazionale – e rivoluzionario –, Jean-Paul Sartre, non era un professore universitario).

Finalmente in Università penetra tutto ciò che fino ad allora non vi aveva mai avuto cittadinanza: «Che dire del surrealismo nella sua totalità, del "collegio di sociologia" di Georges Bataille, il solo, per la verità, nel quale alcuni universitari siano presenti, ma in quanto franchi tiratori dell'Università stessa, eccezione confermante la regola? Che dire del Living Theater di Julian Beck, della musica di Boulez, di Jean Genet, di tutti quei nomi che, numerosissimi, neppure si può arrivare a citare?» (141). Un mondo, beninteso, sottolinea Schérer, che nessuna intenzione aveva di penetrare la cittadella universitaria, ma che furono gli studenti a reclamare, fu il desiderio a ingiungere che occupasse l'Università.

È così che nel Sessantotto figurano dentro le mura universitarie non solo l'arte e gli artisti, i registi, i poeti di norma disinteressati ed esclusi, ora sono «blocchi interi di una cultura insolita», «incommensurabile» con ciò che sempre aveva rappresentato l'Università, a installarvisi, dalle lotte delle donne a quelle degli omossessuali, dai malati psichici ai tossicodipendenti, ai marginali, agli immigrati. Un esempio di tutto ciò, profondamente e appassionatamente vissuto da Schérer, fu naturalmente l'esperienza dell'Università sperimentale di Vincennes a Parigi (cfr. Tessarech, 2011).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 55

RAOUL VANEIGEM



Un'insopprimibile sete di vita

«Al tempo del riciclaggio massiccio dei vecchi sessantottini nelle banche, negli ispettorati, nella stampa svenduta, nella consulenza ai capi di Stato di destra e di sinistra, nel narcisismo memorialista o nell'evocazione commossa dell'anziano combattente, Raoul Vaneigem resiste e rilancia. Tutta la sua opera [...], è costruita in forma di variazione sul tema della sovversione. Essa si presenta come una compatta architettura consacrata alla celebrazione del gas lacrimogeno» (Onfray, 1998, 186). Così Michel Onfray introduce, in un saggio a lui dedicato in uno dei volumi dei suoi «diari edonisti», la figura di Raoul Vaneigem.

Figura anomala, vero e proprio «lupo grigio» della contestazione, irriducibile apologeta di un'idea di mondo, di vita, di esperienza che non riesce ad accomodarsi nel tempo del disincanto e della rinuncia, Vaneigem è indubbiamente un riferimento ineludibile all'interno di una guida che voglia rintracciare i solchi di una politica controeducativa, intransigentemente aperta a tutte le fonti che possano contribuire a ricomporre un pensiero che sconfigga il furto di vita perpetrato ai nostri danni.

In lui, i motivi che lo condussero prima a fondare e a militare nell'Internazionale situazionista e poi a dare alle stampe uno dei testi più incandescenti di quella stagione, quel Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni che uscì in Francia nel 1967 e che, ad oggi, è ancora una delle pietre miliari di quel grande e insuperato periodo, non sono mutati né si sono esauriti. Al contrario, continuano a bruciare, vivi come allora, cercando, nel tempo, i modi, le vie, le espressioni per continuare a risuonare in un universo che certamente è diventato molto più sordo ai suoi richiami. Rileggerli è un bagno ristoratore, è una ripresa di contatto con un fiume di istanze vitalissime da cui sembra di non poter prescindere per continuare a pensare un altro futuro, un'altra vita. E che sembra più che mai aver necessità di rifarsi a voci, come quella di Vaneigem, capaci ancora di dare forma a idee che nulla han perduto della loro attualità.

A cominciare da quell'«istanza di vita» che può essere considerata la cifra di tutta l'opera del «filosofo militante», come ancora lo chiama Michel Onfray: l'affermazione della vita nel tempo della sopravvivenza. «Il partito preso della vita è un partito preso politico», scrive Vaneigem nell' Introduzione al Trattato: «Noi non vogliamo un mondo dove la garanzia di non morire di fame si scambia contro il rischio di morire di noia» (Vaneigem, 1973, 2). Vita e sopravvivenza sono le forme opposte di una guerra «politica» che non può non essere combattuta, pena il soccombere a un'esistenza dimidiata, castrata, non vissuta. Sotto questo profilo, la sopravvivenza è ciò che ci viene inflitto in assenza di consapevolezza, nello stato di anestesia progressiva in cui i sistemi di potere, e soprattutto di biopotere, anche se questa nozione foucaultiana non viene esplicitamente adottata dall'autore, ci conducono a restare intrappolati.

Sopravvivenza è «la vita ridotta all'essenziale, alla forma astratta, al fermento necessario perché l'uomo partecipi alla produzione e al consumo [...] La sopravvivenza è una vita al rallentatore [...] Essa ha la sua igiene intima ampiamente volgarizzata dall'informazione: evitare le emozioni violente, sorvegliare lo stato di tensione, mangiare poco, bere ragionevolmente, sopravvivere in buona salute per meglio vivere il proprio ruolo [...] Si muore per inerzia, quando la quantità di morte che si porta in sé raggiunge il suo punto di saturazione» (149). In questi pochi tratti il filosofo belga riassume con vigore e nitidezza il ritratto di un'umanità rassegnata, dolente, arruolata in un'esistenza ridotta all'osso, votata ad attenersi alle politiche di igiene e prevenzione che la mantengono in uno stato minimale di servizio per poter adempiere i compiti prescritti dall'etica del lavoro e del sacrificio, pronta ad aderire al consumo degli innocui gadget che il potere le somministra come anestetici e analgesici.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 58

Certamente questo registro entusiasta, romantico, epico, lentamente cederà il posto a una riflessione più asciutta ed elaborata sulla politica del desiderio, sull'affermazione del piacere, sui diritti del presente. Ma senza nulla cedere all'etica del risentimento e men che meno alla rassegnazione che invece ha travolto tanti dei protagonisti di quell'epoca straordinaria. L'esplorazione dei molti modi attraverso cui la vita è sequestrata, soffocata, castrata si fa in Vaneigem critica feroce della civiltà marchande. A partire dalla scuola, agenzia di deprivazione sistematica: «Vaneigem considera la scuola, nella sua cappa di piombo e di cemento male armato per le cose della vita, l'antitesi di ciò che è aperto all'incontro, alla creazione, allo schiudersi e alla fecondazione reciproca delle energie disponibili», scrive Grégory Lambrette nel suo breve ma folgorante saggio sullo scrittore di Lessines (Vaneigem, 2007, 15).

Vaneigem condivide con una parte significativa di osservatori dell'impresa scolastica l'idea che essa sia l'erede – come ben documentano le architetture, l'amministrazione del tempo e della disciplina –, delle grandi istituzioni di internamento e di sottomissione, e cioè delle carceri, dei manicomi, delle caserme. Si tratta, come è evidente, di un preciso riferimento alle analisi di Foucault sugli istituti di sorveglianza e di punizione (Foucault, 1976), ma anche a tutta una tradizione libertaria che da sempre ha avvertito e denunciato in modo netto la violenza repressiva e manipolatoria dell'esperienza scolastica tradizionale.

Così non è certamente un caso se in esergo al suo fiammeggiante La scuola è vostra. Dedicato agli studenti pone la frase di Georg Groddeck dal sapore nicciano: «L'essere umano deve potere tutto, e non dovere nulla. In realtà erano ben poche le cose di cui non si credesse capace. Non dava per scontato che tutto quello che faceva riuscisse; spesso qualcosa non riusciva. Ma egualmente quel qualcosa era in suo potere» (Vaneigem, 1996, 6). Qui le corrispondenze con certi accenti schereriani è palese e avvertiamo la stessa denuncia della privatizzazione dell'infanzia e del suo destino di «culculizzazione»: «Il governo esercitato dalla scuola sulle nature ancora innamorate delle libertà proprie dell'infanzia l'accomunava infatti a quei siti poco propizi a una felice fioritura che furono – e che sono tuttora, a diversi gradi – il recinto familiare, la fabbrica o l'ufficio, l'istituzione militare, sanitaria o carceraria» (7).

L'annientamento della vita è il nucleo dell'opera scolastica, autentica alchimia inversa, capace di trasmutare l'oro della curiosità, del piacere, del desiderio nel piombo della noia, del disgusto, della mortificazione: «Non c'è bambino che varchi la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di perdersi; ovvero, di perdere quella vita esuberante, avida di conoscenze e di stupori, che sarebbe davvero esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e affliggerla sotto il giogo mortificante del sapere astratto. È terribile assistere all'improvviso offuscarsi di quegli sguardi brillanti!» (8).

Vaneigem esprime il medesimo rifiuto di tanti autori e anche educatori che hanno letto la scuola come la sede della progressiva devitalizzazione del potenziale creativo, esplorativo, immaginativo presente nei bambini e negli adolescenti non ancora educastrati. Sono temi che risuonano infatti anche altrove, dalla Montessori ad Alexander Neill, da Rogers a don Milani, da Claparède e Freinet al contemporaneo Ken Robinson. Eppure appaiono più che mai richiami inascoltati e disattesi, la scuola persevera a reprimere e soffocare pulsioni vitali, a impedire quella dilatazione del campo di esperienza che pure da molti è stata considerata una meta fondamentale del lavoro educativo. Anche per Vaneigem si tratta di partire da qui: l'educazione è uno, se non il principale, degli snodi da cui ripensare una società in cui finalmente la penalizzazione del desiderio risulti intollerabile. Occorre restituire al sapere, all'esperienza di conoscere la sua natura spontaneamente desiderabile, il che significa non scinderla dalla materia della vita, dalla sua sensualità e sensuosità.

La requisitoria di Vaneigem è spietata e non risparmia nulla, in lui risuonano accenti che riconosco e che revocano in dubbio radicalmente l'istituzione scuola nelle sue dimensioni strutturali: «Il sistema educativo non si è accontentato di murare i desideri dell'infanzia nella corazza caratteriale nella quale i muscoli in tensione, il cuore indurito e lo spirito pieno d'angoscia certo non favoriscono l'esuberanza e la fioritura. Non si è limitato a collocare lo studente in edifici senza gioia, destinati a ricordargli, caso mai se lo scordasse, che non è lì per divertirsi. Oltre a ciò, esso sospende sulla sua testa la spada, a un tempo ridicola e minacciosa, del verdetto» (34). Si tratta di un contesto mortifero, che contraddice palesemente i suoi altisonanti fini astratti con lo spegnimento sistematico di ogni libera manifestazione, ogni barlume di creatività all'interno di un sistema di procedure che lo rendono un vero e proprio ambiente giudiziario: «L'espressione "mettere sotto esame", e cioè, in campo criminale, procedere all'interrogatorio di un sospetto e all'esposizione delle prove a carico, evoca con evidenza la connotazione giudiziaria che assumono le prove scritte e orali inflitte agli studenti» (35).

È chiaro che un simile sistema non può che essere condotto da figure che hanno perso esse stesse ogni qualità vitale, che hanno spento dentro di sé ogni carica libidica nei confronti del sapere e dei loro allievi: «Colui che porta nel suo cuore il cadavere della propria infanzia educherà soltanto delle anime morte» (40), frase da scolpire sui frontoni delle nostre scuole per l'incisività, l'icasticità, la potenza con cui, in un motto, denuncia l'incredibile strage di vita che questi luoghi giorno dopo giorno producono.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 62

Il secondo tassello di una tale opera non può essere che il lavoro. Per Vaneigem, come per grande parte di una tradizione che anche recentemente ha cominciato a rifarsi sentire (Gruppo Krisis, 2003; Godard, 2011), il lavoro è senza mezzi termini, «una maledizione»: «Il lavoro è stato quanto di meglio l'uomo ha trovato per non fare nulla della propria vita. Ha meccanizzato laddove si trattava di inventare una costante vivacità. Ha privilegiato la specie a spese dell'individuo, quasi si dovesse, per perpetuare il genere umano, rinunciare al godimento di sé e del mondo e produrre la propria disumanità» (Vaneigem, 1999, 34).

La critica feroce che Vaneigem riserva al supplizio del lavoro si inquadra in una riflessione più vasta, che si unisce a quella di tutta una serie di autori che hanno visto nella progressiva emergenza dell' homo oeconomicus dalle macerie di civiltà fondate sullo scambio simbolico e sul dono, o ancor prima sulla raccolta e il nomadismo, il flagello che avrebbe condotto, attraverso il salto qualitativo imposto dall'industrializzazione e dal capitalismo, all'attuale etica del lavoro e alla sua radicale celebrazione a onta della perdita totale di controllo sulla propria vita, sui propri desideri e sulle proprie possibilità di espansione vitale. In tal senso il lavoro denunciato è naturalmente il lavoro alienato, non meno che in autori come André Gorz (cfr. 1992), ed è il lavoro che produce una scissione nell'esistenza umana tra un fare irriconoscibile e frammentato e un ambito di compensazione, il tempo libero, che più nulla ha a che fare con quello stesso agire in condizione di disumanizzazione.

Perché si tratta di una vera e propria progressiva «disumanizzazione», ben tratteggiata nel volume Adresse aux vivants, che porta come significativo sottotitolo Sur la mort qui les gouverne et l'opportunité de s'en défaire, con accenti ruvidissimi: «Lavoro. Parola che emana un fetore di messa a morte e di lenta agonia. È la macchia di fango e putridume che imbratta la faccia nascosta dell'oro: gli schiavi decimati, i servi scarnificati, i proletari annichiliti dalla fatica, dalla paura e dall'oppressione del giorno che sorge, la vita frantumata in salario. Al punto che il più autentico dei monumenti dedicati alla sua gloria resta quello che svettava dalle torri decorate con la scritta Arbeit macht frei, messaggio che ben esprime la quintessenza della civiltà mercantile: il lavoro libera dalla vita» (Vaneigem, 1990, 71). Una riflessione che avvertiamo risuonare, con un tono assolutamente analogo, anche nel recente testo di Philippe Godard, Contro il lavoro: «L'ignobile epigrafe che sovrastava l'ingresso di vari campi di concentramento e di sterminio nazisti "Arbeit macht frei" (il lavoro rende liberi), non svela in fondo il significato occulto di ogni forma di economia, cioè che il lavoro libera l'uomo fino a farlo morire?» (Vaneigem, 2011, 29).

Il lavoro dissipa la vita, la consuma sull'altare di una produttività che è tutto fuorché il perseguimento di una libera azione di creazione e di espressione sospinta dal desiderio. Il lavoro, tutt'altro che «nobilitatore», rende schiavi e su questo punto Vaneigem non deflette mai. Dalle pagine del Trattato in cui condannava il lavoro sottolineando come «in una società industriale che confonde lavoro e produttività, la necessità di produrre è sempre stata l'antagonista del desiderio di creare» (Vaneigem, 1973, 40) e dove «ogni appello alla produttività [...] è un appello alla schiavitù» (41), fino alle pagine più meditative e posate di Le Chevalier, la Dame, le Diable et la mort (2003), non muta l'idea che il tempo vada restituito al libero gioco del desiderio e della creazione.

In quest'ultimo testo, l'unico dal sapore fortemente autobiografico scritto dal «discreto» e appartato filosofo belga, la pagina dedicata al tema del lavoro si intreccia con la rivendicazione del reddito garantito, unico rimedio all'alienazione governata dal feticismo del denaro: «Tutto, piuttosto che lavorare», vi argomenta Vaneigem, «è stato il proposito dei prosseneti, dei parassiti, degli scansafatiche, di quelli che fanno lavorare gli altri al posto loro, prima che il proletariato ne facesse il principio della sua emancipazione. Da allora, il feticismo del denaro ha provveduto a fabbricare una religione ecumenica e consacrato il culto del nuovo unico Dio, per il quale e a causa del quale si fa ogni cosa. Quanto tempo occorrerà ancora perché "tutto, piuttosto che lavorare" significhi vivere e non guadagnare del denaro? Io non reclamo un premio per la creatività. Attendendo che sia bonificata la fogna del profitto, spero che sia accordata, fin dall'adolescenza, una cifra mensile che garantisca a ognuno il conforto di un tetto, il diritto di nutrirsi, la libertà di spostarsi, il piacere degli incontri, il permesso di mantenersi in buona salute e il tempo di offrire alla propria umanità ciò che possiede di più passionale, di più ludico, di più creativo e che è stato schiacciato, frantumato, mortificato, contaminato fino al midollo dalla grande pressa in cui il vivente si trasforma in denaro» (Vaneigem, 2003, 109).

Per Vaneigem – come per la maggior parte di coloro che hanno aderito a una cultura nella quale la vita si gioca sul piano di un salto trasmutativo verso la gratuità di un agire come espressione del desiderio, come dono, come eccesso, come passione –, il lavoro, il lavoro incatenato al denaro, al profitto, il lavoro salariato, alienato, resta un supplizio e una forma di obbligo funzionale al dominio. Vivere, come è evidente, per lui è «sviluppare il godimento e ripudiare il sacrificio. Vivere, è sostituire la creazione al lavoro. Vivere è sostenere il primato dell'emancipazione individuale sullo spirito gregario. Vivere, è prendere coscienza dei propri desideri per affinarli, armonizzarli, realizzarli. Vivere è estirpare da sé la paura e la colpa» (Six, 2004, 168).


L'infanzia ritrovata

«Il bambino compie un'esperienza soggettiva della libertà, sconosciuta ad ogni specie animale, ma resta nella dipendenza oggettiva dei genitori; ha bisogno delle loro cure, della loro sollecitudine. Ciò che differenzia il bambino dall'animale dipende dal fatto che il bambino possiede il senso della trasformazione del mondo, vale a dire la poesia, a un grado illimitato. Nello stesso tempo, gli si vieta l'accesso a delle tecniche che gli adulti impiegano il più delle volte contro tale poesia, e per esempio contro i bambini, condizionandoli. E quando i bambini accedono infine alle tecniche, essi hanno ormai, sotto il peso delle costrizioni, perduto nella maturità ciò che faceva la superiorità della loro infanzia» (Vaneigem, 1973, 202).

Nel linguaggio ancora un po' hegelo-marxista degli inizi, Vaneigem ci offre qui un classico elogio dell'infanzia, quell'infanzia barbarica che simboleggia con la poesia, la poesia sub specie situazionista che si identifica in toto con la trasformazione del quotidiano. Il bambino riaffiora qui, inevitabilmente, come cifra rivoluzionaria e simbolo romantico della sporgenza poetica, della risorgenza di un'originaria vocazione alla conciliazione, all'armonizzazione e all'inserzione amorosa nel tutto. Bambino selvatico, immaginativo e intatto da considerarsi vertice, come già in Schérer, di una rotazione completa dell'asse terrestre verso l'attrazione appassionata, il nuovo magnetismo che restituisca all'esistere il suo splendore terrestre.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 85

HAKIM BEY
(PETER LAMBORN WILSON)



Zone di insurrezione

L'elemento decisivo che rende la proposta delle T.A.Z. (zone temporaneamente autonome) ineludibili e culturalmente cruciali, sotto il profilo di un pensiero della trasformazione radicalmente controeducativo, è indubbiamente lo slittamento dalla categoria di rivoluzione a quella di «insurrezione». Uno slittamento legato almeno in parte allo spostamento da un orientamento di tipo marxista a uno anarchico ma che non è per nulla riducibile ad esso.

Qui in gioco non è soltanto la messa a fuoco di un'enorme massa di esperienze, a partire da quelle che le «mini-società» dei pirati realizzarono intorno al XVIII secolo in molti punti del globo, ma anzitutto l'idea, in sé «rivoluzionaria», per giocare un poco con le parole, che si possa e si sia potuto in molte circostanze «stare per un momento su un pezzo di Terra dominato solo dalla libertà» (Bey, 2008, 11). Hakim Bey, figura eccessiva e del tutto anomala nel panorama della riflessione, della politica e della cultura radicale, ci invita qui a non ritenere che si possa godere del frutto di una trasformazione integrale delle condizioni di vita soltanto dopo che una rivoluzione globale si sia affermata. Sostenere questo, come peraltro tutto un repertorio assai vasto di teorie rivoluzionarie assai diffuse di sapore messianico e gioachimita ha fatto e continua a fare, per dirlo con la parole dell'autore significa «sprofondare in un tipo di stupore-nirvana, abdicare la nostra umanità, definirci sconfitti» (12).

«Io credo che, estrapolando da storie del passato e del futuro a proposito di "isole nella rete", potremmo collezionare prove per suggerire che un certo tipo di "enclave libera" è non solo possibile ai nostri giorni, ma anche esistente» (ibidem). Dove il riferimento alla rete, che indubbiamente può legittimare una lettura di tipo cyberpunk di alcuni scritti di Bey, e che certo ha a che fare anche con l'elemento di sperimentazione di libertà nelle comunità presenti nella rete internet, non scinde affatto il tema della T.A.Z. dal quadro più generale delle effettive esperienze di liberazione provvisoria, di insurrezione transitoria ma datasi effettivamente, rintracciabile nella Storia e anche nel tessuto della nostra stessa esperienza contemporanea: dalle «utopie pirate» di cui appunto si occupa Bey in alcuni suoi testi (Bey, 2008b) fino all'isola di Fiume dannunziana o alla Sanyak autonoma di Cumantsa (1919), di cui egli stesso si occupa a fondo in un affascinante saggio del suo Escape from the Nineteenth Century (Wilson, 1998).

L'insurrezione o sollevazione, concetto chiave della teoria delle T.A.Z., significa non certo, come vogliono gli storici, che una rivoluzione è abortita ma, al contrario, che si è sfuggiti al rischio che una rivoluzione, come spesso è accaduto, abbia finito per fondare uno stato e un sistema di potere ancora più opprimente del precedente. «Se la Storia è il "Tempo", come dice d'essere, allora la sollevazione è un momento che salta su e fuori dal Tempo, viola la "Legge" della Storia. Se lo Stato è Storia, come dice d'essere, allora l'insurrezione è il momento proibito, un'imperdonabile negazione della dialettica – salire su per il palo e fuori dal foro del camino, una manovra da sciamano eseguita a un "angolo impossibile" per l'universo» (Bey, 2008, 13). Le rivoluzioni vogliono la permanenza, vogliono assicurare un nuovo ordine, l'insurrezione si situa dalle parti delle «esperienze-picco», qualcosa che eccede l'ordinario, sia sul piano delle regole che la tramano che degli stati di cose che produce. Si tratta di un momento inatteso, un evento caratterizzato da un salto d'intensità, il che lo pone indubbiamente nel reticolo dei campi di forze indagati da Deleuze e Guattari sul fronte della molecolarità e del rizoma.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 110

Eros, immaginazione, sensibilità, i termini della controeducazione, dell'esperienza vitale sotto minaccia e più bisognosa che mai di rivoluzione, di insurrezione. Hakim Bey lavora alla controeducazione secondo traiettorie formidabili, intrecciando riferimenti lontani e vicini, con l'incandescente sensibilità dei poeti e dei veggenti, dei vagabondi e degli sciamani. In lui non può mancare una preziosa evocazione dell'infanzia selvatica, infanzia «elfica», perno simbolico di ogni autentico mondo controeducativo, come abbiamo visto anche in Vaneigem e in Schérer.

L'associazione romantica tra infanzia, arte e trasgressione della visione comune è presente anche in Bey, con le tonalità proprie al suo linguaggio paradossale e provocatorio ma anche con la specifica sensibilità che deriva ai nostri «cattivi maestri» dal cogliere nello stato dell'infanzia una condizione particolarmente propizia per poter ancora accedere a uno stato di integrazione immaginale con il mondo: «Abbracciare il disordine come pozzo di stile e voluttuoso magazzino, un fondamento della nostra civiltà aliena e occulta, la nostra estetica cospiratoriale, il nostro spionaggio lunatico: questa è l'azione (rendiamocene conto) o di un artista di un qualche genere o di un bambino di dieci-tredici anni» (Bey, 2008, 154).

L'infanzia, che, come abbiamo visto riveste un ruolo anche come oggetto di visione mistica e iniziatica, ne ha naturalmente anche uno come soggetto reale e simbolico di accesso alla «visione altra», perché loro, i bambini, «pensano in immagini» (ibidem). Per loro, per questa «specie aliena» o «Terzo sesso», i bambini selvaggi appunto, non esiste cesura tra desiderio e immaginazione, essi soggiornano nella realtà potentemente trasformatrice del gioco. I loro sensi sono già e ancora predisposti a un ascolto innervato nella carne della natura e nei suoi reticoli di corrispondenze: «Bambini i cui sensi chiarificati li tradiscono in una brillante stregoneria di meraviglioso piacere, riflettono un qualcosa di selvaggio e sconcio nella natura della realtà stessa: anarchici ontologici naturali, angeli del caos [...] i loro gesti e odori corporei trasmettono intorno a sé una giungla di presenza, una foresta di veggenza...» (155).

| << |  <  |