Autore Wajdi Mouawad
Titolo Anima
EdizioneFazi, Roma, 2015, Le strade 248 , pag. 506, cop.fle., dim. 14x21,2x3,2 cm , Isbn 978-88-7625-611-0
OriginaleAnima
EdizioneLeméac, Montréal, 2012
TraduttoreAntonella Conti
LettoreAngela Razzini, 2015
Classe narrativa libanese , narrativa canadese












 

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Pagina 13

FELIS SYLVESTRIS CATUS
CARTHUSIANORUM



Avevano giocato tante volte a morire l'uno nelle braccia dell'altra, così tante volte che, nel trovarla tutta insanguinata in mezzo al salotto di casa, è scoppiato a ridere, convinto di essere di fronte a una messinscena, una simulazione in grande stile per sorprenderlo una volta per tutte, sconvolgerlo, lasciarlo di stucco, fargli perdere la testa, metterlo nel sacco.

Lasciando cadere il sacchetto di plastica giallo – proprio quella mattina lei gli aveva detto tutta allegra Compra un po' di tonno perché il tonno-leva-il medico-di-torno –, ha capito che era morta, perché aveva gli occhi aperti, lo sguardo fisso e le mani intorno alla ferita, con il coltello piantato lì nel sesso.

Toglietemi la terra da sopra la testa, avrebbe voluto urlare, come quel giorno lontano in cui alcuni uomini lo avevano sepolto vivo. Non devo piangere, si è ripetuto più volte, se piango, se grido, ricominceranno da capo, mi tireranno fuori, mi uccideranno e mi rimetteranno dentro. E anche adesso, in piedi in mezzo al corridoio dell'ingresso, senza più cognizione del tempo, è rimasto immobile, ha smesso di respirare, per paura che tutto ricominci da capo, che lei muoia di nuovo, il che è assurdo in fin dei conti, perché non ci sono dubbi sul fatto che sia già morta, le mani aggrappate alla lama, mazzo di fiori sul ventre squarciato. Forse, chissà, aveva cercato di estrarre il coltello mentre era agonizzante, ma se così era stato, doveva essere morta prima, perché lo sforzo richiedeva troppo sangue. Sono sicuro che lui ha pensato agli ultimi battiti del suo cuore, pesce gatto in mezzo al petto, abbandonato a se stesso, trascinato verso il fondo. Sono sicuro che ha pensato al suo sangue che correva per l'ultima volta in una corsa sfrenata e cieca attraverso il dedalo delle sue vene, per poi sgorgare come una risata dalla ferita aperta del suo sesso, dove il coltello era stato affondato e riaffondato e riaffondato e riaffondato ancora.

Léonie!... Léonie!... Non era niente, né un'invocazione, né un lamento, appena un bisbiglio, il riflesso del quotidiano. Gli piaceva tanto pronunciare il suo nome, e ogni volta ci metteva tutta la dolcezza di cui era capace, Léonie, mi piace così tanto dire il tuo nome, Léonie, volano libellule a ogni movimento delle labbra, Léonie, non c'erano più libellule. Di fronte a lui si ergevano i mobili e gli oggetti, insopportabili nel loro mutismo, nella loro indifferenza alla sventura.

La luce del giorno, dileguandosi in mezzetinte sempre più deboli, ha finito per abbandonare la casa, aspirata attraverso le due grandi finestre dal movimento generale del mondo come in fondo a un imbuto. Era l'ora in cui il cielo, nella sua limpida bellezza, conservava una luminosità azzurrina simile a quella delle vetrate della cattedrale dove a volte amo girovagare.

Non saprei dire per quanto tempo è rimasto immobile, quanto tempo è trascorso prima che andasse a inginocchiarsi accanto a lei. Lo vedevo nel chiarore giallastro dei lampioni di fuori, che chiazzavano di luce una parte del salotto. Ha avvicinato il viso al viso di lei, ogni istante che passava ci separava sempre più da Léonie, pallida come una stella troppo lontana, illividita dalle tenebre della notte. Si è rialzato, ha sollevato la testa, ha respirato e, prendendosi il ventre tra le braccia incrociate come per calmare una fitta acuta, ha emesso un gemito, né grido né pianto, piuttosto un vomito rauco, provocando una vibrazione che ha fatto tremare i vetri dell'appartamento nelle loro cornici di legno.

Il mondo rimane uguale a se stesso finché gli umani stanno in piedi. È una legge naturale, inscritta nei miei geni. Ecco perché mi sono spaventato a morte quando l'ho visto a quattro zampe, con le mani a terra nella pozza di sangue, chino sulla superficie per berne il colore. Mentre si rialzava, si è guardato i palmi delle mani e se li è portati al viso.

Ho mangiato il tonno che era nel sacchetto di plastica e ho bevuto l'acqua del water. È venuta la notte e poi il sole e un'altra volta la notte e poi le nuvole e la pioggia e ancora la notte e degli uccelli prima che alcuni uomini a me sconosciuti sfondassero la porta per venire a prenderli e portarli via tutti e due.

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LASIUS NIGER



Immobile sulla superficie inclinata del suo ginocchio, ho visto la luce tremare lungo il bordo increspato dei suoi occhi. Era seduto di fronte al fiume, nel pallido chiarore della primavera. Il giorno volgeva alla fine. Stavo rientrando con le mie compagne, quando l'ho visto a una svolta del sentiero. Sembrava sfinito, distrutto dalla stanchezza, probabilmente aveva camminato a lungo. Si era alzato per dirigersi verso la roccia ai cui piedi si trova, ben nascosto, l'ingresso del nostro formicaio, e lì si era lasciato cadere. In un attimo è stato circondato dai membri della nostra colonia, non tanto perché poteva rappresentare un pericolo, visto che non c'era niente di minaccioso nel suo comportamento, quanto per gli odori che si portava dietro. Allertate, le operaie si erano precipitate fuori per scoprire, nell'orlo disfatto dei pantaloni, delle briciole di pane rimaste attaccate alle fibre del tessuto e, sotto la suola delle scarpe, una parte della quale era accessibile, una massa di semi e di gusci amalgamati alla terra umida e alle foglie triturate degli alberi. Senza indugiare, si erano adoperate per staccare quella manna e portarla in un luogo sicuro.

Lui piangeva.

Approfittando del tessuto di lana a trama larga del cappotto, ne ho scalato la parete interna, coperta di una fodera scura e satinata. Non è stato particolarmente faticoso e ho potuto continuare a mio piacimento, anche perché, assorbito com'era dal suo dolore, non aveva fatto caso a me. L'ascensione mi ha portata nel punto esatto in cui il cappotto copriva la gamba all'altezza del ginocchio e, procedendo lungo la cucitura, sono riuscita a rimanervi qualche attimo.

Lo vedevo, e vedevo il cielo sopra di lui. Ha rivolto lo sguardo verso il fiume. Ha aperto la bocca, ha emesso delle onde la cui vibrazione è arrivata fino alle mie antenne. Passerà, non ti preoccupare, passerà, passerà... passerà... Se lo ripeteva articolando le parole per convincersene, ma le variazioni delle onde che sentivo risuonare contro le sue ossa erano pervase di una dolcezza tale da scuotere qualunque serenità. Ricominciava a piangere. Il freddo asciugava le sue lacrime.

Nel risalire lungo la piatta pianura della coscia, mi sono orientata grazie al calore irradiato dai suoi organi riproduttori e, passando sotto il maglione, dove ho trovato una nuova superficie ricoperta di un tessuto cotonoso, ho abbandonato la luce del giorno per inoltrarmi nelle profondità oscure dei suoi vestiti. Faceva caldo. Un'aria fetida e fruttata insieme lasciava indovinare, attraverso l'umidità e il sudore del corpo, i sentori tipici degli umani. Appoggiandomi alle pieghe che via via incontravo, zigzagando tra le curvature, sono riuscita, dopo una lunga ed estenuante risalita, a emergere dall'oscurità seguendo la cucitura che partiva dalla base della gola e raggiungeva la sommità del collo, nel punto in cui le mascelle si congiungevano.

Ha tirato fuori dalla tasca un oggetto metallico. Lo intravedevo appena, poco più in basso. Lo ha manipolato con straordinaria destrezza, poi se l'è portato all'orecchio. Mi sfiorava con le dita e, nonostante il rischio di essere stritolata, ho voluto fare i pochi passi che mi mancavano per intrufolarmi nel suo palmo, tra il metallo dell'oggetto e la pelle della mano. Un odore indescrivibile emanava da lì: non erano tracce di cibo stantio, si trattava piuttosto dei resti decomposti di una carne morta, appartenente a un animale che non sono riuscita a identificare.

Najma? / Sono Wahhch / ... / No, non tanto / Non hai parlato con papà? / ... / Léonie è morta /... / È stata uccisa / ... / Non si sa /... / La polizia sta seguendo una pista / ... / Violentata e poi uccisa /... / Non lo so più / Una settimana fa / ... / Sì, Nabila me lo ha detto / ... / Invece dovresti / ... / Non c'è niente da dire, volevo solo che lo sapessi / ... / ... / ... / Sì, ci sono / ... / Ascolta / Adesso ti devo lasciare / Può darsi / È vero che è da tanto che non ci vediamo / Te lo farò sapere, ti richiamo / Non ti preoccupare / ... / Anch'io.

La vibrazione ondulatoria si è interrotta. Il sudore imperlava i pori del suo palmo. Ha abbassato la mano per portarla sull'oggetto che teneva, premendo diversi tasti prima di portarselo all'orecchio. Salve, questa è la segreteria telefonica di Wahhch Debch. Non sono raggiungibile. Non lasciate messaggi. Va tutto bene. Tornerò. Grazie. Hello, you've reach Wahhch Debch. I am not available. Please, don't leave any message. Everything goes well. I'll come back. Thanks.

Nella mia caverna di pelle, dove mi raggiungevano i barlumi azzurrati della luce del giorno, ho avuto il presentimento di una catastrofe. L'odore era aumentato d'intensità ma rimaneva indefinibile. Ho accostato le mandibole alla sua epidermide. Un fetore immondo mi ha aggredita con una violenza tale che ne sono rimasta stordita. Sangue. Era l'odore del sangue. Qualcosa aveva sanguinato, era morto e adesso imputridiva nel cavo della sua mano. Qualcosa aveva lasciato negli interstizi della pelle delle tracce invisibili che adesso insanguinavano la sua linea della vita. Improvvisamente ha contratto le dita intorno all'oggetto, si è alzato e ha portato il braccio indietro, estendendolo fino alla massima tensione dei muscoli. La sua respirazione si è bloccata, poi, dopo un breve istante di immobilità, ha effettuato un formidabile slancio in avanti che è coinciso con l'apertura della sua mano. L'oggetto metallico è stato scaraventato lontano. Solo il vento, la cui forza era uguale e contraria a quella del suo gesto, mi ha permesso di rimanere dov'ero, schiacciandomi tra le giunture delle dita. Soddisfatto del suo lancio, è rimasto immobile, con la mano tesa. L'oggetto metallico ha tracciato una curva prima di cadere e di essere inghiottito dall'acqua nera del fiume. Lui ha abbassato il braccio e, guardandosi la mano, si è reso conto della mia esistenza.

Ero risalita lungo le falangi attraverso una delle valli che separano le dita per raggiungere il dorso della mano. Lui ha ruotato il polso per seguirmi da vicino. L'aria usciva dalle sue narici, calda e umida a ogni respiro. Non potevo né fuggire né nascondermi. Credo che lui abbia indovinato il mio terrore perché, senza fare movimenti bruschi, si è seduto di nuovo sulla roccia e ha cominciato a osservarmi con un'aria vagamente stanca. Poteva schiacciarmi in qualunque momento, ma non lo faceva. I suoi occhi, di un verde trasparente, si sono riempiti di lacrime.

Ha portato la mano al suolo, con cautela. Ha aspettato che raggiungessi la terra ferma. Faceva sempre più freddo, la luce era calata, mi sono affrettata verso la roccia su cui lui era seduto e, girandoci intorno, ho raggiunto l'ingresso del mio formicaio.

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CANIS LUPUS FAMILIARIS TERRA AMERICANA
STAFFORDSHIRE



L'umano è un corridoio stretto, bisogna andarci dentro per sperare di conoscerlo. Bisogna avanzare nel buio, sentire gli odori di tutti gli animali morti, udire gli urli, i pianti e lo stridore di denti. Bisogna camminare, affondare le zampe in una melma di sangue e risalire lungo un filo d'oro abbandonato lì dall'umano stesso, quando non era altro che infanzia e non aveva nessun tetto sulla testa a impedire il volo dei suoi pensieri. Animale fra gli animali, non conosceva ancora la sofferenza. L'umano è un corridoio e ogni umano piange il suo cielo scomparso. Un cane sa tutto questo, ed è per questo che il suo affetto per l'umano è infinito.

Lui ha smesso di piangere ormai da tanto tempo. Non c'è nessuno che possa conoscerlo. È un corridoio condannato. Attraverso la persiana dei suoi occhi, scorgo il viso fantasma di un bambino annichilito dalla paura. Vorrei tanto liberarlo. Sono un cane potente, non ho paura di nulla se il mio padrone mi ordina di attaccare. Basterebbe una parola, Kill him, Motherfucker!, e gli salterei alla gola, affonderei i denti, strapperei tutto quello che si può strappare per aprirmi un varco verso quel bambino e liberarlo dalla sua paura.

Ma il mio padrone non mi ordina niente. Sit, Motherfucker, don't move! Obbedisco. Con quale sforzo, però. Non so quanto potrò resistere. Viaggiamo seduti tutti e tre sul sedile del camion. La piattaforma è piena degli scatoloni che gli uomini hanno caricato per tutta la notte. Io sono seduto nel mezzo. Il mio padrone guida. Mi mette la mano sulla testa e questo mi basta per calmarmi. Lui, nella luce del giorno, guarda avanti, gli occhi fissi sulla strada che scorre senza fine. Il viaggio sarà lungo. Lo sento.

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LARUS ARGENTATUS



Hanno attraversato il grande dormitorio delle auto, estranei allo sciame mattutino di uomini e donne. Lui procedeva senza cercare di evitare le pozze di pioggia. Un uomo gli camminava accanto, un cane lo seguiva da vicino. Lui ha alzato la testa per guardare la corsa delle nuvole. Ha visto il mio volo e io ho visto la sua follia. Questo mi è bastato. Ho tracciato un grande cerchio senza battere le ali nemmeno una volta, ho lanciato un grido di allarme, Aiiak! Aiiak! Aiiak!, e ho impresso una leggera inclinazione per lasciare che il vento mi spazzasse via fino alla superficie del fiume, il cui scintillio non ha potuto cancellare la traccia del suo volto impressa sulle mie retine come quando per fissare troppo il sole si vedon poi su tutto cerchi vermigli.

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CANIS LUPUS FAMILIARIS TERRA AMERICANA
STAFFORDSHIRE



Mi sono stirato. Ho fatto una corsa. Sono tornato dal mio padrone, poi sono ripartito subito. Avevo una voglia pazza di saltare da tutte le parti. Mi sono lanciato su un gabbiano, ho bevuto in una pozza d'acqua e ho urinato su un blocco di cemento che si trovava in mezzo al parcheggio. Motherfucker! Come here! Sono tornato. Sit! Mi sono seduto. L'uomo ha detto:

«Mi serve qualche spiccio».

Il mio padrone gli ha allungato una moneta argentata.

«Non dimenticare: se ti parla di Janice o della riserva, tu non sai niente. Non sai nemmeno di che si tratta. Se ti domanda come mai ti trovi a Châteauguay, digli che sei venuto con degli amici per prendere una boccata d'aria».

«Ho bisogno di un'altra moneta».

«Per fare cosa?».

«Voglio chiamare mia sorella».

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COCCINELLA SEPTEMPUNCTATA



L'uomo s'infila all'interno della cabina. La porta pieghevole si appiattisce dietro di lui. Sono dentro il suo odore. Il suo sudore. La sua acidità. Mi lascio cadere in volo planato. Gli giro intorno all'altezza della spalla. Mi poso sulla sua schiena. Ecco che fa come tutti gli altri quando gli altri sono qui: tiene in mano la testa nera del serpente che ha staccato dal suo supporto, se la porta all'orecchio e, con la bocca nella bocca del rettile, produce vibrazioni. Le pareti risuonano, le mie antenne fremono e seguono, precise, le variazioni delle curve e la lunghezza delle onde emesse.

Il coroner Aubert Chagnon, per favore / Wahhch Debch / Grazie.

Mi arrampico fino alla base del suo collo, le zampe aggrappate alle maglie del tessuto che lo ricopre. Voglio divorarlo. Tento di iniettargli la mia saliva nel corpo. Cerco un punto in cui poter penetrare. Niente.

Buongiorno / Da Châteauguay / Degli amici / Non ho più telefono / L'ho buttato via / Perché? Lei ha qualche novità? / Di che genere?

La nuca s'inzuppa di sudore. Percepisco un fremito. La pelle si accappona. Ci sono dei peli sparsi. C'è un neo sulla linea di confine dei capelli, che compare e scompare a seconda dei lievi movimenti della testa, delle sue inflessioni. C'è l'odore. Sempre acido. Acre. Negli interstizi della sua epidermide ci sono dei parassiti microscopici di cui sento la presenza.

Lei ha un'idea del posto dove può essersi cacciato? / Forse / La polizia probabilmente sa quello che fa / Ha ragione / No / Devo prendere un po' d'aria, e poi non sono una compagnia molto allegra / Volevo avvertirla / Non so / Negli Stati Uniti / Mio padre / Las Vegas / Forse no / L'ho buttato via, gliel'ho detto / La avvertirò / Non mancherò / Volevo dirle: forse lei ha ragione. Ho qualcosa da fare. Ancora non so cosa sia ma credo che ci stia andando incontro / No. Per il momento, sono ossessionato dall'angoscia di svegliarmi una mattina e di ricordarmi che sono stato io a uccidere Léonie / Lo so, ma è tutto così astratto / So che lei mi capisce / Volevo soltanto dirle che le sue parole non sono state inutili e volevo ringraziarla / Cercherò / A presto.

Le onde vibratorie muoiono. L'uomo non abbandona la testa del serpente. Infila un pezzo di metallo nella fessura del supporto. Schiaccia i bottoni argentati. Le onde vibratorie nascono dal nulla, le pareti risuonano, le mie antenne fremono.

Ciao, Nabila, sono Wahhch. Volevo dirti di non preoccuparti. Starò via un po' di tempo. Forse andrò a trovare papà a Las Vegas. Non dirgli niente, nel caso dovessi cambiare idea. Ecco. Non ho più telefono. Ho bisogno di silenzio. Un bacio.

Riaggancia la testa del serpente al suo ramo metallico, fissato nell'angolo della cabina. Si gira. Il suo odore si espande. Spicco il volo. Lascio quel calore umido, concentrato fra le quattro pareti a vetri. Il suo odore si dissolve. Mi aggrappo al vetro. Appoggio l'addome. Li vedo attraverso la trasparenza. Un uomo, un uomo e un cane. Li vedo. Si allontanano. Camminano tra chiazze di cielo cadute sulla terra sotto forma di pioggia. Il calore del sole mi ritempra. Agguanto un pidocchio. Gli inietto la mia saliva. Lo sento rammollirsi. Non lo frantumo. Aspiro la sua linfa. Lo svuoto. Ingoio tutto.

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Pagina 165

«La amavi, tua moglie? Voglio dire: la amavi ancora? Sembra scontato amare la propria moglie, si dice sempre Amo mia moglie, amo i miei figli, e cose del genere, ma a volte si ha proprio voglia di starsene da soli. Io non ho avuto figli, quindi su questo ho poco da raccontare, ma con le tipe con cui sono stato, mi è capitato di aver voglia che sparissero, che succedesse qualcosa per potermi liberare di loro. Capisci cosa intendo? Con ciò, non voglio dire che speravo che morissero, ma provavo a immaginare che non ci fossero più, e la cosa non mi dispiaceva affatto. A te non piace l'idea di ritrovarti da solo? Con il tuo sacco a pelo e niente più di cui preoccuparti? Niente pulizie da fare, niente spesa, niente affitto da pagare? La libertà, insomma».

Lui non ha risposto. È sprofondato nel silenzio come se cercasse di penetrare l'oscurità in cui l'altro cercava di gettarlo.

«E poi, se non sbaglio, tua moglie era anche incinta. L'ho letto sul giornale... Era incinta, no?».

«Sì».

«E non ti sta bene? Voglio dire, insomma, sì, è spaventoso, neanche da parlarne, ma non ti senti anche liberato?».

«Da che cosa?».

«Non so, la casa, la macchina, il seggiolino del bambino da montare, da smontare, il passeggino, la famiglia, le vacanze, insomma tutti gli annessi e connessi, le baby sitter, i pannolini, l'inferno. Bisogna proprio volerlo. Una donna, non so se sei d'accordo, ma un giorno o l'altro finisce sempre per andare fuori di testa quando partorisce, non è più la stessa. Conosco un sacco di uomini che da mastini feroci sono diventati cagnolini da compagnia, dei bei barboncini ben pettinati e con il cappottino sulla schiena, i cuscinetti ai piedi, solo perché hanno trovato una donna. Non è tollerabile. Non ne esci più, tranne che con la morte. Si può dire quello che si vuole, ma è il miglior colpo di spugna che esista. Conosco una coppia di amici che vivevano dalle parti di Sorel. Avevano un ragazzo di diciassette anni. Handicappato di brutto. Non poteva camminare, non poteva mangiare, poteva a malapena parlare. Hanno impostato la loro vita sulle esigenze del ragazzo. Hanno ristrutturato la casa, rifatto le scale, installato dei montacarichi, tutto l'ambaradan. Gli organizzavano dei viaggi, lo mandavano a una scuola speciale, gli procuravano degli amici, tutto quello che ti pare, non c'è niente che non abbiano fatto. Un giorno, mentre tornavano a casa, hanno avuto un incidente. Non era colpa loro, un camion era andato fuori strada, non conosco i dettagli, ma il ragazzino è morto all'istante. Loro, invece, se la sono cavata. Neanche un graffio. Niente! Lo hanno pianto, gli hanno fatto un bel funerale, con un mucchio di persone venute a dire quanto fosse bello e anche fine e anche intelligente e anche coraggioso, e quanto fosse spaventoso, tutta quella perseveranza per poi finire così! Tutto quello che ti viene in mente è stato detto, soltanto che poi tutti se ne sono andati e loro si sono ritrovati soli, senza nessuno da accudire. Hanno recuperato la loro vita, hanno venduto la casa, hanno fatto il giro del mondo in moto, hanno ricominciato a uscire, a bere e a divertirsi. Il problema che avevano era risolto. Voglio dire: sì, il ragazzino è morto ed è una cosa triste, e ogni anno per l'anniversario vanno ancora oggi a piangere sulla sua tomba, ma nello stesso tempo si erano "sbarazzati" del problema. C'è poco da fare, è così, capisci cosa voglio dire? E tu, non ti senti un po' "sbarazzato" del problema?».

«Come faccio a saperlo, tutto questo non è mai avvenuto».

«È proprio quello che voglio dire: sei libero».

Dal mio angolino, sento spesso gli umani che parlano fra di loro. Li sento anche quando tacciono. Il loro silenzio non ha sempre la stessa consistenza. Ci sono silenzi pesanti e silenzi vuoti. Il suo era pieno di pensieri.

«A cosa teniamo?», ha chiesto.

«Che intendi dire?».

«Quali sono le cose o le persone a cui decidi di tenere? E perché? Non lo sai. Un bambino, per esempio, tiene molto a un pezzo di stoffa. Non è nulla, ma ci tiene. Ci dorme, ci esce insieme. Ci tiene. Un pezzo di stoffa, una capigliatura, una donna. Un paio di occhi. Uno sguardo. Una donna con delle parole e un certo modo di mettere tutte quelle parole insieme. Un certo modo di tacere e di esitare, di camminare, di baciare. Credi di esserti abituato alla bellezza del suo volto, e poi, anni dopo, torni a casa e ti sorprende. Un profilo in controluce riflesso dello specchio, e tutto riappare all'improvviso come nell'istante in cui lo hai notato per la prima volta e il tuo cuore si è turbato e ha cominciato a battere all'impazzata e tu non volevi più nessun'altra vita se non quella che vivevi in quel momento. A cosa tieni e a cosa decidi di tenere e cos'è che perdi nella frazione di secondo in cui lo perdi. Io la amavo. Lei era libera, brillante. Era bella, era spiritosa. La amavo. Non so perché, ora non sento più niente. La morte di Janice mi colpisce di più. Janice, Léonie, dei pezzi di stoffa spiegazzati, strappati. Non so più cosa voglia dire, "tenere a qualcuno". Io tenevo a lei. Spesso mi dicevo che non sarei sopravvissuto a un'eventuale separazione. A te è già capitato di tenere a qualcuno?».

«Prima?».

«Sì, prima».

«Forse mi è successo, ma non me ne ricordo più».

«E adesso, c'è qualcuno a cui tieni?».

«Il mio cane».

Hanno smesso di parlare. Avevano finito di mangiare. Qualcosa volgeva al termine.

«Perché lo hai chiamato Motherfucker?».

«È un soprannome che si usa tra motociclisti, lo si dà a qualcuno per cui si ha molto rispetto.

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Pagina 231

«Shelly vuol dire che qui, in Nordamerica, sembra che la gente abbia due idee fisse, ossia come far vivere l'industria automobilistica e come risolvere, una volta per tutte, quella che i bianchi chiamano "la questione indiana"», ha detto Willy con un risolino a fior di labbra. «OK, Shelly non ha parlato di macchine, questo l'ho aggiunto io, lei ha parlato soltanto della "questione indiana", che è l'espressione più umiliante che ci sia».

«Yes! "La questione indiana". Risolvere una volta per tutte "la questione indiana", ossia come fare in modo che la "questione indiana" non esista neanche più, per il semplice fatto che tutti, dal primo all'ultimo, Ojibwa, Uroni, Cree, Abenachi, whatever, saranno stati divorati dal political corpus».

«L'assimilazione», ha aggiunto Willy.

«Hanno chiamato tutto questo "Legge d'integrazione canadese". Vuoi sapere cos'è, la "Legge d'integrazione canadese"?».

Non ha risposto subito. Guardava Shelly rabbrividendo lievemente. Si è spinto un po' indietro sulla sedia. Ha detto soltanto Sì.

«Hai quattro anni e stai per andare a cena. Una macchina della Gendarmeria reale canadese posteggia davanti alla tua capanna e un ufficiale viene a bussare alla porta e dice a tua madre che è venuto a prendere la piccola Shelly in virtù della Legge d'integrazione canadese dei popoli autoctoni che impone a ogni bambino di esiliarsi lontano dalla sua tribù e dalla sua riserva. Mia madre non dice niente, non viene a vestirmi, non viene a darmi un bacio, non mi dà la mia bambola. Fa solo un cenno col capo per dire all'uomo della Gendarmeria che la piccola indiana che è venuto a prendere sono io e che il mio cappotto è nell'armadio a muro accanto all'ingresso. A me dice solo di seguire quell'uomo e di non fare storie. Mi alzo. Gli arrivo all'altezza degli stivali scuri e lucidi. Lui mi mette il cappotto e mi fa salire in macchina e chiude la portiera. Quest'ultima sbatte con un rumore che non ho mai dimenticato. Ancora oggi, quando salgo in una macchina e sento la portiera che sbatte in quel modo, mi sento una bambina di quattro anni. Mi hanno mandata in una famiglia del Sud dell'Ontario, a più di settecento chilometri dalla riserva dove sono nata. Capisci? Qualche anno dopo, avevo circa dieci anni, la famiglia affidataria mi ha portata a visitare la riserva. Ero talmente entusiasta di vedere il posto dove ero nata e dove ero cresciuta! La terra dei miei antenati! Una volta laggiù, sono rimasta in macchina. Non sono voluta uscire. Non volevo più guardare. Tutto il mio entusiasmo era svanito, avevo solo vergogna. Avevo vergogna! Questa è la Legge d'integrazione canadese. Insegnare all'indiano a vergognarsi della sua tribù e della sua terra. Ero furibonda con me stessa, perché non volevo accettare che io, proprio io, fossi originaria di quel posto di cui vedevo solo cose orribili attraverso il finestrino. Era brutto! Era tutto così brutto! Da quel momento, ho vissuto in esilio per il resto della mia giovinezza. L'adolescenza, i vent'anni e gli anni immediatamente successivi. Non ho mai detto a nessuno che ero un'indiana ojibwa, non volevo che si vedesse, che si sapesse. Ho imparato l'inglese, il francese, ho fatto di tutto per essere una canadese bianca perfetta, integrata, degna di stima, ma era l'esilio. Dentro di me, era l'esilio. Non facevo differenza tra Uroni, Mohawk, Cree, Abenachi o Ojibwa, ma non appena vedevo qualche disperato amerindio su un marciapiede di Toronto, cambiavo direzione. Detestavo gli indiani, odiavo tutto ciò che era folklore, i totem, gli oggetti di artigianato, i turisti grassoni e pieni di soldi, odiavo tutto ciò e non volevo farne parte! Alla TV c'erano un mucchio di trasmissioni che parlavano di questo: "The Indian Question"! Commissioni, inchieste, studi! Parlavano dell'alcolismo, del contrabbando di sigarette, dei mocassini e poi dei tassi di sucidi nelle riserve, ma mai, mai, mai che abbia sentito qualcosa su quello che ho vissuto io! Per quanto mi riguardava, non bevevo! Non facevo traffici illeciti! Non mi suicidavo! – non ancora, almeno. Non facevo mocassini! Ero solo stata trasferita da un'altra parte, io! E di questo trasferimento, nessuno parlava! Come se non fosse mai esistito, come se fossi stata l'unica a vivere quella storia lì! Non so di dove sei tu, né da dove arrivi, ma tutti i canadesi della mia età, che siano bianchi o rossi o whatever, sono tutti figli delle leggi d'integrazione, ma nessuno lo sa. E vedi bene che ora io ti racconto tutto questo, ma sono stata fortunata a trovare una famiglia che si è comportata bene con me. Più che bene. Hanno capito tutto e mi hanno aiutata, mi hanno incoraggiata, come dei veri genitori. Si sono battuti per far cambiare la legge. Insomma, della brava gente che mi ha voluto bene. Jackson, invece, è stato picchiato, durante tutta la sua infanzia, da dei preti che pretendevano a tutti i costi che smettesse di scrivere con la sinistra. How many families did you do?».

«Eighteen».

«Diciotto. Ha cambiato diciotto famiglie affidatarie e poi è finito in carcere a quindici anni per aver spezzato i denti a un vescovo che voleva infilarglielo nel culo. Devo dire che io ho avuto fortuna! Jackson, invece, non si libererà mai della vergogna. Sì, ho avuto fortuna. E ce ne vuole, per chiudere con la vergogna. Un giorno qualcuno mi ha detto: Vai a vedere il posto dove sei nata. Vallo a vedere. Sono tornata nella riserva, avevo ventotto anni. Ci sono tornata. Ci sono entrata, coi pugni stretti. Ho camminato lentamente per le strade. Tutte le donne somigliavano a mia madre, tutte le bambine somigliavano alla bambina che ero stata. Era ancora più brutto di prima, it was horrible. C'erano dei bambini che giocavano nel parco. Mi sono seduta. Mi sono tornate in mente alcune parole amerindie. Ho riconosciuto un suono. Ho colto una frase. Ho sentito risalire i ricordi, la memoria che avevo conservato. Quel parco, lo conoscevo... ci ero già venuta... molto tempo prima... ho riconosciuto il colore dello scivolo, ho visto i pioppi tutt'intorno, ho capito che erano i miei alberi, e il fumo di legna che usciva dai comignoli delle capanne allineate, povere e miserevoli, non aveva lo stesso odore del fumo di legna che avevo sentito in altri posti, e il freddo, il vento, tutto, erano il mio vento, il mio freddo, era casa mia. Quel giorno, seduta sulla panchina di un parco, ho provato la vergogna di essere andata via e ho avuto soltanto voglia di battermi, di battermi per i bambini che erano lì a giocare, a due passi da me. Capisci?».

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