Copertina
Autore Chantal Mouffe
Titolo Sul politico
SottotitoloDemocrazia e rappresentazioni dei conflitti
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2007, Testi e pretesti , pag. 168, cop.fle., dim. 10,3x17x1,2 cm , Isbn 978-88-424-2038-5
OriginaleOn the Political
EdizioneRoutledge, London, 2005
TraduttoreSandro d'Alessandro
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe politica , destra-sinistra
PrimaPagina


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Indice


  1 1. Introduzione

  9 2. La politica e il politico

 39 3. Oltre il modello della lotta tra avversari?

 73 4. Le sfide attuali alla visione postpolitica

103 5. Quale ordine mondiale: cosmopolitico
       o multipolare?

137 6. Conclusione

153    Note

163    Indice dei nomi


 

 

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1. Introduzione


In questo libro intendo discutere un'idea che è diventata "senso comune" nella maggior parte delle società occidentali: la concezione secondo la quale abbiamo ormai raggiunto uno stadio di sviluppo economico-politico che costituisce uno straordinario progresso nell'evoluzione dell'umanità e non ci resta che esaltare le possibilità che esso dischiude. I sociologi affermano che siamo entrati in una "seconda modernità" nella quale gli individui, liberati dai vincoli collettivi, possono finalmente dedicarsi a coltivare una varietà di stili di vita, non più intralciati da costrizioni sociali divenute antiquate. Il "mondo libero" ha trionfato sul comunismo e, con l'indebolirsi delle identità collettive, è ora possibile un mondo "senza nemici". I conflitti animati da spirito partigiano appartengono al passato e il consenso può ora essere conseguito attraverso il dialogo. Grazie alla globalizzazione e all'universalizzazione della democrazia liberale, siamo in grado di attenderci l'avvento di un cosmopolitismo che porterà pace, prosperità e sviluppo dei diritti umani in ogni luogo del mondo.

Voglio sottoporre a una serrata critica questa visione "postpolitica". Il mio bersaglio principale è costituito da quanti nel campo progressista hanno accettato questa visione ottimistica della globalizzazione e sono diventati sostenitori di una forma consensuale di democrazia. Esaminando attentamente alcune delle teorie più diffuse sottese allo spirito postpolitico in una serie di campi – sociologia, teoria politica e relazioni internazionali – mostrerò come questa impostazione sia profondamente sbagliata e come, anziché contribuire a una "democratizzazione della democrazia", sia all'origine di molti dei problemi che le istituzioni democratiche si trovano ad affrontare. Nozioni come "democrazia senza parti pregiudizialmente contrapposte", "democrazia dialogica", "democrazia cosmopolitica", "buon governo", "società civile globale", "sovranità cosmopolitica", "democrazia assoluta" – per citare soltanto alcune delle idee oggi più di moda – derivano tutte da una comune visione antipolitica che rifiuta di riconoscere la dimensione antagonistica costitutiva del "politico". Il loro scopo è edificare un mondo "oltre la destra e la sinistra", "oltre l'egemonia", "oltre la sovranità" e "oltre l'antagonismo". Questo orientamento rivela una totale mancanza di comprensione di ciò che è in gioco nella politica democratica e delle dinamiche con cui si costituiscono le identità politiche; inoltre, come vedremo, contribuisce a esacerbare il potenziale antagonistico insito nella società.

Una parte cospicua del mio lavoro consisterà nell'esaminare in numerose aree le conseguenze teoriche e politiche della negazione dell'antagonismo. La mia obiezione fondamentale è che rappresentare lo scopo della politica democratica in termini di consenso e riconciliazione è non solo concettualmente errato, ma anche politicamente rischioso. L'aspirazione a un mondo in cui la demarcazione noi/loro sia superata si basa su premesse false e coloro che condividono questo modo di vedere rischiano di perdere di vista il vero compito di una politica democratica.

A ben vedere questo rifiuto dell'antagonismo non è cosa nuova. La teoria democratica è rimasta a lungo ancorata all'idea che la bontà e l'innocenza originaria degli esseri umani fossero condizione indispensabile della possibilità stessa della democrazia. Alla base del moderno pensiero politico democratico vi era in generale una visione idealizzata della socievolezza umana come essenzialmente mossa da empatia e reciprocità. La violenza e l'ostilità sono viste come un fenomeno arcaico, che verrà eliminato grazie al progredire degli scambi e allo stabilirsi, mediante il contratto sociale, di una comunicazione trasparente tra i partecipanti razionali. Coloro che mettevano in dubbio questa visione ottimistica erano automaticamente considerati nemici della democrazia. Pochi sono stati i tentativi di elaborare il progetto democratico sulla base di un'antropologia che riconoscesse il carattere ambivalente dell'associarsi umano e il fatto che reciprocità e ostilità sono inseparabili. E nonostante tutto ciò che abbiamo imparato da varie discipline, l'antropologia ottimistica va ancor oggi per la maggiore. Per esempio, dopo più di mezzo secolo dalla morte di Freud, la teoria politica mostra ancora una fortissima resistenza nei confronti della psicoanalisi e non ne ha ancora assimilato la lezione sull'impossibilità di sradicare l'antagonismo.

Di contro io sostengo che la fede nella possibilità di un consenso razionale universale ha posto il pensiero democratico su una strada sbagliata. Il compito dei teorici e dei politici democratici non dovrebbe essere quello di cercare di progettare istituzioni capaci di conciliare, attraverso procedure che si vorrebbero "imparziali", tutti gli interessi e i valori in conflitto fra loro, ma quello di prospettare la creazione di una sfera pubblica di contesa, fortemente "agonistica", nella quale possano confrontarsi differenti progetti politici che aspirano all'egemonia. Questa, nel mio modo di vedere, è la condizione sine qua non per un effettivo esercizio della democrazia. Si fa un gran parlare oggi di "dialogo" e di "deliberazione", ma qual è il significato di questo genere di termini in ambito politico, se non si dà alcuna scelta reale e se i partecipanti alla discussione non possono decidere tra alternative chiaramente differenziate?

Senza dubbio i liberali, che pensano che in politica sia possibile raggiungere un accordo razionale e che considerano le istituzioni democratiche come il veicolo per trovare la risposta razionale ai diversi problemi della società, tacceranno di "nichilismo" la mia concezione del politico. E lo stesso faranno coloro che nella sinistra estrema credono nella possibilità di una "democrazia assoluta". È inutile cercare di convincerli che il mio approccio agonistico deriva da una "vera" comprensione del "politico". Seguirò un'altra strada, cercando di mettere in luce le conseguenze che può avere per le politiche democratiche il rifiuto del "politico", nell'accezione che io do a questo termine. Mostrerò come l'approccio consensuale, invece di creare le condizioni per una società riconciliata, conduca all'emergere di antagonismi che una prospettiva agonistica, fornendo a quei conflitti una forma d'espressione legittima, sarebbe riuscita a evitare. In questo modo spero di dimostrare che comprendere l'irriducibilità della dimensione conflittuale nella vita sociale, lungi dal costituire una minaccia per il progetto democratico, è la condizione necessaria per far fronte alla sfida che attende la politica democratica.

Dato il razionalismo prevalente nel discorso politico liberale, il più delle volte è tra i teorici conservatori che ho trovato intuizioni importanti per una comprensione adeguata del politico. Sono loro che riescono a dare uno scossone ai nostri assunti dogmatici; certo meglio di quanto facciano gli apologeti liberali. Per questa ragione ho scelto di condurre la mia critica del pensiero liberale sotto l'egida di un pensatore controverso come Carl Schmitt. Sono convinta che da lui, che è stato uno dei più brillanti e intransigenti oppositori del liberalismo, abbiamo molto da imparare. So che, per via della compromissione di Schmitt con il nazismo, la mia scelta potrà suscitare ostilità. Molti la considereranno inopportuna se non decisamente disdicevole. Tuttavia, io credo che il criterio determinante per decidere se sia o meno opportuno instaurare un dialogo con l'opera di un pensatore non vada ricercato nelle sue qualità morali, ma nella sua forza intellettuale.

A mio parere il rifiuto di molti teorici democratici di confrontarsi con il pensiero di Schmitt – un rifiuto basato su remore morali – è un segno tipico della deriva moralistica che caratterizza di questi tempi lo spirito postpolitico. Ebbene, la critica di questa tendenza costituisce uno dei nuclei della mia riflessione. Una delle tesi centrali di questo libro è che, contrariamente a quel che vogliono farci credere i teorici postpolitici, noi assistiamo in ogni campo non alla sparizione del politico nella sua dimensione di lotta tra avversari, ma a qualcosa di profondamente diverso. Quel che succede è che al giorno d'oggi il politico è accordato su un registro morale. In altre parole, esso fa ancora tutt'uno con la demarcazione noi/loro, ma il noi/loro, invece di essere definito con categorie politiche, è ora fondato in termini morali. Al posto di una lotta tra "destra e sinistra" ci troviamo di fronte a una lotta tra "giusto e ingiusto".

Traendo esempi dal populismo di destra e dal terrorismo, nel quarto capitolo prenderò in esame le conseguenze di questo slittamento per la politica interna dei paesi e per la politica internazionale e metterò in luce i rischi che comporta. Il mio argomento è che quando non sono a disposizione i canali attraverso i quali i conflitti possono prendere una forma "agonistica", quegli stessi conflitti tendono a emergere nella modalità antagonistica. Ora, quando l'opposizione noi/loro, invece di essere formulata come confronto politico tra "avversari", è concepita come un confronto morale tra il bene e il male, la controparte può essere intesa solo come un nemico da distruggere, e questo non favorisce certo un rapporto agonistico. Di qui il continuo emergere di antagonismi che mettono in questione i presupposti stessi dell'ordine esistente.

Un'altra tesi riguarda la natura delle identità collettive, che comportano sempre una discriminazione noi/loro. Esse hanno una posizione centrale in politica e il compito della politica democratica non è di superarle attraverso il consenso, ma di costruirle in una maniera che dia vigore al confronto democratico. L'errore del razionalismo liberale è di ignorare la dimensione affettiva mobilitata dalle identificazioni collettive e di immaginare che queste "passioni", che si vorrebbero arcaiche, siano destinate a scomparire con l'avanzare dell'individualismo e il progresso della razionalità. Così si spiega come mai la teoria democratica sia così male attrezzata a cogliere la natura dei movimenti politici "di massa", nonché di fenomeni quali il nazionalismo. Proprio in considerazione del ruolo che spetta alle "passioni" nella vita politica la teoria liberale, se vuole essere all'altezza del "politico", non si può limitare a riconoscere l'esistenza di una pluralità di valori e a decantare la tolleranza. La politica democratica non può ridursi all'individuazione di compromessi tra interessi e valori o a scelte sul bene comune; è necessario che abbia una reale presa sui desideri e le fantasie della gente. E per essere in grado di mobilitare le passioni verso le prospettive democratiche, la politica democratica deve avere un carattere partigiano. È questa infatti la funzione della distinzione destra/sinistra, e non dobbiamo cedere alla sollecitazione dei teorici postpolitici a pensare "oltre la destra e la sinistra".

C'è un'ultima lezione che si può ricavare da una riflessione sul "politico". Se la possibilità di raggiungere un ordine "al di là dell'egemonia" è preclusa, che implicazioni si debbono trarre per il progetto cosmopolitico? Potrebbe essere qualcosa di più dell'instaurazione di un'egemonia planetaria da parte di un potere che fosse riuscito a occultare il suo dominio identificando i propri interessi con quelli dell'umanità? Diversamente dai numerosi teorici che vedono la fine del sistema bipolare come qualcosa che reca con sé la speranza di una democrazia cosmopolitica, sosterrò che i pericoli insiti nell'attuale ordine unipolare possono essere evitati solo dando vita a un mondo multipolare, con un equilibrio tra numerosi poli regionali che rispecchi una pluralità di poteri egemonici. Questo è il solo modo per evitare l'egemonia di un'unica superpotenza.

In quello che è il dominio del "politico", è ancora degna di un'attenta riflessione un'intuizione fondamentale di Machiavelli: «in ogni città si truovono questi dua umori diversi [...] che il populo desidera non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere el populo». Ciò che definisce la prospettiva postpolitica è la pretesa che siamo entrati in una nuova era nella quale questo potenziale antagonismo sarebbe scomparso. E proprio per questo la prospettiva postpolitica potrebbe mettere a repentaglio il futuro della politica democratica.

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Il politico come antagonismo

Il punto di partenza della mia indagine è l'attuale incapacità di affrontare i problemi delle nostre società in modo politico. Voglio con questo dire che le questioni politiche non sono faccende meramente tecniche che possano essere risolte da esperti. Le questioni squisitamente politiche comportano sempre decisioni che ci impongono di scegliere tra alternative in conflitto. Sosterrò che questa incapacità di pensare politicamente è dovuta in larga misura all'incontestata egemonia del liberalismo, e una parte cospicua della mia riflessione sarà dedicata a esaminare l'impatto delle idee liberali nelle scienze umane e nella politica. Mi propongo di evidenziare il principale difetto del liberalismo in campo politico: la negazione del carattere ineliminabile dell'antagonismo. In questo contesto, parlando di "liberalismo", mi riferisco a un discorso filosofico che ha molte varianti, unite non da un'essenza comune, ma, come direbbe Wittgenstein, da un certo numero di «somiglianze di famiglia ». Vi sono – questo è certo – molti liberalismi, alcuni più progressisti di altri; ma, salvo rare eccezioni ( Isaiah Berlin, Joseph Raz, John Gray, Michael Walzer, per citarne alcuni), la tendenza dominante nel pensiero liberale è caratterizzata da un approccio razionalista e individualista che preclude la comprensione delle identità collettive. Questo tipo di liberalismo è incapace di cogliere adeguatamente la natura pluralistica del mondo sociale, con i conflitti che essa comporta – conflitti per i quali non potrà mai esistere una soluzione razionale. Secondo la tipica concezione liberale del pluralismo, viviamo in un mondo nel quale vi sono molte prospettive e molti valori; anche se per ovvie limitazioni empiriche è impossibile adottarli tutti, messi insieme costituiscono un complesso armonioso e privo di conflitti. È evidente che questo tipo di liberalismo non può che negare il politico nella sua dimensione antagonistica.

La critica più radicale al liberalismo così inteso si trova nell'opera di Carl Schmitt, di cui in questo mio confronto con i presupposti liberali riprenderò alcuni argomenti. Nel Concetto di politico, Schmitt dichiara decisamente che, a rigor di termini, il puro principio del liberalismo non può dare vita a una concezione specificamente politica. A suo parere infatti un individualismo coerente deve negare il politico, perché esige che l'individuo rimanga il punto di riferimento ultimo. Afferma Schmitt: «Il pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove invece entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, quelle cioè di etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. La sfiducia critica nei confronti dello Stato e della politica si spiega facilmente in base ai principi di un sistema per il quale il singolo deve rimanere terminus a quo e terminus ad quem». L'individualismo metodologico che caratterizza il pensiero liberale preclude la comprensione della natura delle identità collettive. Infatti per Schmitt il criterio del politico, la sua differentia specifica, è la demarcazione amico/nemico. Il politico ha dunque a che fare con la formazione di un "noi" in quanto contrapposto a un "loro" ed è sempre connesso a forme collettive di identificazione; ha a che fare con il conflitto e l'antagonismo ed è perciò il regno della decisione, non della libera discussione. Il politico, secondo quanto afferma il pensatore tedesco, «può essere compreso solo mediante il riferimento alla possibilità reale del raggruppamento amico/nemico, prescindendo dalle conseguenze che ne derivano quanto alla valutazione religiosa, morale, estetica, economica del "politico" stesso».

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La politica come egemonia

Dopo l'antagonismo, il concetto di egemonia è la nozione chiave per dare sostanza alla questione del "politico". Prendere atto della dimensione antagonistica sempre presente nel "politico" significa fare i conti con l'assenza di un fondamento ultimo e riconoscere la dimensione di indecidibilità che pervade ogni ordinamento. Comporta, in altre parole, che si riconosca la natura egemonica di ogni tipo di ordine sociale e il fatto che ogni società è il prodotto di una serie di pratiche tese a istituire un dato ordine in un contesto di contingenza. Come segnala Ernesto Landau, «le due caratteristiche centrali di un intervento egemonico sono la natura "contingente" delle articolazioni in cui si sostanzia l'egemonia e la loro natura "costitutiva", nel senso che esse istituiscono le relazioni sociali in modo primario, indipendentemente da una qualche razionalità sociale a priori». Il politico è in relazione con gli atti che istituiscono egemonia. Ed è in questo senso che occorre differenziare il sociale dal politico. Il sociale è il regno di pratiche sedimentate, vale a dire di pratiche che dissimulano gli atti originari della loro istituzione politica contingente e che sono date per scontate, come se fossero autofondate. Le pratiche sociali sedimentate sono parte costitutiva di ogni società possibile; non tutti i legami sociali vengono messi in discussione nello stesso momento. Il sociale e il politico hanno perciò lo statuto di ciò che Heidegger definiva esistenziali, e cioè sono dimensioni necessarie di ogni vita associata. Se il politico – inteso nel suo senso egemonico – implica la visibilità degli atti di istituzione del sociale, è impossibile determinare a priori che cosa sia il sociale e che cosa il politico indipendentemente da un qualche riferimento contestuale. La società non deve essere vista come il dispiegarsi di una logica a essa esterna, qualunque sia la fonte di quella logica: le forze di produzione, lo sviluppo di ciò che Hegel chiamava Spirito Assoluto, le leggi della storia e via dicendo. Ogni ordine è l'articolazione temporanea e precaria di pratiche contingenti. La frontiera tra il sociale e il politico è per essenza instabile e richiede costantemente nuove dislocazioni e negoziazioni tra gli agenti sociali. Le cose possono sempre essere altrimenti e perciò ogni assetto è basato sull'esclusione di altre possibilità. In questo senso può essere definito "politico", in quanto è espressione di una particolare struttura di rapporti di potere. Il potere è costitutivo del sociale perché il sociale non può esistere senza i rapporti di potere dai quali prende forma. Quello che in un dato momento viene considerato l'ordine "naturale" – insieme al "senso comune" che lo accompagna – è il risultato di pratiche sedimentate; non è mai la manifestazione di un'oggettività più profonda esterna alle pratiche da cui ha origine.

Riepilogando questo punto: ogni ordinamento è politico ed è basato su una qualche forma di esclusione. Vi sono sempre altre possibilità che sono state represse e che possono essere riattivate. Le pratiche articolate mediante le quali viene costituito un determinato ordine e viene fissato il significato delle istituzioni sociali sono "pratiche egemoniche". Ogni ordine egemonico è suscettibile di essere messo alla prova da pratiche contro-egemoniche, ossia pratiche che cercheranno di disarticolare l'ordine esistente in modo da insediare un'altra forma di egemonia.

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Quale forma di noi/loro per una politica democratica?

Dall'analisi svolta fin qui, emerge che uno dei compiti principali della politica democratica consiste nel disinnescare il potenziale antagonismo insito nei rapporti sociali. Se assumiamo che non lo si possa fare prescindendo dal rapporto noi/loro, ma solo strutturandolo in un modo diverso, allora si tratta di capire come si potrebbe configurare una forma "addomesticata" di antagonismo, quale forma di rapporto noi/loro implicherebbe. Per essere accettato come legittimo, il conflitto deve assumere una forma che non distrugga l'associazione politica. Ciò significa che deve esistere tra le parti in lotta qualche genere di vincolo comune, in modo che gli oppositori non vengano trattati come nemici da annientare in quanto fautori di posizioni illegittime, che è esattamente quello che accade nel rapporto antagonistico amico/nemico. In ogni caso, gli oppositori non possono essere visti come meri avversari i cui interessi possano essere trattati mediante un negoziato o composti attraverso la deliberazione, perché in questo caso l'elemento antagonistico sarebbe stato semplicemente eliminato. Se vogliamo riconoscere da un lato il permanere della dimensione antagonistica del conflitto, e dall'altro ammettere la possibilità del suo "addomesticamento", dobbiamo prospettare un terzo tipo di relazione. Si tratta del tipo di relazione che ho proposto di definire "agonismo". Mentre l'antagonismo è una relazione noi/loro nella quale le due parti sono nemici che non condividono alcun terreno comune, l'agonismo è una relazione noi/loro nella quale le parti in conflitto, pur consapevoli che non esiste una soluzione razionale al loro conflitto, nondimeno riconoscono la legittimità dei loro oppositori. Sono "avversari", non nemici. Ciò significa che, benché in conflitto, si considerano come appartenenti alla medesima associazione politica, come parti che condividono uno spazio simbolico comune entro il quale ha luogo il conflitto. Possiamo affermare che il compito della democrazia è di trasformare l'antagonismo in agonismo.

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Dato l'accento particolare che oggi viene posto sul consenso, non sorprende che la gente sia sempre meno interessata alla politica e che il tasso di astensionismo sia in crescita. La mobilitazione richiede politicizzazione, ma la politicizzazione non può esistere senza la produzione di una rappresentazione conflittuale del mondo, con campi opposti in cui la gente possa identificarsi, permettendo così alle passioni di essere mobilitate politicamente all'interno dello spettro del processo democratico. Si prenda per esempio il caso del voto. L'approccio razionalista non è in grado di cogliere che ciò che spinge la gente a votare è molto più che la semplice difesa dei propri interessi. Nel voto è presente un'importante dimensione affettiva, entra in gioco una questione di identificazione. Per agire politicamente gli uomini hanno bisogno di potersi identificare con un'identità collettiva che fornisca loro un'idea di se stessi a cui essi possano dare valore. Il discorso politico deve offrire non soltanto misure politiche, ma anche identità che consentano alla gente di dare un senso a ciò che sta vivendo e che le offrano una speranza per il futuro.

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Oltre alle insufficienze dell'approccio liberale, il principale ostacolo all'attuazione di una politica agonistica, dopo il collasso del modello sovietico, è costituito dall'egemonia indiscussa del neoliberalismo, con la sua pretesa che non vi sia alternativa all'ordine esistente. Questa pretesa è stata fatta propria dai partiti socialdemocratici, che con il pretesto della "modernizzazione" si sono spostati sempre più a destra, ridefinendosi come "centrosinistra". Ben lungi dall'approfittare della crisi del vecchio antagonista comunista, la socialdemocrazia è stata trascinata nel suo collasso. In questo modo la politica democratica ha perso una grossa opportunità. Gli avvenimenti del 1989 avrebbero dovuto rappresentare l'occasione di una ridefinizione della sinistra, ormai liberata dal peso del sistema comunista. La disintegrazione delle frontiere politiche tradizionali offriva l'opportunità di approfondire il progetto democratico tracciandone di nuove e in forma più avanzata. Sfortunatamente questa occasione è stata mancata. Invece abbiamo udito affermazioni trionfalistiche sulla scomparsa dell'antagonismo e l'avvento di una politica senza frontiere, senza un "loro"; una politica in cui tutti sarebbero stati vincitori, in cui diventava possibile trovare soluzioni favorevoli a ciascun membro della società.

Per la sinistra è stato importantissimo fare i conti con il pluralismo e con le istituzioni politiche liberaldemocratiche; ma questo non avrebbe dovuto significare la rinuncia a qualsiasi tentativo di trasformare l'ordine egemonico attuale e l'adesione all'idea che «le società liberaldemocratiche realmente esistenti» rappresentino la fine della storia. Se c'è una lezione da trarre dal fallimento del comunismo è che la lotta democratica non può essere intesa nei termini del rapporto amico/nemico e che la democrazia liberale non è il nemico da abbattere. Se assumiamo la «libertà ed eguaglianza per tutti» come principi "etico-politici" della democrazia liberale (ciò che Montesquieu definì come «le passioni che muovono un regime»), è chiaro che il problema delle nostre società non sono gli ideali che esse proclamano, ma il fatto che tali ideali non vengono messi in pratica. Perciò il compito che spetta alla sinistra non è quello di respingerli denunciandone la mistificazione e la reale funzione di schermo per il dominio capitalistico, ma di lottare per la loro effettiva realizzazione. E questo non può essere fatto senza mettere in discussione l'attuale forma neoliberale dell'ordinamento capitalistico.

Diciamo allora che questa lotta, se anche non deve essere concepita nei termini di amico/nemico, non può essere vista come una mera competizione tra interessi diversi o in modo "dialogico". E invece è proprio così che la maggior parte dei partiti di sinistra rappresenta al giorno d'oggi la politica democratica. Per poter infondere nuova vita alla democrazia è urgente uscire da questa impasse. Sono convinta che l'approccio agonistico che propongo in queste pagine, di cui l'idea di "avversario" costituisce parte integrante, potrebbe contribuire al rinnovamento e all'approfondimento della democrazia. Esso offre inoltre la possibilità di concepire la prospettiva della sinistra in termini egemonici. Gli avversari inscrivono il loro confronto all'interno della cornice democratica, ma questa cornice non è vista come qualcosa di immutabile: è suscettibile di essere ridefinita attraverso una lotta per l'egemonia. Una concezione agonistica della democrazia riconosce il carattere contingente delle articolazioni politico-economiche egemoniche che determinano la configurazione specifica di una società in un dato momento. Esse sono costruzioni precarie e pragmatiche, e quindi possono essere disarticolate e trasformate come risultato di una lotta agonistica tra avversari.

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Il rinnovamento della socialdemocrazia da parte del New Labour

Troviamo conferma di questa complementarità tra egemonia neoliberale e "terza via" se esaminiamo in che modo le proposte di Giddens per il rinnovamento della socialdemocrazia hanno ispirato la politica del New Labour. Non intendo fare un'analisi dettagliata del ventaglio delle politiche del governo Blair: sarà sufficiente indicare il suo orientamento di fondo. La domanda che voglio porre è: fino a che punto è radicale la politica del cosiddetto "centro radicale" e che genere di consenso ha cercato di far crescere? La risposta è davvero deprimente. Come ha affermato Stuart Hall, invece di mettere in discussione l'egemonia neoliberale sviluppatasi in diciotto anni di potere thatcheriano, il New Labour ha raccolto il testimone lasciato dal thatcherismo. Blair ha scelto di adattarsi all'impostazione neoliberale, anche se in maniera originale. Il suo progetto è stato di assorbire la socialdemocrazia all'interno del neoliberalismo. La strategia di lungo termine del New Labour, dice Hall, è «la trasformazione della socialdemocrazia in una variante particolare del neoliberalismo del libero mercato». Alcuni obiettivi socialdemocratici sono presenti, per esempio quello di raggiungere un certo livello di redistribuzione e di realizzare migliori servizi pubblici; ma sono subordinati alla priorità neoliberale di liberare l'azione del grande capitale dalle regolamentazioni che i precedenti governi socialdemocratici avevano istituito per tenere sotto controllo il capitalismo. Il welfare state è stato "modernizzato" introducendo al suo interno criteri di mercato e diffondendo tecniche di gestione atte a promuovere i "valori imprenditoriali" chiave: efficienza, scelta e selettività. Certamente lo stato non viene visto come un nemico come nella visione neoliberale, ma il suo ruolo è stato completamente trasformato. Non è più quello di «dare appoggio ai meno fortunati e meno influenti in una società che "naturalmente" produce grandi ineguaglianze di condizioni materiali, potere e opportunità, ma di aiutare gli individui a provvedere da sé a tutti i loro bisogni sociali — salute, educazione, ambiente, spostamenti, abitazione, cura dei figli, indennità di disoccupazione, pensione di anzianità ecc.». Questo è il modo del New Labour di intendere un "governo attivo".

Anche John Gray sottolinea l'importanza dell'ideologia neoliberale e il culto del mercato nella formazione intellettuale del New Labour; egli sostiene che, nel campo delle privatizzazioni, Blair si è spinto addirittura oltre quel che avrebbe potuto fare la Thatcher. Cita per esempio l'introduzione di imprenditori privati mossi da logiche di mercato nel sistema giudiziario e nei servizi penitenziari; a questo proposito egli osserva: «In questi casi il mercato è stato installato al centro stesso dello stato – si tratta di una misura che ai tempi della Thatcher era sostenuta soltanto dall'ala destra del suo think-thank». Altre politiche nelle quali Gray considera che Blair stia spingendosi oltre la Thatcher sono quelle che contemplano la deregulation delle poste e l'inserimento di imprenditori privati nel servizio sanitario nazionale.

Un segno molto chiaro della rinuncia del New Labour alla sua identità di sinistra è che esso ha abbandonato la lotta per l'uguaglianza. Lo slogan del partito è diventato che si deve dare una «possibilità di scegliere», una chance. Le classi sono scomparse, le parole chiave adesso sono "inclusione" ed "esclusione". La società è vista come composta fondamentalmente da ceti medi; le uniche eccezioni sono una piccola élite di gente molto ricca da una parte, e quelli che sono "esclusi", dall'altra. Una simile visione della struttura sociale fornisce le basi di quel «consenso al centro» di cui il New Labour è fautore, in armonia con il principio che la struttura delle società "post tradizionali" non è più caratterizzata dalla disuguaglianza nei rapporti di potere. Se si ridefiniscono le disuguaglianze strutturali prodotte sistematicamente dal mercato in termini di "esclusione", si può fare a meno di sottoporre a un'analisi strutturale le loro cause, evitando quindi di porsi la questione di fondo: quali siano i cambiamenti nei rapporti di potere necessari per affrontarle. Solo in questo modo una socialdemocrazia "modernizzata" può prendere le distanze dall'identità tradizionale della sinistra e situarsi "al di là della sinistra e della destra".

Una delle strade proposte da Giddens per superare la vecchia divisione tra sinistra e destra è l'istituzione di forme di collaborazione tra lo stato e la società civile; questa idea è stata adottata con entusiasmo dal New Labour con la creazione delle società pubblico-private – le "public-private partnerships" (PPP) – che hanno prodotto risultati rovinosi nei servizi pubblici. Non c'è bisogno di entrare nei dettagli della disastrosa storia delle ferrovie. Il fallimento del tentativo di affidare a imprese private la gestione di una parte tanto vitale del sistema dei trasporti è stato così clamoroso che lo stato ha dovuto fare marcia indietro. Eppure, questo non sembra avere intaccato il fervore del New Labour per le PPP, visto che è ancora vivo il tentativo di imporle in altre aree. La strategia delle PPP è peraltro paradigmatica della terza via: né lo stato (sinistra) né il settore privato (destra), ma la loro armoniosa cooperazione, con lo stato che mette i soldi per gli investimenti e gli imprenditori che mietono i profitti – e da ultimo i cittadini (i consumatori, per dirla con il New Labour) che ne subiscono le conseguenze!

In questo modo il preteso rinnovamento della socialdemocrazia ha prodotto una «variante socialdemocratica del neoliberalismo», per dirla con Hall. Il caso del New Labour chiarisce bene come, non riconoscendo che la società è sempre costituita in maniera egemonica attraverso una determinata struttura di rapporti di potere, si finisca inevitabilmente per accettare l'egemonia esistente e per restare intrappolati all'interno della sua configurazione dei rapporti di forza. È questo l'esito necessario del "consenso al centro", che sostiene di aver superato il modello degli avversari. Invece di essere il terreno in cui ha luogo un dibattito agonistico tra le soluzioni della sinistra e della destra, la politica è ridotta a "manipolazione". Visto che non vi sono differenze di fondo tra loro, i partiti cercheranno di vendere i loro prodotti con un abile marketing affidato alle agenzie pubblicitarie. La conseguenza, che è già sotto gli occhi di tutti, è una crescente disaffezione verso la politica e una drastica caduta nella partecipazione elettorale. Quanto tempo ci vorrà perché i cittadini perdano completamente la fiducia nel processo democratico?

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Verso un ordine mondiale multipolare

Come ho sostenuto nel capitolo 4, proprio il fatto che stiamo vivendo in un mondo unipolare, nel quale non ci sono canali legittimi per opporsi all'egemonia degli Stati Uniti, è all'origine dell'esplosione di nuovi antagonismi, i quali a loro volta, se non siamo capaci di coglierne la natura, potrebbero davvero condurre all'annunciato "scontro delle civiltà". La via per evitare una tale prospettiva è di prendere sul serio il pluralismo invece di cercare di imporre un unico modello al mondo intero, anche se si tratta di un modello cosmopolitico pieno di buone intenzioni. È perciò urgente abbandonare l'illusione di un mondo unificato e operare per istituire un mondo multipolare. Oggi si sente molto parlare della necessità di un effettivo "multilateralismo". Ma il multilateralismo in un mondo unipolare sarà sempre un'illusione. Fino a che esiste un unico potere egemonico, esso sarà sempre il solo a decidere se prendere in considerazione l'opinione di altre nazioni o agire per conto proprio. Un vero multilateralismo richiede che esista una pluralità di centri di decisione e una qualche forma di equilibrio – anche se si tratta soltanto di un equilibrio relativo – tra diversi poteri.

Come ho suggerito nel capitolo 4, possiamo trovare importanti intuizioni negli scritti di Schmitt degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta dove egli ragionava sulla possibilità di un nuovo Nomos della Terra che fosse in grado di prendere il posto dello Jus Publicum Europaeum. In un articolo del 1952, in cui esaminava come potesse evolvere il dualismo creato dalla guerra fredda e dalla polarizzazione tra capitalismo e comunismo, immaginò numerosi scenari possibili. Era scettico riguardo l'idea che quel dualismo fosse soltanto il preludio all'unificazione finale del mondo, che sarebbe risultata dalla vittoria totale di uno degli antagonisti, in grado infine di imporre il suo sistema e la sua ideologia a livello mondiale. La fine del bipolarismo avrebbe più verosimilmente portato a un nuovo equilibrio garantito dagli Stati Uniti e sotto la sua egemonia. Schmitt prospettava anche la possibilità di una terza forma di evoluzione che sarebbe consistita nell'apertura di una dinamica di pluralizzazione, l'esito della quale avrebbe potuto essere l'istituzione di un nuovo ordine globale basato sull'esistenza di più blocchi regionali autonomi. Questo assetto avrebbe posto le condizioni per un equilibrio di forze tra diverse ampie aree, stabilendo tra loro un nuovo sistema di diritto internazionale. Un equilibrio di questo genere avrebbe presentato somiglianze con il vecchio Jus Publicum Europaeum, salvo che in questo caso esso sarebbe stato autenticamente globale e non solo eurocentrico. Questa era la soluzione che preferiva poiché egli riteneva che, istituendo un "vero pluralismo", un ordine multipolare di questo genere avrebbe dato vita alle istituzioni necessarie a governare i conflitti, evitando le conseguenze negative risultanti dallo pseudouniversalismo prodotto dalla generalizzazione di un unico sistema. Egli era consapevole, tuttavia, che quello pseudouniversalismo era un esito molto più verosimile del pluralismo che egli sosteneva. E sfortunatamente dopo il crollo del comunismo i suoi timori sono stati confermati.

Le riflessioni di Schmitt traevano certamente origine da preoccupazioni ben diverse dalle mie, ma penso che la sua visione sia particolarmente interessante nella nostra congiuntura attuale. La sinistra dovrebbe riconoscere il carattere pluralista del mondo e adottare la prospettiva multipolare. Ciò significa, come ha sostenuto Massimo Cacciari, lavorare per stabilire un sistema giuridico internazionale basato sull'idea di poli regionali e identità culturali federate tra loro nel riconoscimento della loro piena autonomia. Cacciari riconosce il carattere pluralista del mondo e, esaminando la questione del rapporto con il mondo islamico, mette in guardia dal pensare che la modernizzazione dell'Islam debba avvenire attraverso la sua occidentalizzazione. Il tentativo di imporre il nostro modello, dice, può moltiplicare i conflitti locali e le forme di resistenza che fomentano il terrorismo globale. Egli suggerisce un modello di globalizzazione modulato intorno a un certo numero di grandi entità geografiche e di autentici poli culturali e sottolinea che il nuovo ordine del mondo deve essere un ordine multipolare.

Chiaramente, data l'incontestabile supremazia degli Stati Uniti, molti diranno che il progetto di un mondo multipolare è completamente irrealistico. Ma non è certo più irrealistico della visione cosmopolitica. Di fatto, l'emergere della Cina come superpotenza prova che una tale dinamica di pluralizzazione, lungi dall'essere irrealistica, è già operante. E questo non è l'unico segno che si stiano formando dei blocchi regionali che mirano a raggiungere una certa autonomia e capacità di negoziato. Questa è per esempio chiaramente la direzione che stanno prendendo numerosi stati dell'America Latina sotto l'egemonia del Brasile e dell'Argentina con il loro tentativo di rafforzare il Mercosur (una struttura economica comune nel Sudamerica); una dinamica paragonabile è all'opera nell'associarsi di numerosi stati dell'Estremo Oriente nell'ASEAN, e la capacità di attrazione di un modello di questo tipo è verosimilmente in crescita.

Non voglio minimizzare gli ostacoli che devono essere superati, ma, per lo meno nel caso della creazione di un ordine multipolare, questi ostacoli sono soltanto di natura empirica, mentre il progetto cosmopolitico è anche basato su premesse teoriche traballanti. Il sogno di un ordine mondiale che non sia strutturato su rapporti di potere si basa sul rifiuto di fare i conti con la natura egemonica di ogni ordine. Una volta che si sia riconosciuto che non c'è un bel niente "oltre l'egemonia", l'unica strategia concepibile per superare la dipendenza del mondo da un'unica potenza è trovare le strade per "rendere plurale" l'egemonia. E questo può essere fatto soltanto attraverso il riconoscimento di una molteplicità di potenze regionali. Solo un simile contesto farà sì che nessun attore nell'ordine internazionale si possa considerare, per via del suo potere, al di sopra della legge, arrogandosi il ruolo di sovrano. Inoltre, come ha chiarito Danilo Zolo, «un equilibrio multipolare è la condizione necessaria perché il diritto internazionale possa esercitare almeno la sua minima funzione, che consiste nel contenere le conseguenze più distruttive della guerra moderna».

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