Autore Herta Müller
Titolo Bassure
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2013 [2010], UE 8131 , pag. 160, cop.fle., dim. 13x20x1,3 cm , Isbn 978-88-07-88131-2
OriginaleNiederungen
EdizioneKriterion, Bucarest, 1982
TraduttoreFabrizio Rondolino, Margherita Carbonaro
LettoreMargherita Cena, 2017
Classe narrativa romena , narrativa tedesca












 

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Indice


   9   L'orazione funebre
  15   Il bagno svevo
  17   La mia famiglia
  19   Bassure
  91   Pere marce
  99   Tango soffocante
 103   La finestra
 107   L'uomo con la scatola di fiammiferi
 109   Cronaca di paese
 121   La scriminatura tedesca e i baffi tedeschi
 125   La corriera
 129   Mamma, papà e il piccolo
 133   A quel tempo in maggio
 137   Gli spazzini
 139   L'opinione
 143   Inge
 149   Il signor Wultschmann
 153   Parco nero
 155   Giorno feriale

157    Nota


 

 

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Pagina 15

Il bagno svevo



È sabato sera. Lo scaldabagno ha un ventre incandescente. La finestra di aerazione è ben chiusa. La settimana scorsa Arni, che ha due anni, si è preso un raffreddore per colpa dell'aria fredda. La madre lava la schiena del piccolo Arni con un paio di mutandine sbiadite. Il piccolo Arni si agita. La madre solleva il piccolo Arni dalla vasca da bagno. Povero bambino, dice il nonno. Non bisogna fare il bagno ai bambini così piccoli, dice la nonna. La madre entra nella vasca da bagno. L'acqua è ancora bollente. Il sapone fa una bella schiuma. La madre si sfrega dal collo degli gnocchetti grigi. Gli gnocchetti della madre nuotano sulla superficie dell'acqua. La vasca ha un bordo giallo. La madre esce dalla vasca da bagno. L'acqua è ancora bollente, grida la madre al padre. Il padre entra nella vasca da bagno. L'acqua è calda. Il sapone fa una bella schiuma. Il padre si sfrega dal petto degli gnocchetti grigi. Gli gnocchetti del padre nuotano con gli gnocchetti della madre sulla superficie dell'acqua. La vasca ha un bordo marrone. Il padre esce dalla vasca da bagno. L'acqua è ancora bollente, grida il padre alla nonna. La nonna entra nella vasca da bagno. L'acqua è tiepida. Il sapone fa una bella schiuma. La nonna si sfrega dalle spalle degli gnocchetti grigi. Gli gnocchetti della nonna nuotano con gli gnocchetti della madre e del padre sulla superficie dell'acqua. La vasca ha un bordo nero. La nonna esce dalla vasca da bagno. L'acqua è ancora bollente, grida la nonna al nonno. Il nonno entra nella vasca da bagno. L'acqua è gelida. Il sapone fa una bella schiuma. Il nonno si sfrega dai gomiti degli gnocchetti grigi. Gli gnocchetti del nonno nuotano con gli gnocchetti della madre, del padre e della nonna sulla superficie dell'acqua. La nonna apre la porta del bagno. La nonna guarda nella vasca da bagno. La nonna non vede il nonno. L'acqua nera trabocca oltre il bordo nero della vasca da bagno. Il nonno dev'essere nella vasca da bagno, pensa la nonna. La nonna chiude dietro di sé la porta del bagno. Il nonno fa scorrere l'acqua fuori dalla vasca da bagno. Gli gnocchetti della madre, del padre, della nonna e del nonno roteano sullo scarico.

La famiglia sveva siede bella pulita davanti allo schermo della televisione. La famiglia sveva aspetta bella pulita il telefilm del sabato sera.

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Pagina 17

La mia famiglia



Mia madre è una donna intabarrata.

Mia nonna è cieca in seguito a una cataratta. In un occhio ha la cataratta e nell'altro il glaucoma.

Mio nonno ha l'ernia scrotale.

Mio padre ha un altro figlio da un'altra donna. Non conosco l'altra donna e l'altro figlio. L'altro figlio è più grande di me, e la gente dice che per questo io sono di un altro uomo.

Mio padre a Natale fa dei regali all'altro figlio e dice a mia madre che l'altro figlio è di un altro uomo.

Il postino a Natale mi porta sempre cento lei in una busta e dice che li manda Babbo Natale. Mia madre però dice che io non sono di un altro uomo.

La gente dice che mia nonna ha sposato mio nonno per il suo campo e che ha amato un altro uomo e che avrebbe fatto meglio a sposare l'altro uomo, perché è parente stretta di mio nonno, così che si tratta di un assoluto incesto.

Altra gente dice che mia madre è di un altro uomo e che mio zio è di un altro uomo, non però dello stesso altro uomo, ma di un altro.

Per questo il nonno di un altro bambino è mio nonno, e la gente dice che mio nonno è il nonno di un altro bambino, non però dello stesso bambino ma di un altro, e che la mia bisnonna è morta molto presto per un debole raffreddore, ma che in realtà si trattava di qualcos'altro e non di morte naturale, e cioè fu un suicidio.

E altra gente dice che si trattava di qualcos'altro e non di malattia e di qualcos'altro e non di suicidio, e cioè fu un omicidio.

Il mio bisnonno, dopo la morte della moglie, ha sposato subito un'altra donna che aveva già un figlio da un altro uomo con il quale non era sposata, e però nello stesso tempo era anche sposata, e dopo quest'altro matrimonio con il mio bisnonno ha avuto ancora un altro figlio di cui la gente dice che anche questo è di un altro uomo, e non del mio bisnonno.

Il mio bisnonno, anno dopo anno, se ne andava ogni sabato in una piccola città termale.

La gente dice che in questa piccola città se la faceva con un'altra donna.

Lo si vedeva addirittura in pubblico con un altro bambino per mano, con cui parlava addirittura un'altra lingua.

Non lo si vedeva mai con quest'altra donna ma, così dice la gente, non poteva che trattarsi di una puttana delle terme, perché il mio bisnonno non si mostrava mai in pubblico con lei.

La gente dice che si deve disprezzare un uomo che fuori dal proprio paese ha un'altra donna e un altro bambino, e che questo non è affatto meglio di un incesto, che è ancora peggio dell'incesto più assoluto, ed è la vergogna più assoluta.

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Pagina 19

Bassure



I fiori lillà vicino alle staccionate, la calendula con il suo frutto verde tra i denti da latte dei bambini.

Il nonno che diceva, con la calendula si diventa scemi, non si deve mangiarla. E tu certo non vuoi diventare scema.

Il coleottero che mi strisciava nell'orecchio. Il nonno mi versava alcol nell'orecchio, così che il coleottero non strisciasse nella testa. Io piangevo. Sentivo un ronzio nella testa, e un gran caldo. Tutto il cortile girava su se stesso e il nonno se ne stava lì al centro, enorme, e girava anche lui.

Bisogna fare così, diceva il nonno, altrimenti il coleottero ti striscia nella testa, e diventi scema. E tu certo non vuoi diventare scema. I fiori di acacia nelle strade del paese. Il paese come sepolto dalla neve, con gli sciami di api nella valle. Io mangiavo fiori d'acacia. Dentro avevano una proboscide dolce. La morsicavo e la tenevo a lungo in bocca. Quando deglutivo, tra le labbra avevo già un altro fiore. C'erano moltissimi fiori in paese, non si potevano mangiare tutti.

I fiori di acacia non si devono mangiare, diceva il nonno, dentro ci sono piccole mosche nere, e se ti strisciano in gola diventi muto. E tu certo non vuoi diventare muta.

[...]


È ottobre, e in ottobre c'è la sagra.

Il figlio dei vicini ha sparato per me in un baraccone di tiro a segno.

Sui bersagli di latta erano disegnati una gallina, un gatto, una tigre, un nano e una ragazza. Il nano aveva la barba e sembrava un Babbo Natale.

L'uomo del tiro a segno aveva un solo braccio. Prese i soldi che io gli porgevo alzandomi sulla punta dei piedi. Caricò un fucile con la mano e con il ginocchio. Porse il fucile al mio cacciatore.

Il mio cacciatore lo imbracciò. Cosa devo colpire, chiese. Io osservai l'uno dopo l'altro i bersagli di latta.

La ragazza, dissi, spara alla ragazza.

Lui chiuse gli occhi con tanta forza che tutto il suo viso era concentrato in una sola dimensione, severo come quello di un cacciatore vero.

Premette il grilletto, e il bersaglio di latta si rovesciò. Ciondolò un po' qua e là, poi si arrestò. La ragazza stava appesa a testa in giù. Faceva la verticale.

Colpito, disse l'uomo del tiro a segno. Cercatevi qualcosa di bello.

Da una corda penzolavano occhiali da sole, collane, bambole con vestiti di gommapiuma rigidi e gonfi, e portafogli con immagini di donne nude sul lato esterno. Sul piano del bancone c'erano dei misirizzi e dei topi. Un topo sembrava particolarmente goffo. Me lo presi.

Era grigio scuro, aveva una testa quadrata, due straccetti per orecchie, una coda di cuoio e sotto il ventre un rocchetto con un lungo filo bianco. All'estremità del filo era fissato un anello di metallo lucido.

Misi il topo sul palmo liscio della mano e infilai la punta del dito nell'anello. Poi tolsi la mano.

Il topo ronzò al suolo e descrisse un arco molto ampio.

Lo osservai.

La sua corsa strepitava.

Dopo che si fu fermato, risi a brevi intervalli.

Poi riarrotolai il filo, misi di nuovo il topo sul palmo della mano e infilai la punta del dito nell'anello. Poi tirai via la mano.

Il topo ronzò al suolo e descrisse un arco molto ampio, la sua corsa strepitò di nuovo, e io di nuovo risi.

Risi fino a tarda sera, quando in paese si accesero le lampadine.

C'era la musica. Le coppie seguivano quello che guidava la danza. Lungo la strada i bambini saltellavano dietro al corteo. Nel turbinio della polvere non si vedevano. Io li sentivo schiamazzare. Agli angoli ballavano in cerchio, a lungo, e poi riprendevano a saltellare.

Tenevo in mano il mio topo e me ne andavo a casa lungo il marciapiede. Quella notte il topo restò vicino al mio letto, sul davanzale della finestra.

[...]


I ghiaccioli sono ramificati, hanno dentro di sé grandi specchi. In ogni ghiacciolo si vede un'immagine congelata – il paese.

Sediamo tutti intorno al tavolo. Ognuno mangia e pensa a qualcosa.

Quando mangio io penso a qualcos'altro. Non vedo con i loro occhi, non sento con le loro orecchie. Non ho neppure le loro mani.

La vicina sta davanti alla finestra. È stata sposata appena tre giorni. Un matrimonio di guerra durante un congedo di lui. Il marito ritornò subito al fronte. Poi venne la Russia con i suoi rigidi inverni, e da allora non si è avuto nessun segno di vita e nessuna notizia di morte. Ogni sera aspettavo che bussasse alla finestra, dice.

La voce è spenta per tanta ovvietà. Il suo viso è imperturbabile. Ha questi stessi occhi anche quando parla del tempo.

La mamma torna al tavolo. Ogni tanto morde il manico del cucchiaio.

La mamma non sa di sapere che tantissime cose non hanno senso. Il nonno a volte sa di non sapere cosa sa. Allora attraversa da solo la casa e il cortile e parla tra sé. Una volta, mentre tagliava le rape nella stalla, lo vidi, e lui non mi vide. Parlava a voce alta tra sé, sollevava le braccia senza deporre l'ascia. Tagliava l'aria intorno a sé, si alzava e camminava attorno al cesto di rape, e per un istante il suo viso sembrò giovane come non lo era più da molto tempo. Non sta a me ricordarlo, portarmelo dietro in qualche parola, non sta a me parlarne o tacerne. E allora smisi di pensare.

Il nonno si pizzica i folti baffi. Nella mano gli restano dei peli. Li osserva e poi li getta a terra, e non dimentica mai di calpestarli.

Da qualche notte il nonno dorme nella stalla tra la paglia. La mucca deve figliare. Sta col posteriore verso di lui e con un tonfo fa cadere nella paglia uno sterco di rapa verdastro e sottile che sprizza sui muri, resta appiccicato come le mosche alla parete di calce ed evapora nell'aria. In quest'aria calda la mucca si scorda di figliare.

Sul calendario cattolico appeso alla parete in cucina la data prevista è superata da tempo. Vicino a un numero cerchiato c'è scritto: mucca coperta. E accanto ad altri numeri c'è scritto: chioccia in cova, consegnato tabacco, comprati maiali.

Osservo il ventre gonfio della mucca e dubito che con quel ventre possa restare viva. Penso che dentro ci sia soltanto una grossa pietra.

Anche oggi non posso assistere al parto della mucca. Vedo sempre soltanto il vitello bell'e fatto sulla paglia, accanto a lei. È gracile e le sue zampe tremano. L'hanno cosparso di crusca, e la mucca lecca l'involucro viscido dal suo pelo.

L'astuzia di cospargere il vitello di crusca. So che anche questo è un inganno.

Anche la gatta mi mostra l'orecchio lacerato, e la neve è spruzzata di sangue.

La mia bambola per dormire se ne sta con la faccia sprofondata nel cuscino della sedia. La volto sulla schiena. Ha il naso spezzato. Indossa pesanti abiti invernali. Gli occhi sono guasti. Guardo dentro, sono un buco profondo con palline di plastica appese a una molla. Così sono gli occhi blu della mia bambola.

Fiori di ghiaccio tessono la loro tela intricata sulle finestre. Avverto un bel brivido sulla pelle. La mamma mi taglia le unghie così corte che le punte delle dita mi fanno male. Con le unghie appena tagliate sento che non posso camminare come si deve.

Io cammino continuamente sulle mani. Sento anche che con le unghie così corte non posso parlare come si deve e pensare come si deve.

Anche i fiori di ghiaccio divorano le loro foglie, e paiono occhi lattei e ciechi.

Sul tavolo fuma la pasta in brodo calda. La mamma dice: è pronto da mangiare, e se dopo il primo richiamo non ci sono, se non sono ben attaccata al bordo del tavolo, i segni della sua mano robusta si imprimono sulla mia guancia.

Il nonno si fa chiamare più volte. A volte penso che lo faccia per me. Mi piace quando non ascolta la mamma.

Si lava via la segatura dalle mani e si siede al suo posto a capotavola.

Nessuno dice più una sola parola. La mia gola è secca. Non posso chiedere l'acqua, perché a tavola non posso parlare.

Quando sarò grande cuocerò fiori di ghiaccio, parlerò a tavola e a ogni boccone berrò un po' d'acqua.

È un inverno senza neve.

Per un inverno intero le nuvole cariche di pioggia sono sospese sul paese, vanno avanti e indietro come slitte sulla neve, si stracciano e formano altre nuvole.

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Cronaca di paese



Al centro del paese c'è la chiesa.

I pioppi accanto alla chiesa formano un viale. Il viale è fatto di molti spazi vuoti e pochi alberi. Ogni anno i pioppi crescono cinque centimetri sulle punte dei rami più in alto e seccano per quindici centimetri sui rami più in basso. Le chiome sono verdi e ombrose in superficie, dentro invece sono secche e spoglie. Per tutto l'anno il legno secco si spezza e cade a terra.

Anni fa il professore di scienze naturali, durante le lezioni di scienze naturali, ha effettuato misurazioni sui pioppi. In seguito, quando le lezioni di scienze naturali vennero chiamate agraria, gli scolari in primavera seminavano insalata, in estate ravanelli e in autunno frumento vernino in una lunga e stretta aiuola, per studiare la coltura alternata.

Da quando in paese ci sono soltanto undici scolari e quattro insegnanti, che tutti insieme si chiamano la scuola elementare, l'insegnante di ginnastica insegna anche agraria. Da allora nelle ore di agraria ci si esercita nel salto in lungo in una fossa di sabbia sempre bagnata e si gioca alla palla dei popoli, d'estate con i palloni e d'inverno con le palle di neve. In questo gioco gli scolari si dividono in due popoli. Chi è colpito dalla palla deve ritirarsi dietro la linea di tiro e, siccome è morto, deve stare a guardare finché tutti gli altri del suo popolo sono stati uccisi e cioè, come si dice in paese, sono caduti. L'insegnante di ginnastica ha i suoi problemi a suddividere gli scolari. Perciò dopo ogni lezione si annota di quale popolo ha fatto parte ogni scolaro. Chi nella lezione precedente ha potuto essere un tedesco, in quella seguente dev'essere un russo, e chi nella lezione precedente è stato un russo può nella seguente essere un tedesco. Capita a volte che all'insegnante non riesca di convincere un numero sufficiente di scolari a essere russi. E allora siate tutti tedeschi e basta, dice l'insegnante quando non sa più che fare. Poiché tuttavia gli scolari in questo caso non capiscono per quale motivo dovrebbero ancora combattere, si dividono in sassoni e svevi.

D'estate gli scolari hanno anche dell'inchiostro rosso e, dopo che sono stati uccisi, si dipingono macchie rosse sulla pelle e sulle camicie.

L'insegnante di ginnastica, cioè il direttore della scuola che è anche insegnante di musica e di tedesco, alcuni giorni fa ha assunto anche il compito di insegnare la storia, perché questo gioco è adatto anche alle lezioni di storia.

Accanto alla scuola c'è l'asilo. I bambini cantano canzoni e recitano poesie. Nelle canzoni si parla di peregrinare e cacciare, nelle poesie si parla dell'amore per la mamma e per la patria. A volte la maestra d'asilo, che è ancora molto giovane e cioè un passerotto, come si dice in paese, e suona bene la fisarmonica, insegna ai bambini persino canzonette di successo in cui compaiono anche parole inglesi come darling e love. Accade a volte che i maschi mettano una mano sotto le gonne delle bambine o guardino attraverso la stretta fessura nella porta del gabinetto delle femmine, e la maestra d'asilo dice che è una vergogna. Siccome di tanto in tanto accade, anche nell'asilo si tengono assemblee dei genitori che in paese si chiamano colloqui con i genitori. Nelle assemblee la maestra d'asilo dà ai genitori indicazioni, che in paese si chiamano consigli, su come punire í propri bambini. La punizione più consigliata, che va bene per tutti i reati, è l'arresto domiciliare. Per una o due settimane i bambini, tornati a casa dall'asilo, non possono più uscire in strada.

Accanto all'asilo c'è la piazza del mercato. Sulla piazza del mercato anni fa venivano vendute e comprate pecore, capre, mucche e cavalli. Adesso una volta l'anno, in primavera, arrivano un paio di uomini intabarrati dai paesi vicini che portano sui carri casse di legno piene di porcellini. I porcellini sono venduti e comprati soltanto a coppie. I prezzi dipendono poco dal peso e molto dalla razza, e cioè, come si dice in paese, dalla qualità. I compratori portano con sé un vicino o qualcuno del parentado ed esaminano la corporatura dei porcellini, che in paese si chiama taglia: se hanno zampe, orecchie, setole lunghe o corte, musi lunghi o corti, se hanno code arricciate o diritte. I porcellini chiazzati di nero e quelli con gli occhi di diverso colore, che in paese si chiamano porcellini iellati, il venditore se li deve richiudere nella cassa di legno e riportare a casa, a meno che non intenda venderli a metà prezzo.

Oltre ai maiali la gente del paese alleva anche conigli, api e pollame. Il pollame e i conigli nei giornali si chiamano bestiame minuto, e quelli che allevano il pollame e i conigli sono detti allevatori di bestiame minuto.

La gente in paese, oltre ai maiali e al bestiame minuto, ha anche cani e gatti che non si riescono più a distinguere perché da decenni si incrociano tra loro. I gatti sono ancora più pericolosi dei cani, si incrociano e cioè, come si dice in paese, si accoppiano, anche con i conigli.

Il vecchio del paese, che è sopravvissuto a due guerre mondiali e ad altre cose ancora e ad altra gente, aveva un grosso gatto fulvo. La sua coniglia per tre volte di seguito ha messo al mondo, il che in paese si dice sgravarsi, dei piccoli a chiazze fulve e grigie che miagolavano e che il vecchio del paese ogni volta affogava. Alla terza volta il vecchio del paese ha impiccato il suo gatto. Da allora la coniglia ha messo al mondo per due volte dei piccoli tigrati, e dopo la seconda volta il vicino ha impiccato il suo gatto tigrato. L'ultima volta la coniglia aveva accanto a sé dei piccoli dal pelo lungo e crespo, perché un gatto della strada vicina o del paese vicino, che è un incrocio tra un cane e un gatto di paese, ha il pelo così. Siccome il vecchio del paese a quel punto non sapeva che pesci pigliare, ha ammazzato la coniglia e l'ha seppellita perché non voleva mangiarne la carne, visto che da anni aveva avuto nel ventre soltanto gatti. In Italia, tutto il paese lo sa, quando era prigioniero di guerra il vecchio del paese ha mangiato carne di gatto. Questo però, sostiene, non significa affatto che lui debba sopportare il comportamento osceno della sua coniglia, perché un villaggio svevo graziaddio non si trova in Italia, sottolinea, sebbene a volte abbia l'impressione che potrebbe trovarsi anche in Sardegna. Questa impressione la gente del paese la attribuisce però alla sua arteriosclerosi, e dice che il vecchio ha già il cervello andato.

Accanto alla piazza del mercato c'è il Consiglio del popolo, che in paese si chiama Casa comunale. Il palazzo del Consiglio del popolo è una combinazione tra una casa colonica e una chiesa di paese. Di una casa colonica ha la veranda aperta, circondata da un parapetto sostenuto da pali, le finestrelle in penombra, le serrande marroni, i muri pitturati di rosa e lo zoccolo pitturato di verde. Di una chiesa di paese ha i quattro scalini all'entrata, la volta sulla porta, la doppia porta di legno cieca con la grata, il silenzio nelle stanze e i gufi e i pipistrelli nel sottotetto, che in paese si chiamano parassiti.

Il sindaco, che in paese si chiama giudice, tiene le sue riunioni nella Casa comunale. Tra i presenti ci sono i fumatori, che fumano assenti, i non fumatori che non fumano e dormono, gli etilisti che in paese si chiamano ubriaconi e che tengono le bottiglie sotto le sedie, nonché i non etilisti e non fumatori che sono deboli di mente e cioè, come si dice in paese, gente per bene, e fanno finta di ascoltare anche se pensano a tutt'altro, sempre ammesso che riescano a pensare.

Anche i forestieri che vengono in paese cercano il Consiglio del popolo perché, se la cosa si fa impellente, vanno nel cortile interno e pisciano o, come si dice in paese, versano. Il gabinetto che si trova nel cortile interno del Consiglio del popolo è un gabinetto pubblico, dal momento che non possiede né una porta né un tetto. Nonostante le molte somiglianze tra il Consiglio del popolo e la chiesa non è ancora mai successo che un forestiero sia andato in chiesa invece che al Consiglio del popolo, perché in effetti la chiesa si riconosce dalla sua croce e il Consiglio del popolo dalla sua bacheca commemorativa, che in paese si chiama teca. Nella teca sono appesi giornali che, quando ormai sono completamente ingialliti e illeggibili, vengono sostituiti da altri.

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L'opinione



C'era una volta un ranocchio che aveva occhi particolarmente grossi e bagnati. Il ranocchio lavorava in una fabbrica. Era ingegnere. Non era benvoluto nella fabbrica, né dai capi né dagli operai. Il ranocchio aveva sempre e ovunque un'opinione. E il peggio di questa opinione era che si trattava di un'opinione propria, la quale era sempre diversa dall'opinione degli altri che era semplicemente un'opinione, che era l'opinione dell'ingegnere capo, che a sua volta era l'opinione del direttore, che a sua volta era l'opinione del direttore generale, che a sua volta era l'opinione del ministro.

E allora il ministro disse al direttore generale, e allora il direttore generale disse al direttore, e allora il direttore disse all'ingegnere capo, e allora l'ingegnere capo disse agli ingegneri, e allora gli ingegneri dissero agli operai un'opinione, e cioè l'opinione che era l'opinione giusta. E allora l'opinione giusta disse che un'opinione sbagliata è il peggio che c'è, che un'opinione sbagliata è molto peggio di nessuna opinione, che un'opinione sbagliata non può essere paragonata a nessuna opinione perché nessuna opinione è comunque un'opinione, e addirittura l'opinione dei molti, e addirittura l'opinione giusta.

Allora il direttore chiamò a sé il ranocchio. Allora il direttore offrì al ranocchio una lunga sigaretta. Allora il direttore sorrise. Allora il direttore offrì al ranocchio un bicchierino di whisky. Allora il direttore si rivolse al ranocchio chiamandolo caro collega. Allora il direttore sorrise. Allora il direttore chiese al ranocchio cos'era quella storia dell'opinione. Allora il ranocchio sorrise. Allora il ranocchio disse che la sua opinione era pur sempre la sua opinione. Allora il direttore ribadì che dunque l'opinione del ranocchio era pur sempre la sua propria opinione. Allora il direttore mise la bottiglia di whisky nel cassetto della scrivania. Allora il direttore strinse le labbra finché non divennero un sottile tratto. Allora il direttore si rivolse al ranocchio chiamandolo compagno. Allora il direttore disse che quand'era così la cosa non era più così, che quand'era così la cosa non era più tanto semplice, che quand'era così era molto più complicata. Allora il direttore fumò una lunga sigaretta. Allora il direttore sollevò le sopracciglia. Allora il direttore disse che sapeva che il compagno aveva letto molti libri, ma il compagno non sapeva che nella vita non era come nei libri, che nella vita e nella prassi le cose purtroppo erano sempre diverse. Allora il ranocchio scrollò le spalle. Allora il direttore lanciò uno sguardo di malocchio. Allora il direttore disse che in realtà ogni opinione di cui ci si è appropriati è un'opinione propria. Allora il direttore disse che tutto stava nell'appropriarsi correttamente di un'opinione per avere un'opinione propria. Allora il direttore disse che in realtà ogni opinione propria è sostenibile, se la si tiene per sé. Allora il ranocchio scosse il capo. Allora il ranocchio ritrasse le mani dal tavolo. Allora il ranocchio disse che un'opinione non è un'opinione se non è detta. Allora il direttore puntò i gomiti sul tavolo. Allora il direttore disse che il tutto era sbagliatissimo, ma se tuttavia era così, se cionondimeno era così, doveva rinunciare al compagno, sebbene sapesse che il compagno era un valente tecnico. Allora il direttore offrì al compagno un posto all'osservatorio meteorologico.

Da quel momento il ranocchio fu una raganella barometro. Allora il ranocchio raganella passava giornate intere seduto sulle nuvole che scorrevano sopra la città. Allora il ranocchio ascoltava sulle nuvole le previsioni atmosferiche alla radio. Allora il ranocchio stava in mezzo alla pioggia ed era tutto zuppo e bagnato, e sentiva dire alla radio che oggi il tempo era bello e che domani sarebbe stato mite.

Allora il ranocchio disse che le previsioni del tempo erano una menzogna. Allora le altre raganelle scrollarono le spalle e guardarono mute giù verso la città.

Allora il direttore dell'osservatorio meteorologico chiamò a sé il ranocchio. Allora il direttore dell'osservatorio meteorologico disse al ranocchio che il tempo non era una cosa tanto semplice, che il tempo non era solamente il tempo. Allora il ranocchio disse che la faccenda del tempo era una menzogna. Allora il direttore disse che alla fin fine il ranocchio non era un tecnico.

Allora il direttore dell'osservatorio meteorologico spedì il ranocchio su una nuvola tutta bianca che si librava ai margini della città.

Allora il ranocchio si ritrovò da solo sulla nuvola bianca. Allora si sollevò una foschia bianca e inghiottì le scarpe del ranocchio. Allora il ranocchio guardò giù verso la città. Allora l'intera nuvola bianca si sollevò e inghiottì tutto intero il ranocchio.

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Il signor Wultschmann



Il signor Wultschmann ha un naso che sembra un piccone. Quando al mattino si risveglia senza sveglia e comunque alla stessa ora ogni mattino – un uomo che è un uomo ha la puntualità nel sangue, dice il signor Wultschmann – immediatamente si afferra il naso. Quando gli chiedono qual è la sua età, il signor Wultschmann dice nel fiore degli anni. Da molti anni il signor Wultschmann dice nel fiore degli anni, o che si ha l'età che ci si sente dentro, o comunque più giovane della strada provinciale. E ogni volta che il signor Wultschmann parla della sua età fa vedere il muscolo sul braccio destro. Il signor Wultschmann gonfia talmente il muscolo che le arterie sulla fronte e sul collo diventano grosse e turgide. Ogni volta che il signor Wultschmann parla della sua età rimpiange che il tempo non valga più tanto da poterci sprecare il proprio tempo. Temporaneamente il tempo si squaglia, dice il signor Wultschmann. Il tempo è marcio. Non succede nulla che possa tenere la gente col fiato sospeso. La gente non vive nel tempo, perché il tempo non è più il suo tempo. Sta al tempo che i tempi si decidano a cambiare, dice il signor Wultschmann. È proprio tempo.

Il signor Wultschmann ricorda il tempo della Seconda guerra mondiale. Quelli sì erano ancora tempi, dice il signor Wultschmann. Allora ogni uomo viveva ancora la sua vita. Allora ognuno viveva appieno la sua vita, se non moriva. Allora ognuno metteva in gioco la sua vita. Nessuno viveva allora alla giornata, dice il signor Wultschmann. Molti erano troppo stupidi per sopravvivere, non avevano capito quanto fossero movimentati i tempi in cui vivevano. Non si sono mossi con il tempo. Non erano elastici, dice il signor Wultschmann. Non avevano capito che tutto quel che si fa in un simile tempo lo si fa fino all'ultimo sangue, e tutto quel che non si fa, non lo si fa fino all'ultimo sangue. Io, innanzitutto io, e poi ancora io, e poi per lungo spazio niente, e poi alla fine gli altri. Non guardare a sinistra né a destra, ma sempre con decisione e avanti. E sparare, sparare tre volte prima che ti sparino, dice il signor Wultschmann. E niente cameratismi, altrimenti bisogna aiutare gli altri anziché se stessi. E niente donne, altrimenti approfittano di te, e sei distratto dalla tua persona. Nessun sentimento per gli esseri umani. Tutti i sentimenti per le cause, per una causa, dice il signor Wultschmann. Una causa è sempre una causa. Una causa non è mai un essere umano e non può farti niente, dice il signor Wultschmann. E stare sempre con la causa giusta al momento giusto.

Io non ho mai avuto un debole per le donne, dice il signor Wultschmann. Le donne non hanno nessun posto nella guerra. Non capiscono niente del corso del tempo, dell'essenza della storia. I loro sentimenti sono rivolti sempre a una persona, mai a una causa. Le donne, dice il signor Wultschmann, mettono in pericolo gli uomini, in pericolo di vita. Guastano íl carattere virile e la morale di un uomo. Gli uomini devono picchiarle, se vogliono continuare a essere degli uomini. Le parole decisive nella storia sono sempre stati gli uomini a pronunciarle. E anche oggi è così. Quello che ci manca è la disciplina dice il signor Wultschmann. Ai bei tempi c'era la pena di morte. Se tutto è lasciato alla morte naturale, la gente non ha rispetto per le leggi. Un tempo, per tutte le cose importanti c'era una legge importante. Adesso le cose più importanti hanno perso importanza. Adesso per le cose senza importanza ci sono leggi importanti e per le cose importanti leggi senza importanza. Non c'è più regola al mondo. Manca una natura di Führer, dice il signor Wultschmann. Lo si nota dappertutto, lo si nota persino nel nostro piccolo villaggio, dice il signor Wultschmann.

Da molti anni il signor Wultschmann gioca al teatro delle marionette. Il teatro delle marionette, come ogni cosa che ha avuto un valore nella mia vita, me l'ha insegnato la guerra, dice il signor Wultschmann. Il signor Wultschmann si raddrizza come un fuso, solleva la mano per fare il saluto, dice Heil e stringe gli occhi fino a ridurli a una fessura. Attraverso la fessura viaggia la macchina del nemico. Il signor Wultschmann si rappresenta la macchina del nemico che esplode e i soldati che giacciono dilacerati nel sangue. Per un po' il signor Wultschmann resta impietrito dall'orgoglio. Il suo petto si apre e si chiude come un mantice. Il signor Wultschmann non sa se il tutto sia accaduto prima, durante o dopo la sua rappresentazione. Si raddrizza come un fuso nella strada di una città assediata, davanti a una casa, solleva la mano per fare il saluto, dice Heil, stringe gli occhi fino a ridurli a una fessura e si rappresenta che la casa esploda. E la casa esplode. Teatro delle marionette, grida il signor Wultschmann e trema di gioia. Abbiamo perso la guerra perché i soldati tedeschi non sapevano giocare al teatro delle marionette, dice il signor Wultschmann.

Così, fino all'ultimo sangue e alla morte sono sopravvissuto alla morte, dice il signor Wultschmann. Mi sono imposto davanti al nemico. Io mi impongo in ogni situazione della vita. Questo, come tutto quello che ha un valore nella mia vita, me l'ha insegnato la guerra, dice il signor Wultschmann.

La guerra è la scuola della vita, dice il signor Wultschmann. Il signor Wultschmann riflette molto.

Il signor Wultschmann ha sempre ragione. Il signor Wultschmann afferma qualcosa finché non ha ragione. Dopo ogni discorso ha tanto più ragione quanto più è durato il discorso. Ci rifletta bene e vedrà che ho ragione, dice il signor Wultschmann. Come può vedere anche stavolta ho ragione, dice il signor Wultschmann.

Ma che candore! Lei è ancora un pulcino, dice il signor Wultschmann. Ma cosa crede! Lei non sa niente. Non ha vissuto ancora niente. Lei vive i libri che ha letto. Lei non ha esperienza della vita. È difficile quando non si vive da molto, quando si vive in tempi in cui non succede niente, dice il signor Wultschmann.

Lei è una persona debole, dice il signor Wultschmann. Non è abituata a sentirsi dire tutto in faccia. E ciò nonostante siamo buoni amici, Lei e io. Lei è una persona debole. Ma devono esserci anche persone deboli, dice il signor Wultschmann. In realtà le persone deboli se la passano bene. Lei non sa neppure quanto è debole. Lei non deve imporsi davanti al nemico, perché Lei è debole, dice il signor Wultschmann.

Maledizione, Lei non deve far nulla, grida il signor Wultschmann.

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