Copertina
Autore Alice Munro
Titolo Il percorso dell'amore
EdizioneEinaudi, Torino, 2005 [1989], Supercoralli , pag. 332, cop.ril.sov., dim. 140x222x24 mm , Isbn 978-88-06-17597-9
OriginaleThe Progress of Love [1985]
TraduttoreSusanna Basso, Silvia Pareschi
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa canadese
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Indice


  3 Il percorso dell'amore
 33 Lichene
 59 Monsieur les Deux Chapeaux
 89 Miles City, Montana
113 Raptus
141 La luna nella pista di pattinaggio
174 Jesse e Meribeth
202 Esquimese
222 Una vena di follia
271 La Catena di Preghiera
293 Mucchio Bianco


 

 

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Pagina 3

Il percorso dell'amore


Ricevetti una telefonata in ufficio; era mio padre. Accadde non molto dopo il mio divorzio, quando da poco lavoravo all'agenzia immobiliare. I ragazzi erano tutti e due a scuola. Era una giornata piuttosto calda, di settembre.

Mio padre era talmente cortese, anche in famiglia. Ebbe cura di domandarmi come stavo. Maniere contadine. Se ti telefonano per dirti che hai la casa in fiamme, prima ti chiedono come stai.

- Bene, - dissi. - E tu?

- Non tanto, direi, - rispose mio padre con il tono di sempre, riservato e dignitoso. - La mamma se ne è andata, credo.

Sapevo che «andata» voleva dire «morta». Lo sapevo. Ma per un paio di secondi vidi mia madre con il suo cappellino di paglia nera avviarsi sul viottolo di casa. La parola «andata» traboccava solo di sollievo e perfino di euforia, quell'euforia che proviamo quando la porta si chiude e casa nostra risprofonda nella normalità e possiamo prendere libero possesso di tutto lo spazio vuoto intorno a noi. Lo diceva anche la voce di mio padre, un suono strano, una specie di sospiro trattenuto, mascherato dal tono di scuse. Eppure mia madre non era stata di peso - mai malata, neanche un giorno - perciò, ben lungi dal provare sollievo alla sua morte, per mio padre era stato un duro colpo. Diceva di non essersi mai abituato a vivere da solo. Aveva accettato di ritirarsi nella casa di riposo Netterfield abbastanza di buon grado.

Mi disse di aver trovato mia madre sul divano in cucina, tornando a casa a mezzogiorno. Aveva raccolto dei pomodori e li stava mettendo a maturare sul davanzale della finestra; probabilmente si era sentita cedere le gambe e si era coricata. Ora, mentre lo raccontava, a mio padre mancò un po' la voce per lo sbigottimento, come c'era da aspettarsi. Mentalmente, immaginai il divano, la vecchia trapunta che lo foderava, proprio sotto il telefono.

- Allora ho pensato che facevo meglio a chiamarti, - disse mio padre, e aspettò che fossi io a dirgli che cosa fare a quel punto.

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Pagina 52

Lo condusse lungo i corridoi dalle pareti verdi, con falsi controsoffitti bassi (per ridurre le spese di riscaldamento), i quadri dipinti in serie, l'immancabile odore di disinfettante - e d'altro. Nella veranda sul retro, solo, sedeva suo padre, avvolto in varie coperte e legato alla sedia a rotelle perché non cadesse.

Il vecchio disse: - David?

Il suono pareva provenire da una grotta umida sprofondata negli abissi del suo corpo, anziché articolato da labbra, lingua e mandibole. Infatti, non le si vedeva muovere. Anche la testa era ferma.

Stella si mise dietro la sedia e gli cinse il collo. Lo sfiorava con grande delicatezza.

- Sí, è David, papà, - disse. - L'hai riconosciuto dal passo?

Il padre non diede risposta. David si chinò per toccare le mani del vecchio che non erano fredde come si aspettava, ma tiepide e asciutte. Vi depose sopra la bottiglia di whiskey.

- Attento. Non riesce a reggerla, - lo avvisò Stella sottovoce. David tenne le proprie mani sulla bottiglia, mentre Stella gli avvicinava una sedia, di modo che potesse accomodarsi di fronte a suo padre.

- Il solito regalo di tutti gli anni, - disse David.

Il padre emise un mugugno di assenso.

- Vado a prendere dei bicchieri, - disse Stella. - Bere all'aperto è contro il regolamento, ma di solito riesco a convincerle a chiudere un occhio. Dirò che stiamo festeggiando.

Per abituarsi alla vista del suocero, David si sforzava di considerarlo uno sviluppo post-umano, una novità della specie. La longevità non l'aveva solo conservato in vita, l'aveva trasformato. La pelle era grigio-bluastra, a chiazze blu scuro, gli occhi velati di bianco, il collo solcato da delicate cavità, come un vaso di vetro fumé. Dalle profondità di quel collo vennero altri suoni, un tributo alla conversazione. L'offerta si riduceva all'essenza di ciascuna sillaba: fradice vocali tenute insieme a stento dalle consonanti attigue.

- Tanto... traffico?

David descrisse le condizioni della viabilità sull'autostrada e sulle statali. Raccontò al suocero di avere da poco cambiato la macchina, e di averne presa una giapponese. In un primo tempo, gli disse, il consumo di benzina era ben lontano da quello pubblicizzato. Lui però aveva sporto reclamo, deciso a non cedere, e aveva riportato l'auto al concessionario. Dopo vari tentativi di intervento, la situazione era migliorata parecchio e al momento i consumi erano soddisfacenti, sebbene non coincidessero ancora con quelli promessi.

Questa conversazione parve gradita. Il suocero sembrava seguirla. Annuiva, e sulla sua faccia oblunga, bluastra e post-umana comparvero tracce di antiche espressioni. Il segno di un'acuta attenzione composta, il sospetto nei riguardi della pubblicità, delle vetture straniere e dei rivenditori d'auto. Si insinuò perfino il vago accenno del dubbio - come ai vecchi tempi - che David non sapesse cavarsela a gestire questioni del genere. E subito dopo il sollievo nel constatare che ci era riuscito. Agli occhi del suocero, David non avrebbe mai cessato di essere qualcuno che sta imparando a diventare un uomo, e che potrebbe non farcela mai, non raggiungere mai la fermezza e il controllo necessari, la conveniente delimitazione dell'ambito di manovra. David, che preferiva il gin al whiskey, leggeva romanzi, non capiva niente di mercato azionario, chiacchierava con le donne, e aveva cominciato la propria carriera come insegnante. David, che aveva sempre guidato utilitarie, e per giunta straniere. Ma ormai questo particolare problema era superato. Le auto di piccola cilindrata non significavano piú niente di ciò che indicavano un tempo. Perfino quassú, sul lago Huron, alle estreme propaggini della vita, certi cambiamenti erano stati registrati, certe trasformazioni assimilate anche da un uomo ormai incapace sia di vedere sia di stringere con forza il pugno.

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Pagina 89

Miles City, Montana


Mio padre avanzava nel campo portando in braccio il corpo del bambino annegato. Erano in tanti, tornavano insieme dalle ricerche, ma il corpo lo teneva lui. Gli uomini erano esausti e infangati e marciavano a testa bassa, come per la vergogna. Avviliti perfino i cani, grondanti acqua fredda di fiume. Alla partenza, ore prima, guaivano irrequieti accanto ai padroni, tesi e decisi, e su tutta la scena aleggiava un ineffabile senso di attesa. Si sapeva che avrebbero potuto scoprire qualcosa di orribile.

Il bambino si chiamava Steve Gauley. Aveva otto anni. Capelli e vestiti erano color fango adesso, sparsi di foglie morte, erba, ramoscelli. Pareva un mucchio di spazzatura lasciato fuori tutto l'inverno. Aveva la faccia contro il petto di mio padre, ma riuscivo a vedergli una narice, un orecchio, intasati di fango verdastro.

Non credo. Non credo di aver visto davvero tutto questo. Posso aver visto mio padre col bambino in collo, e gli altri uomini insieme a lui, e i cani, ma non mi avrebbero permesso di avvicinarmi tanto da poter scorgere dettagli come del fango in una narice. Devo aver sentito qualcuno che ne parlava immaginando poi di averlo visto. La sua faccia la rivedo com'era, a parte il fango - la faccia appuntita e spiona del solito Steve Gaulev -, e non poteva essere cosí invece; doveva essere gonfia e alterata e forse tutta coperta di terriccio, dopo tante ore nell'acqua.

Dover ritornare con quella notizia, con quella prova materiale da una famiglia in attesa, specie una madre, già avrebbe reso pesanti i passi dei cercatori, ma qui la faccenda era anche piú brutta. Sembrava (a sentire la gente) ancora piú ingiusto che non ci fosse una madre, una donna qualunque - una nonna, una zia, al limite una sorella - a ricevere Steve Gauley e a offrirgli lo strazio che gli spettava. Suo padre faceva il bracciante; era un bevitore ma non un ubriacone, un eccentrico ma non una sagoma, un tipo scontroso ma non proprio un attaccabrighe. Padre doveva esserlo diventato per caso, e altrettanto accidentale pareva il fatto che il bambino fosse stato lasciato a lui alla partenza della madre, e che ancora vivessero insieme. Abitavano in una specie di baita grigiastra dal tetto spiovente, poco meglio di una baracca - il padre ogni tanto aggiustava il tetto e puntellava la chiambrana, giusto perché non crollasse e sempre in extremis - e la loro vita subiva la stessa sorte, vale a dire che funzionava appena il necessario per tenere a bada gli assistenti sociali. Non consumavano i pasti insieme e nessuno dei due cucinava per l'altro, ma da mangiare ce n'era. Certe volte il padre di Steve gli dava dei soldi per fare la spesa al negozio, e la gente lo vedeva comprare provviste sensate, tipo preparato in scatola per frittelle o pasta precotta.

Steve Gauley lo conoscevo bene. Erano piú le volte che non mi piaceva, però. Aveva due anni piú di me. Il sabato ciondolava dalle parti di casa nostra disprezzando tutti i miei giochi senza per questo decidersi a levarsi di torno. Se facevo tanto di montare in altalena, subito ci voleva salire anche lui e se non scendevo, si metteva a spingermi per farmi andare storta. Tormentava il cane. Mi cacciava nei guai - con deliberata malevolenza mi parve in seguito - sfidandomi a compiere imprese che da sola non mi sarei mai sognata di tentare, tipo cavare dalla terra le patate per vedere quanto eran grosse quando ancora non superavano il diametro di una biglia, oppure spostare la catasta di legna per farne una pila da cui si potesse saltare. A scuola, non ci rivolgevamo mai la parola. Lui se ne stava per conto suo, pur senza avere l'aria afflitta. Ma il sabato mattina, quando vedevo la sua figuretta sottile e impettita scavalcare la staccionata di legno, sapevo già che mi aspettava qualcosa, e che a decidere cosa sarebbe stato lui. Certe volte non era male. Fingevamo di essere cowboy e di dover domare dei cavalli bradi. Giocavamo nel pascolo vicino al fiume, poco lontano dal luogo in cui poi Steve annegò. Eravamo cavalli e anche cavalieri, fra strilli e nitriti, sgroppate e colpi di fruste fatte coi rami degli alberi che crescevano lungo un rio senza nome, quello che va a gettarsi dentro il Saugeen nel sud dell'Ontario.

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Pagina 179

A metà del terzo anno di liceo, zia Ena mi trovò un impiego. Avrei lavorato per i Cryderman, due giorni alla settimana, dopo la scuola. Zia Ena conosceva i Cryderman perché era la loro donna delle pulizie. Io dovevo stirare e rimettere in ordine, e preparare le verdure per il pranzo.

- Da loro si chiama colazione, - disse zia Ena, in tono cosí piatto che era impossibile dire se censurasse i Cryderman per la loro affettazione, se gliene concedesse il diritto in virtú di una riconosciuta superiorità, o se volesse semplicemente sottolineare che ogni parola o gesto dei Cryderman era assolutamente al di là della sua comprensione, e avrebbe dovuto essere anche al di là della mia.

Zia Ena era la zia di mio padre, figurarsi quant'era vecchia. In paese era la donna delle pulizie, un po' come un medico poteva essere il Medico o un maestro di musica il Maestro di Musica. Era rispettata. Non accettava avanzi, per quanto succulenti, e non portava a casa abiti smessi, nemmeno se erano in ottime condizioni. Molte delle donne per cui lavorava si sentivano tenute a fare qualche rapida pulizia prima del suo arrivo, e a portare le bottiglie di liquore vuote nel bidone della spazzatura. Ma a zia Ena non la si faceva.

Zia Ena, sua figlia Floris e suo figlio George vivevano in una casa piccola e ordinata, in una via ripida dove le case erano attaccate l'una all'altra e sorgevano cosí vicine alla strada che dal marciapiede si poteva quasi toccare la ringhiera della veranda. La mia stanza era dietro la cucina - un'ex dispensa con le pareti in perlinato verde chiaro. Quando ero a letto cercavo di contare le assi del rivestimento, ma dovevo sempre rinunciare. Nelle mattine d'inverno portavo tutti gli indumenti a letto e mi vestivo sotto le coperte. Non era previsto il riscaldamento, in una dispensa.

Zia Ena tornava a casa esausta dopo aver esercitato la sua autorità su tutto il paese. Ma poi si scuoteva e la esercitava anche su di noi. Ci spiegava - a me, Floris e George - che eravamo superiori agli altri nonostante la relativa povertà, o forse proprio a causa di essa. Ci spiegava che bisognava confermare quella superiorità giorno dopo giorno, lucidandosi le scarpe, riattaccandosi i bottoni, evitando di dire parolacce, astenendosi dal fumo (le donne), prendendo voti alti (io) e tenendosi lontani dall'alcol (tutti). Oggi nessuno difenderebbe la ristrettezza di vedute, l'altezzosa prudenza e il vieto perbenismo di zia Ena. Non li difendo neppure io, ma allora non mi provocavano una grande sofferenza. Imparai a eludere alcune regole, mi adeguai ad altre, e in genere accettai il fatto che una superiorità basata su concetti cosí severi era meglio di niente. E poi non avevo intenzione di continuare a vivere lí, come George e Floris.

Floris era stata sposata per un breve periodo, ma da ciò non sembrava aver ricavato alcun senso d'importanza. Lavorava al negozio di scarpe e andava alle prove del coro ed era fanatica di puzzle, di quelli che occupano un intero tavolino da gioco. Nonostante le mie insistenze, non volle mai raccontarmi nei dettagli la sua storia d'amore, il suo matrimonio o la morte del giovane marito per setticemia - una storia che avrei usato volentieri per controbilanciare quella tragica e vera di MaryBeth riguardo alla morte di sua madre. Floris aveva grandi occhi grigio-azzurri, cosí distanti che sembravano quasi guardare in direzioni diverse. In quegli occhi c'era un'espressione estraniata e inerme.

George non era andato oltre la quarta elementare. Lavorava alla fabbrica di pianoforti, dove rispondeva al nome di Tonto senza mostrare risentimento o imbarazzo. Era cosí timido e silenzioso che accanto a lui Floris, con la sua stanca irritabilità, sembrava piena di energia. Ritagliava fotografie dalle riviste e le appendeva nella sua stanza - non foto di belle ragazze semivestite, ma semplicemente di cose che gli piacevano: un aereo, una torta al cioccolato, o Elsie, la mucca della Borden. Sapeva giocare a dama cinese, e ogni tanto mi proponeva una partita. Di solito rispondevo di non avere tempo.

Quando invitai a cena MaryBeth, zia Ena criticò il rumore che facevano i braccialetti a tavola e si meravigliò che a una ragazzina di quell'età fosse permesso depilarsi le sopracciglia. Disse anche - in presenza di George - che la mia amica non sembrava dotata di un grande cervello. Non mi stupii. Io e MaryBeth ci aspettavamo solo contatti artificiosi, avvilenti e formali con il mondo degli adulti.

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Pagina 222

Una vena di follia


1. Lettere anonime.

La madre di Violet - zia Ivie - aveva avuto tre bambini, tre maschietti, e li aveva persi. Poi ebbe le tre bambine. Forse per consolarsi della sventura che aveva subito, in un angolo remoto del distretto di South Sherbrooke - o forse per rimediare anzitempo alla mancanza di istinto materno - diede alle bambine i nomi piú bizzarri che le vennero in mente: Opal Violet, Dawn Rose e Bonnie Hope. Poteva darsi che considerasse quei nomi nient'altro che ornamenti temporanei. Violet si chiedeva: sua madre aveva mai pensato che sessanta o settant'anni dopo le sue figlie, ormai pesanti e avvizzite, avrebbero dovuto ancora trascinarseli dietro? Forse credeva che anche loro sarebbero morte di lí a poco.

«Perso» voleva dire morto. «Li aveva persi» voleva dire che erano morti. Violet lo sapeva. E tuttavia fantasticava. Zia Ivie - sua madre - vagava fino a un campo paludoso, che era il terreno incolto sul lato opposto del granaio, un luogo crepuscolare pieno di erba ruvida e macchie di ontano. Lí zia Ivie, immersa nella luce tetra, smarriva i suoi piccoli. Violet scivolava lungo il margine dell'aia fino al terreno incolto, poi vi entrava guardinga. Si nascondeva dietro l'ontano rosso e altri cespugli spinosi senza nome (sembrava che tutto questo accadesse sempre in un periodo dell'anno umido e desolato - autunno inoltrato o inizio primavera), e lasciava che l'acqua fredda le coprisse la punta degli stivali di gomma. Meditava di perdersi. Bambini persi. L'acqua sgorgava a fiotti tra i ciuffi d'erba dura. Piú in là c'erano pozze e doline. Era stata avvertita. Si trascinava avanti, guardando l'acqua salire lentamente lungo gli stivali. Non lo diceva mai. Non sapevano mai dove fosse andata. Persa.

Il salotto era l'altro posto in cui poteva sgattaiolare da sola. Le persiane erano sempre abbassate fino al davanzale; l'aria aveva peso e spessore, come se fosse tagliata in un blocco che riempiva esattamente la stanza. In alcuni punti precisi si trovavano la conchiglia vuota e acuminata con il rombo del mare intrappolato all'interno; la statuetta dello scozzese in kilt con in mano un bicchiere di liquido ambrato che s'inclinava ma non si rovesciava mai; un ventaglio fatto interamente di lucide piume nere; un piatto, souvenir delle cascate del Niagara, con sopra un'immagine identica a quella della confezione di Shredded Wheat. E alla parete un quadro incorniciato, che provocava a Violet un tale turbamento da non riuscire a guardarlo appena entrata nella stanza. Doveva avvicinarcisi piano piano, tenendolo sempre in un angolo del campo visivo. Il quadro ritraeva un re con la corona e tre donne alte, di aspetto regale, in abito scuro. Il re era addormentato, o morto. Si trovavano in riva al mare, davanti a una barca in attesa, e da quel quadro scaturiva qualcosa che si diffondeva nella stanza - una liscia, scura ondata di dolorosa e insopportabile dolcezza. Quell'immagine le sembrava una promessa; era collegata con il suo futuro, con la sua vita, in un modo che non riusciva a spiegare o raffigurarsi. Non riusciva nemmeno a guardarla, se c'era qualcun altro nella stanza. Ma in quella stanza c'era raramente qualcun altro.


Il padre di Violet si chiamava King Billy, King Billy Thoms, anche se il suo nome non comprendeva alcun William da cui abbreviare. C'era anche un cavallo di nome King Billy, il ronzino pomellato che, attaccato alla slitta in inverno e al calesse in estate, fungeva da traino. (In quel luogo non sarebbe arrivata un'auto fino agli anni Trenta, quando Violet, ormai adulta, ne acquistò una).

Il nome King Billy veniva solitamente associato alla parata del dodici luglio, l'Orange Walk. Un uomo scelto per impersonare King Billy, con indosso una corona di cartone e un lacero mantello color porpora, cavalcava in testa al corteo. Il cavallo avrebbe dovuto essere bianco, ma a volte un grigio pomellato era quanto di meglio si riuscisse a trovare. Violet non scopri mai se il cavallo, o suo padre, o entrambi, avessero partecipato qualche volta alla parata, insieme o separatamente. Il mondo che lei conosceva era pieno di confusione, e il piú delle volte gli adulti non volevano sentir parlare di rimetterlo a posto.

Ma una cosa la sapeva di sicuro, ed era che suo padre, a un certo punto della vita, aveva lavorato su un treno che attraversava le zone selvagge del Nord, dove vivevano gli orsi. I taglialegna prendevano quel treno nei fine settimana per uscire dalle foreste e andare a ubriacarsi, e se sulla via del ritorno diventavano troppo turbolenti, King Billy fermava il treno e li sbatteva giú a calci. Non importava dove si trovassero in quel momento. In mezzo a una regione selvaggia? Poco male. King Billy li sbatteva giú a calci. Era un lottatore. Aveva ottenuto quel lavoro perché era un lottatore.

Un'altra storia, da un periodo ancora piú lontano del passato. Una volta, quando era ragazzo, King Billy era andato a una festa su alla Snow Road, il suo luogo d'origine. Altri giovani che erano li l'avevano insultato, e lui aveva dovuto ingoiare gli insulti perché non sapeva un'acca di combattimenti. Ma dopo quell'episodio aveva preso qualche lezione da un vecchio pugile professionista, uno vero, che viveva a Sharbot Lake. Un'altra sera, un'altra festa: di nuovo la stessa storia. Gli stessi insulti. Solo che stavolta King Billy gli diede addosso e li sbaragliò tutti, uno dopo l'altro.

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