Autore Alice Munro
Titolo Uscirne vivi
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Supercoralli , pag. 306, cop.ril.sov., dim. 14x22x2,2 cm , Isbn 978-88-06-21492-0
OriginaleDear life [2012]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2014
Classe narrativa canadese












 

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Indice


       3  Che arrivi in Giappone

      29  Amundsen

      63  Lontano da Maverley

      85  Ghiaia

     103  Focolare

     125  Orgoglio

     145  Corrie

     165  Treno

     205  In vista del lago

     221  Dolly

     241  Finale

     243  L'occhio

     257  Notte

     271  Voci

     283  Uscirne vivi
_____________________________________


 

 

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Pagina 3

Che arrivi in Giappone


Appena le ebbe portato la valigia sul treno, Peter sembrò ansioso di togliersi di mezzo. Ma non di andare via. Le spiegò che lo metteva a disagio il pensiero che il treno potesse partire. Fuori, sulla pensilina, restò a sbracciarsi a naso in su verso il loro finestrino. A sorridere, a sbracciarsi. Il sorriso rivolto a Katy era aperto, solare, senza un dubbio al mondo, quasi credesse che lei avrebbe continuato a essere fonte di meraviglia per lui, e viceversa. Il sorriso rivolto alla moglie sembrava fiducioso, pieno di speranza, e di un velo di determinazione. Qualcosa che non sarebbe facile definire a parole, per non dire impossibile. Se Greta gliene avesse accennato le avrebbe detto, Non essere ridicola. E lei gli avrebbe dato ragione, ritenendo innaturale, per due persone che si vedono sempre, tutti i giorni, doversi dare spiegazioni di sorta.

Quando Peter era piccolissimo, sua madre l'aveva portato in braccio oltre certe montagne di cui Greta dimenticava regolarmente il nome, per farlo uscire dalla Cecoslovacchia sovietica e raggiungere l'Europa occidentale. C'erano altri; ovviamente. Il padre di Peter avrebbe voluto essere dei loro ma era stato ricoverato in sanatorio pochi giorni prima della partenza segreta. Doveva seguirli appena possibile, e invece morí.

— Ho letto storie simili, — disse Greta la prima volta che Peter glielo raccontò. Precisò che in quelle storie il neonato cominciava a piangere e toccava soffocarlo o strangolarlo, per non mettere a repentaglio la salvezza dell'intero gruppo di clandestini.

Peter disse di non aver mai sentito niente del genere e che non avrebbe saputo dire come si sarebbe comportata sua madre in circostanze analoghe.

Quel che fece di sicuro fu raggiungere il British Columbia, dove migliorò la propria conoscenza dell'inglese e si trovò un lavoro come insegnante di una materia che al tempo si chiamava Pratica aziendale, presso una scuola superiore. Crebbe Peter da sola e lo fece studiare fino alla laurea in ingegneria. Quando veniva a trovarli nell'appartamento e, piú tardi, a casa, si sedeva in soggiorno e non entrava in cucina, a meno che Greta non la invitasse esplicitamente. Era fatta cosí. Portava la tendenza a non interferire a livelli estremi. Non interferire, non intromettersi, non dare consigli, anche se avrebbe dato dei punti alla nuora in qualsiasi faccenda riguardante la gestione domestica.

Inoltre, si sbarazzò dell'alloggio in cui aveva allevato Peter per trasferirsi in un altro molto piú piccolo, senza camera da letto; appena con lo spazio sufficiente per un divano letto. Cosí Peter non può tornare da mamma, eh?, ironizzò Greta, ma lei reagí con sgomento. Le battute la ferivano. Forse era un problema linguistico. Eppure l'inglese era ormai la sua lingua abituale e comunque l'unica che Peter conoscesse. Lui aveva studiato Pratica aziendale — ma non con sua madre — mentre Greta studiava il Paradiso perduto. Lei evitava come la peste qualsiasi disciplina utile. Lui pareva fare il contrario.

Con il vetro a separarli e Katy decisa a impedire che la frenesia dei saluti diminuisse, si concessero sguardi di una tenerezza ridicola e decisamente esagerata. Greta pensò che era molto bello e che pareva esserne inconsapevole. Portava i capelli a spazzola, secondo la moda dei tempi — specie tra gli ingegneri o categorie analoghe — e la sua pelle chiara non si arrossava mai, come invece faceva la sua, né si riempiva di chiazze per il sole, ma assumeva un colorito uniforme e abbronzato in qualsiasi stagione.

Le opinioni di Peter erano un po' come il suo incarnato. Se andavano al cinema, lui dopo non voleva parlare del film. Diceva solo che era bello, abbastanza bello, o discreto. Non vedeva il motivo di spingersi oltre. Guardava la tv e leggeva libri piú o meno allo stesso modo. Era paziente con quel genere di cose. Le persone che le avevano prodotte probabilmente facevano del loro meglio. Greta si ribellava, infervorandosi gli chiedeva se si sarebbe espresso così anche riguardo a un ponte. Le persone che l'avevano progettato avevano fatto del loro meglio, ma non era bastato purtroppo e il ponte non aveva retto.

Anziché litigare, lui rideva.

Non è la stessa cosa, diceva.

No?

No.

Greta avrebbe dovuto capire che quell'atteggiamento — passivo, tollerante — era una benedizione per lei, come poeta, perché c'erano cose, dentro le sue poesie, tutt'altro che simpatiche o facili da chiarire.

(La madre di Peter e i suoi colleghi — quelli che lo sapevano almeno — continuavano a dire poetessa. Ma a lui aveva insegnato a non farlo. A parte questo, non ci fu bisogno di insegnare niente a nessuno. I parenti che si era lasciata alle spalle e quelli che al momento la conoscevano nel suo ruolo di casalinga e di madre, non avevano bisogno di imparare, perché non sapevano nulla di stranezze simili).

In momenti successivi della vita le sarebbe diventato difficile spiegare che cosa fosse ritenuto accettabile e cosa no, in quel periodo. Si potrebbe dire per esempio che il femminismo non lo era. Ma a quel punto occorrerebbe precisare che la gente allora non usava nemmeno la parola femminismo. Dopodiché ci si ingarbuglierebbe a far sapere che esprimere una qualunque idea seria, senza andare a scomodare un'ambizione, se non addirittura leggere un libro vero, poteva suscitare dei sospetti, venir collegato in qualche modo con la polmonite che si era presa tuo figlio, mentre un commento politico a una festa tra colleghi poteva costare a tuo marito la promozione sul lavoro. E non importava nemmeno a quale partito politico il commento si ispirasse. Era il fatto in sé di una donna che parli a ruota libera ad avere quelle possibili conseguenze.

La gente si metteva a ridere e diceva, Dài, stai scherzando, e a te toccava rispondere, Beh, non esattamente. E allora lei diceva, Una cosa è certa, comunque: se uno deve proprio scrivere poesie, è meglio che sia una donna e non un uomo. Ed ecco che la parola poetessa tornava utile, allora, come una ragnatela di zucchero filato. Peter non l'avrebbe mai pensata cosí, secondo Greta, ma c'è da dire che lui era nato in Europa. Però avrebbe compreso la posizione dei suoi colleghi di lavoro sull'argomento.


Quell'estate Peter doveva stare via da casa un mese se non di piú, per seguire un lavoro a Lund, su al Nord, quanto piú a nord si potesse arrivare, sulla terraferma. Non era prevista una sistemazione anche per Katy e Greta.

Greta però si era mantenuta in contatto con una ex collega della biblioteca di Vancouver che, dopo il matrimonio, si era trasferita a Toronto. Lei e il marito intendevano trascorrere un mese in Europa — lui faceva l'insegnante — e la ragazza le aveva scritto chiedendole se per caso lei e la sua famiglia potevano farle il favore — aveva modi molto garbati — di sistemarsi da loro a Toronto qualche giorno per non lasciare la casa vuota cosí a lungo. Greta le aveva risposto dicendole dell'incarico di Peter, ma accettando l'offerta per Katy e per sé.

Ecco il motivo per cui si trovavano ora a sbracciarsi tanto, chi dal treno, chi dalla pensilina.

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Pagina 29

Amundsen


Seduta sulla panchina fuori della stazione, aspettavo. Per l'arrivo del treno la stazione era stata aperta, ma adesso era sprangata. C'era un'altra donna seduta sul lato opposto della panchina: teneva tra le ginocchia una borsa a rete piena di pacchi avvolti in carta oleata. Carne, carne cruda. Si sentiva l'odore.

Sul binario sostava il treno elettrico, vuoto, in attesa.

Non si presentò nessun altro passeggero e, dopo un po', il capostazione cacciò fuori la testa e gridò «San». Lí per lí pensai che chiamasse qualcuno per nome, Sam. In effetti dall'angolo dell'edificio sbucò un tale con indosso una specie di uniforme. Attraversò il binario e sali a bordo della locomotiva. La donna con i pacchi si alzò e lo seguí, quindi feci lo stesso anch'io. Si levò un coro di urla, dal lato opposto della strada, mentre le porte di un edificio dal tetto piatto ricoperto di scandole scure si aprivano liberando un gruppo di uomini che si calzavano i berretti in testa sbatacchiando il portapranzo contro la coscia. Dal baccano che facevano si sarebbe detto che il treno stesse per scappargli via da un minuto all'altro. E invece quando furono sistemati non successe niente. La carrozza era ferma e loro intanto si contavano a vicenda chiedendosi chi mancava e dicendo al conducente che non poteva ancora partire. Poi qualcuno ricordò che era il giorno libero del tale che mancava all'appello. La carrozza si mosse e non era chiaro se il conducente avesse dato retta a quei discorsi, o se ne fosse infischiato.

Gli uomini scesero tutti a una segheria in foresta — a non piú di una decina di minuti a piedi — e poco dopo si cominciò a vedere il lago, coperto di neve. Un lungo edificio di legno bianco di fronte al lago. La donna risistemò i pacchi di carne, si alzò e io la seguii. Il manovratore tornò a gridare «San» e si aprirono le porte. C'erano due donne in attesa di salire. Salutarono quella con la carne e lei disse che faceva proprio un freddo cane.

Tutte evitarono di guardarmi mentre scendevo dietro la donna della carne.

A questa stazione non c'era nessuno da aspettare, evidentemente. Le porte si chiusero sbattendo e il treno riparte in direzione opposta.

Poi ci fu silenzio, l'aria come ghiaccio. Betulle dall'aspetto friabile, con chiazze nere sulla corteccia bianca, e cespugli diseguali di sempreverdi avvoltolati come orsi sonnolenti. Il lago gelato non piatto, bensí a dossi lungo la riva, come se le onde si fossero ghiacciate in movimento. E l'edificio in fondo, con le sue metodiche teorie di finestre e i porticati a veranda a ciascuna estremità. Un insieme austero e nordico, bianco e nero, sotto la volta di nuvole alte.

La corteccia delle betulle non bianca, però, a mano a mano che ci si avvicinava. Grigio-gialla, grigio-azzurra, grigia.

Un incantesimo sconfinato e fermo.

— Dov'è diretta? — mi chiese la donna della carne. — L'orario di visita finisce alle tre.

— Non sono in visita, — dissi. — Sono l'insegnante.

— Beh, dal portone non la fanno entrare comunque, — disse la donna con una certa soddisfazione. — Sarà meglio che venga con me. Una valigia non ce l'ha?

— Il capostazione ha detto che me la portava lui tra un po'.

— A vederla, lí immobile, aveva l'aria di una che s'è persa.

Dissi che mi ero fermata a guardare perché era bellissimo.

— Per qualcuno, può anche darsi. Sempre che non sia troppo malato o che non abbia da fare.

Nessuna delle due disse piú nulla finché non entrammo nella cucina a un'estremità dell'edificio. Avevo proprio bisogno di un po' di quel calore. Non ebbi modo di guardarmi intorno perché l'attenzione si concentrò sui miei stivali.

— Meglio che se li levi quelli se non vuole far la scia sul pavimento.

Faticai a sfilarli — non c'era una sedia per farlo da seduta — e li posai sul tappetino dove la donna aveva messo i suoi.

— No, li prenda e se li porti, non so dove vogliono sistemarla. Si tenga anche il cappotto, lo spogliatoio non è riscaldato.

Niente riscaldamento, niente luce, tranne quella che entrava da una finestrella ad altezza non raggiungibile. Era come essere in punizione, a scuola. Fila nello spogliatoio. Proprio cosí. Lo stesso odore di vestiti invernali che non asciugano mai del tutto, di stivali fradici che inzuppano le calze sporche, di piedi non lavati.

Montai su una panca ma non riuscivo comunque a vedere fuori. Sul ripiano ingombro di berretti e sciarpe trovai un sacchetto con dentro qualche dattero e dei fichi secchi. Dovevano averli rubati e nascosti qui per poi portarseli a casa. All'improvviso avevo fame. Niente nello stomaco dal mattino, a parte un tramezzino di formaggio rinsecchito, sull'Ontario Northland. Riflettei sulle implicanze etiche di rubare qualcosa a un ladro. Ma i fichi mi sarebbero rimasti tra i denti, pronti a tradirmi.

Scesi appena in tempo. Qualcuno stava entrando nello spogliatoio. Nessuna delle aiutanti di cucina, bensí un'alunna infagottata in un cappotto e con un foulard in testa. Entrò come un temporale: libri scaraventati sulla panca cosí da farli finire sparpagliati a terra, foulard strappato via, a rivelare un cespuglio scomposto di capelli e contemporaneamente, o cosí almeno sembrò, stivali sfilati uno dopo l'altro con un calcio, e spediti in fondo allo spogliatoio. A quanto pareva, nessuno l'aveva intercettata per farglieli togliere sulla porta di cucina.

— Ehi, non volevo tirarglieli addosso, — disse la ragazza. — È cosí buio qui dentro, arrivando da fuori, che non vedi quel che fai. Ma lei non sta congelando? Aspetta qualcuno alla fine del turno?

— Aspetto il dottor Fox.

— Non ne avrà per molto allora. Arrivo adesso con lui dal centro. Lei non è malata, vero? Se è malata, qui non ci può venire, deve andare da lui in paese.

— Sono l'insegnante.

— Ah sí? Viene da Toronto?

— Sí.

Ci fu una pausa, di rispetto, forse.

Anzi, no. Era di osservazione del mio cappotto.

— Molto carino. Che pelliccia è, quella sul colletto?

— Astrakan. Imitazione, s'intende.

— Io non me ne sarei accorta. Chissà perché l'hanno spedita qui dentro, c'è da gelarsi le chiappe. Mi scusi. Se vuole vedere il dottore, posso accompagnarla. So tutto di questo posto, in pratica ci abito da quando sono nata. Mia madre è capocuoca. Io sono Mary. E lei, come si chiama?

— Vivi. Vivien.

— Se è l'insegnante non dovrebbe essere Miss qualcosa?

— Miss Hyde.

— Come quello del dottor Jekyll, — disse lei. — Scusi. Mi è venuto spontaneo. Mi piacerebbe che fosse lei la mia insegnante ma devo andare a scuola in paese. Colpa delle stupide regole. Perché non ho la tisi.

Mi condusse parlando oltre la porta al fondo dello spogliatoio e poi lungo un corridoio come quello di un qualsiasi ospedale. Linoleum tirato a cera. Verdino alle pareti, odore di disinfettante.

— Ora che c'è lei magari riesco a convincere Reddy a farmi cambiare.

— Chi sarebbe Reddy?

— Reddy Fox. Viene da un libro. Io e Anabel avevamo deciso di chiamarlo cosí.

— E chi è Anabel?

— Non è piú nessuno. È morta.

— Oh, mi dispiace.

— Non è colpa sua. Succede da queste parti. Sono alle superiori da quest'anno. Anabel non è mai andata davvero a scuola. Quando andavo ancora alla pubblica Reddy aveva convinto la maestra a farmi stare a casa spesso, cosí potevo farle compagnia.

Si fermò davanti a una porta socchiusa e fischiò.

— Ehi. Ho portato l'insegnante.

Una voce maschile disse: — Va bene Mary. Per oggi ne ho abbastanza di te.

— Okay. Messaggio ricevuto.

Saltellò via, lasciandomi al cospetto di un uomo magro di statura media, i cui capelli rossicci tagliati cortissimi splendevano sotto la luce artificiale dell'ingresso.

— Ha già conosciuto Mary, — disse. — Bella parlantina, eh? Non sarà in classe con lei, perciò non le toccherà sopportarla tutti i giorni. O ti piace subito, o non ti piace piú.

L'avrei detto di una decina o una quindicina d'anni piú vecchio di me e al principio mi parlava proprio come avrebbe fatto un uomo piú grande. Da serio futuro datore di lavoro. Mi domandò del viaggio, di come avessi preso accordi rispetto alla valigia. Volle sapere se mi sarei adattata a vivere qui nei boschi, dopo Toronto, se non mi sarei annoiata.

Per niente, dissi, e aggiunsi che era bellissimo.

— È come... è come stare dentro un romanzo russo.

Mi guardò attentamente per la prima volta.

— Davvero? E quale romanzo russo?

Aveva occhi di un azzurro chiaro luminoso, tendente al grigio. Un sopracciglio si era sollevato a mo' di cappellino a punta.

Non è che non avessi letto dei romanzi russi. Ne avevo letti alcuni per intero e alcuni in parte. Ma a causa di quel sopracciglio e della sua espressione divertita, ma anche provocatoria, non riuscii a ricordarmi nessun titolo tranne Guerra e pace. E non volevo dirlo perché era quello che avrebbe ricordato chiunque.

— Guerra e pace.

— Beh, qui direi che abbiamo solo la Pace. D'altronde, se fosse stata la Guerra che voleva, immagino che si sarebbe infilata un'uniforme per poi farsi spedire oltreoceano.

Ero offesa e umiliata perché in realtà non avevo voluto vantarmi. O non solo, comunque. Avevo semplicemente voluto comunicare l'impatto meraviglioso di quel paesaggio su di me.

Era di sicuro una di quelle persone che fanno domande trabocchetto per coglierti in fallo.

— È probabile che mi aspettassi una vecchia signorina maestra sbucata da chissà dove, — disse, quasi a scusarsi un po'. — Come se tutte le persone di età ed esperienza ragionevoli dovessero trovarsi inserite nel sistema, di questi tempi. Lei non ha studiato da maestra, giusto? Che progetti aveva di preciso dopo il diploma?

— Proseguire gli studi, — dissi brusca.

— E come mai ha cambiato idea?

— Ho pensato che dovevo guadagnare qualcosa.

— Mi sembra sensato. Anche se ho paura che non guadagnerà molto qui. Scusi l'indiscrezione. Volevo solo essere sicuro che non decidesse di scappare e di lasciarci nei guai. Non pensa di sposarsi, vero?

— No.

— Bene. Bene. Adesso la lascio in pace. Non l'avrò scoraggiata, spero.

Avevo girato la testa.

— No.

— Al fondo del corridoio trova l'ufficio della direttrice: le dirà tutto quello che le serve sapere. Quanto al vitto, mangerà insieme alle infermiere. La direttrice le dirà del suo alloggio. Cerchi solo di non raffreddarsi. Immagino non abbia nessuna esperienza in fatto di tubercolosi.

— Beh, ho letto...

— Lo so. Lo so. Ha letto La montagna magica -. Secondo trabocchetto; ne sembrò ristorato. — Abbiamo fatto qualche passo avanti da allora, mi auguro. Tenga, qui c'è qualche appunto sui ragazzi e su quello che pensavo lei potrebbe cercare di fare insieme a loro. Certe volte preferisco esprimermi per iscritto. La direttrice le fornirà i dettagli.

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Pagina 103

Focolare


Tutto questo accadeva negli anni Settanta, anche se in paese, in quello come in tanti altri, gli anni Settanta non erano come ce li immaginiamo adesso, o come li avevo conosciuti io anche solo a Vancouver. I ragazzi si facevano crescere i capelli un po' di piú, ma non certo lunghi e sciolti sulle spalle, e l'ambiente non pareva registrare chissà quale aria ribelle né un livello inaudito di emancipazione.

Per prima cosa, mio zio si mise a provocarmi sulla preghiera di ringraziamento. Sul fatto che non la dicessi. Avevo tredici anni e stavo con lui e la zia perché quell'anno i miei erano in Africa. Non avevo mai chinato la testa su un piatto di cibo in vita mia.

— Oh Signore, benedici questo pane affinché possiamo mangiarne e noi affinché possiamo servirti, — disse lo zio Jasper, mentre io, bloccata con la forchetta a mezz'aria, mi trattenevo dal masticare la carne e le patate che avevo già in bocca.

— Stupita? — aggiunse dopo aver concluso con «nel nome del figlio Gesú, amen». Volle sapere se i miei genitori recitavano una preghiera diversa, magari alla fine del pasto.

— Non dicono niente, — risposi.

— Ma pensa, davvero? — Queste parole furono pronunciate in tono di falso stupore. — Non dirai sul serio. Gente che non ringrazia il Signore a tavola e poi parte per l'Africa a convertire i pagani, è da non credere!

In Ghana, i miei genitori erano andati a insegnare e non mi risultava che si fossero ancora imbattuti in nessun pagano. La cristianità prosperava ovunque in modo sconcertante, perfino sui cartelloni incollati sul retro degli autobus.

— I miei sono unitariani, — dissi, per qualche ragione escludendo me stessa.

Lo zio Jasper scosse il capo e mi chiese di chiarirgli il significato di quelle parole. Non credevano forse nel Dio di Mosè? Nel Dio di Abramo? Dovevano essere ebrei. Neppure? Non mi dirai che sono maomettani, allora.

— Piú che altro ognuno ha la sua idea personale di Dio, — dissi, in tono forse piú perentorio di quanto si aspettasse. Avevo due fratelli al college e nessuno dei due dava l'impressione di avviarsi a diventare unitariano, perciò ero abituata ad accalorate discussioni religiose — non meno che atee — al tavolo della cena.

— Però credono nell'importanza di realizzare opere di bene e di vivere una vita onesta, — aggiunsi.

Un errore. Non soltanto sulla faccia di mio zio si dipinse un'espressione incredula — sopracciglia sollevate per lo stupore, cenni di assenso col capo -, ma le parole che mi erano appena uscite di bocca suonavano estranee perfino a me stessa, boriose e prive di convinzione.

Avevo disapprovato la partenza dei miei per l'Africa. Protestato per essere stata scaricata — cosí mi ero espressa — dagli zii. È anche possibile che abbia detto ai miei pazientissimi genitori che le loro opere buone erano un mucchio di stronzate. In casa nostra era permesso utilizzare il linguaggio che volevamo. Non credo tuttavia che i miei avrebbero mai parlato di «opere buone» o di «fare del bene».

Mio zio fu soddisfatto, lí per lí. Disse che dovevamo rimandare la discussione perché gli toccava tornare in ambulatorio a occuparsi delle sue opere di bene entro l'una.

Probabilmente fu allora che la zia prese in mano la forchetta e cominciò a mangiare. Di sicuro aspettò che la tensione si placasse. Forse piú ancora per abitudine che per timore dei miei modi insolenti. Di norma, restava in attesa finché non era sicura che lo zio avesse finito di dire tutto quello che aveva da dire. Anche se mi rivolgevo a lei direttamente, aspettava comunque, con lo sguardo rivolto al marito per accertarsi che non volesse rispondere lui. Quel che alla fine diceva era invariabilmente allegro, e accompagnato da un sorriso, appena lo riteneva appropriato, perciò era difficile immaginarla un'oppressa. E altrettanto difficile crederla sorella di mia madre, tanto sembrava piú giovane e fresca e curata, oltre che incline a quei sorrisi radiosi.

Mia madre dava sulla voce a mio padre se era convinta di voler proprio dire la sua, il che succedeva con una certa frequenza. I miei fratelli, perfino quello che andava dicendo di aver pensato di farsi musulmano per poter castigare le donne, le davano ascolto come a un'autorità di pari livello.

— Dawn ha dedicato l'esistenza a suo marito, — aveva commentato mia madre, sforzandosi di usare un tono neutrale. Oppure, piú secca: — La sua vita ruota intorno a quell'uomo.

Erano cose che si dicevano al tempo, e non sempre con intenzioni denigratorie. Ma prima di allora non avevo mai visto una donna per la quale quelle parole fossero vere come per la zia Dawn.

Certo, sarebbe stata tutta un'altra cosa se avessero avuto dei figli, diceva mia madre.

Figuriamoci. Dei figli. Pronti a intralciare il cammino dello zio Jasper, a reclamare uno scampolo di attenzione da parte della madre. Ad ammalarsi, mettere il broncio, fare disordine in casa, pretendere di mangiare cose che a lui non piacevano.

Impossibile. Sua era la casa, sua la scelta del menu, come quella dei programmi alla radio e alla televisione. Anche quando era in ambulatorio, nell'edificio accanto, o fuori per una visita, ogni cosa doveva restare in attesa della sua approvazione in qualsiasi momento.

Ma ciò di cui a poco a poco mi resi conto fu che quel sistema di vita poteva rivelarsi piuttosto gradevole. Argenteria scintillante, scuri pavimenti lustri, lenzuola morbide: una devozione domestica gestita dall'autorità di mia zia e messa in pratica da Bernice, la cameriera. Bernice cucinava tutto con le sue mani, stirava anche gli strofinacci dei piatti. Gli altri dottori in paese mandavano la biancheria alla lavanderia dei cinesi; la nostra veniva stesa fuori da Bernice e dalla zia Dawn in persona. Bianche di sole, fresche di vento, lenzuola e bende profumate di qualità immancabilmente superiore. Mio zio era del parere che i Gialli ci andassero un po' troppo pesante con l'appretto.

«Cinesi», lo correggeva la zia sottovoce in tono scherzoso, quasi dovesse chiedere scusa tanto ai gestori della lavanderia quanto al marito.

«Gialli», tuonava lo zio.

Bernice era l'unica in grado di usare quel termine con naturalezza.

Poco per volta mi feci meno leale verso casa mia, con la sua serietà intellettuale e il suo disordine materiale. Certo, occorreva tutta l'energia di una donna per reggere un focolare domestico di quel livello. Non potevi, frattanto, battere a macchina volantini della Chiesa unitariana, o svignartela in Africa. (In principio dicevo: «I miei sono andati in Africa per lavorare», ogni volta che qualcuno in casa parlava del loro svignarsela. Ma dopo un po' mi stancai di correggerli).

La parola giusta era focolare. «Il compito più importante per una donna è costruire un focolare domestico per il suo uomo».

Si esprimeva davvero cosí la zia Dawn? Non credo. Rifuggiva dalle dichiarazioni. Devo averlo letto su una delle riviste che circolavano in casa. Del genere che a mia madre avrebbe dato il voltastomaco.

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Pagina 221

Dolly


Quell'autunno si era un po' parlato di morte. Della nostra, intendo. Poiché Franklin aveva ottantatre anni e io settantuno, avevamo naturalmente pensato ai nostri funerali (nessuna cerimonia) e alla sepoltura (immediata) in un lotto già acquistato. Avevamo scartato l'idea della cremazione, al tempo molto in voga fra i nostri amici. Restava fuori dai discorsi o affidato al caso proprio solo il morire in sé.

Un giorno, durante un giro in macchina nella campagna intorno a casa, scoprimmo una strada che non conoscevamo. Gli alberi, aceri, querce e altre specie, sebbene di seconda crescita avevano dimensioni notevoli, il che testimoniava una precedente deforestazione. Dovevano esserci state fattorie, in passato, pascoli, case e fienili. Non ne rimaneva traccia, comunque. La strada era sterrata, ma battuta. Dava l'impressione di essere percorsa da un discreto numero di veicoli ogni giorno. Camion, forse, che la usavano come scorciatoia.

Era importante, disse Franklin. Non volevamo certo restarcene li un giorno, due, magari anche una settimana, senza essere trovati. E nemmeno volevamo lasciare l'auto vuota costringendo la polizia a vagare nel bosco in cerca di corpi nei quali potevano già essersi imbattuti i coyote.

Altra cosa: non doveva essere una giornata troppo malinconica. Niente pioggia o prime nevicate. Foglie autunnali, ma non molte ancora a terra. Tinte di giallo carico, come quel giorno. Forse, però, meglio se non c'era il sole, se no tutta la gloria di quell'oro poteva farci sentire dei guastafeste.

Non eravamo d'accordo sul biglietto. Cioè, se doverlo lasciare oppure no. Secondo me gli altri avevano diritto a una spiegazione. Dovevano sapere che non c'era di mezzo nessun male incurabile, nessuna avvisaglia di dolore fisico che impedisse la prospettiva di una vita dignitosa. Dovevano sapere che era stata una decisione presa a mente lucida, per non dire addirittura a cuor leggero.

Partiti finché il partire è lieve.

No. Ritirai subito. Era un'insolenza. Un affronto.

Franklin era dell'idea che qualsiasi spiegazione sarebbe stata un affronto. Non per gli altri ma per noi stessi. Per noi stessi. Appartenevamo solo a noi stessi e l'uno all'altra perciò ogni spiegazione gli sapeva di piagnisteo.

Capivo il suo punto di vista ma tendevo lo stesso a non dargli ragione.

E fu apparentemente proprio questo, il nostro disaccordo, a fargli escludere la possibilità di agire.

Disse che erano tutte stupidaggini. Per lui poteva andare, ma io ero troppo giovane. Magari ne avremmo riparlato quando avessi compiuto i settantacinque anni.

L'unica cosa, dissi, che mi seccava un po' era partire dal principio che nelle nostre vite non sarebbe successo piú niente. Niente che ci toccasse, piú nulla da risolvere.

Ma se avevamo appena litigato, disse lui, che altro volevo?

Siamo stati troppo educati, dissi io.


Non mi sono mai sentita piú giovane di Franklin, tranne forse quando, parlando, si nomina la guerra — la seconda guerra mondiale, voglio dire —, il che ormai succede raramente. Prima di tutto, lui si tiene in esercizio piú di me. Una volta faceva il sorvegliante in una scuderia, di quelle dove la gente ricovera i cavalli da equitazione, non da corsa.

Continua ad andarci, due o tre volte la settimana, monta il suo cavallo e chiacchiera con l'attuale sorvegliante che ogni tanto gli chiede dei consigli. Anche se lui sostiene di farlo per levarsi di torno.

In realtà è un poeta. È proprio un poeta e proprio un addestratore di cavalli. Ha avuto incarichi semestrali in vari college, ma mai tanto lontano da non riuscire a mantenersi in contatto con le scuderie. Si concede per qualche reading di poesia, ma come dice lui, solo ogni morte di papa. Certe volte questo atteggiamento mi irrita — lo definisco il suo personaggio dell'eterno imbarazzato — ma posso capire. Se ti occupi di cavalli la gente vede che hai da fare, ma quando sei concentrato a costruire una poesia sembri in preda a una specie di indolenza e può metterti a disagio dover spiegare che cosa succede.

Forse un altro problema nasce dal fatto che pur essendo un uomo molto schivo, i versi per i quali è piú conosciuto sono del tipo che la gente della zona — vale a dire, quella dove lui è cresciuto — definirebbe probabilmente espliciti. Piuttosto espliciti, ho sentito dire anche da lui, non per giustificarsi ma forse per mettere in guardia. Si preoccupa della sensibilità di alcune persone che sa potrebbero scandalizzarsi di certe cose, pur restando uno strenuo sostenitore della libertà di parola in un senso generale.

Il che non significa che non sia cambiato niente da queste parti, a proposito di quel che si può dire ad alta voce o leggere sulla carta stampata. I premi aiutano, e anche essere citati sui giornali.


Per tutti gli anni in cui ho lavorato al liceo non insegnavo letteratura, come verrebbe da credere, bensí matematica. Poi, stando a casa, sono diventata inquieta e mi sono cercata un'altra occupazione: ho scritto biografie accurate e, spero, interessanti di romanzieri canadesi immeritatamente dimenticati o che non avevano mai ricevuto la dovuta considerazione. Non credo che me le avrebbero commissionate, non fosse stato per Franklin e per quella reputazione letteraria di cui non parliamo mai: io sono nata in Scozia e in realtà non conoscevo nessuno scrittore canadese.

Non avrei mai ritenuto che ci fosse ragione per riservare a Franklin o a nessun altro poeta la compassione che offrivo ai romanzieri, per la loro tenue se non affatto spenta rinomanza, voglio dire. Non so perché, esattamente. Forse ho idea che la poesia sia piú fine a se stessa.

Il lavoro mi piaceva, mi sembrava dignitoso e, dopo anni nelle aule di scuola, mi godevo il silenzio e l'indipendenza. Ma a una certa ora del giorno, diciamo verso le quattro del pomeriggio, mi capitava di aver voglia di una pausa e di un po' di compagnia.

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L'occhio


Quando avevo cinque anni i miei genitori di punto in bianco fecero un bambino, cosa che secondo mia madre avevo sempre desiderato. Dove avesse rimediato quell'idea, non lo so. Ci ricamò sopra parecchio, anzi; tutte cose di sua invenzione, ma non facili da contraddire.

Un anno dopo arrivò una bambina e ci fu di nuovo un certo trambusto, ma in tono minore rispetto all'altra volta.

Fino alla comparsa del primo bambino non mi era mai successo di sentirmi diversa da come mia madre sosteneva che mi sentissi. E fino a quel momento, tutta la casa era stata piena di lei, passi voce odore talcato eppure minaccioso che occupava ogni camera, anche in sua assenza.

Che cosa mi fa dire minaccioso? Non che avessi paura. Non che mia madre mi dicesse esplicitamente che cosa dovevo pensare. Esercitava la propria autorità senza bisogno della minima imposizione. E non solo riguardo al fratellino, ma anche a proposito dei cereali Red River che mi facevano bene e perciò dovevano piacermi da matti. O del modo di interpretare l'immagine appesa ai piedi del mio letto, quella che mostrava Gesú nell'atto di imporre le mani ai fanciulli. Allora il termine imporre significava qualcosa di un po' diverso, ma non era su quello che concentravamo la nostra attenzione. Mia madre indicava la bimbetta che si nascondeva dietro un angolo perché voleva andare anche lei da Gesú, ma era troppo timida. Quella ero io, diceva, e a me sembrava vero, anche se non l'avrei mai capito se non me l'avesse spiegato e avrei comunque preferito che non fosse cosí.

Una cosa che mi faceva proprio star male era quando in Alice nel Paese delle Meraviglie Alice diventa enorme e resta intrappolata nella tana del coniglio, ma ridevo lo stesso, perché mia madre sembrava trovarlo molto divertente.

Fu con l'arrivo di mio fratello, tuttavia, e con le interminabili tiritere su come lui fosse una specie di regalo per me, che cominciai ad accettare la vastità del divario possibile tra l'idea che mia madre aveva di me e la mia.

Credo sia stato questo a rendermi pronta per Sadie, quando venne a lavorare da noi. Mia madre era ormai relegata al territorio di sua pertinenza con i neonati. Con lei meno in giro, ebbi modo di riflettere su ciò che era vero e ciò che non lo era. Fui comunque abbastanza saggia da non farne parola con anima viva.

Il tratto piú singolare di Sadie — anche se in casa nostra nessuno si sognò di sottolinearlo — era la sua celebrità. Avevamo una stazione radio in paese e lei ci suonava la chitarra e cantava la sigla di inizio che aveva composto personalmente.

«Buongiorno, buongiorno, buongiorno a tutti voi...»

E una mezz'ora dopo, «Arrivederci, arrivederci, arrivederci, a tutti voi...» Fra l'una e l'altra sigla intonava canzoni a richiesta, oltre ad alcune di sua scelta. Le persone piú sofisticate in paese la prendevano un po' in giro per quelle canzoni e per la stazione radiofonica in sé che si diceva fosse la piú piccola di tutto il Canada. Si trattava di ascoltatori di una radio di Toronto, che volevano sentire le novità musicali del momento — tipo «Three little fishes and a momma fishy too» — oppure Jim Hunter e i suoi disperati notiziari di guerra a tutto volume. La gente di campagna, invece, apprezzava la radio locale e il genere di canzonette di Sadie. La sua era una voce forte e malinconica, e cantava di solitudine e di cuori infranti.

    Leanin' on the old top rail,
    In a big corral.
    Lookin' down the twilight trail
    For my long lost pal.

La maggior parte dei terreni agricoli nella nostra zona erano stati disboscati e colonizzati in pianta stabile da centocinquant'anni, piú o meno, perciò quasi da ciascun casale se ne vedeva un altro a pochi campi di distanza. Eppure, i contadini volevano ancora ascoltare canzoni che parlassero di mandriani solitari, del richiamo e dello sconforto di località remote, di efferati criminali che, dopo aver commesso atroci nefandezze, morivano pronunciando il nome della loro mamma, o di Dio.

Era di tutto questo che cantava Sadie in un contralto stentoreo e dolente a piena gola, mentre quando poi veniva da noi a lavorare si mostrava energica e sicura, lieta di chiacchierare, soprattutto di se stessa. E di solito non trovava altri interlocutori a parte me. La divisione dei compiti tra lei e mia madre comportava che fossero quasi sempre separate, e comunque non credo che avrebbero gradito conversare insieme. Mia madre, come ho detto, era una persona seria, che aveva fatto l'insegnante a scuola prima di fare da maestra a me. Forse le sarebbe piaciuto che Sadie fosse il tipo bisognoso di aiuto, qualcuno da istruire sul galateo del parlare quando diceva «voialtri». Ma Sadie non dava tanto l'impressione di volere l'aiuto di qualcuno, né di voler parlare in maniera diversa da come aveva sempre fatto.

Dopo pranzo Sadie e io restavamo sole in cucina. Mia madre si prendeva una pausa per un sonnellino e, se era fortunata, dormivano un poco anche i bambini. Quando si alzava si cambiava d'abito, come se si aspettasse un pomeriggio libero da impegni, anche se non sarebbero mancati di sicuro altri pannolini da cambiare, nonché quell'altra indecorosa incombenza che mi sforzavo sempre di non guardare, quando l'ultima nata s'ingozzava di latte attaccata al suo seno.

Faceva il sonnellino anche mio padre: non piú di un quarto d'ora in veranda con il «Saturday Evening Post» aperto sulla faccia, prima di tornare al lavoro nel granaio.

Sadie scaldava l'acqua sulla stufa e lavava i piatti col mio aiuto e con gli scuri chiusi per tenere fuori il caldo. Quando avevamo finito, lavava il pavimento e io asciugavo, utilizzando un sistema di mia invenzione: quello di pattinare in giro per la cucina scivolando sugli strofinacci. Poi rimuovevamo i rotoli di carta moschicida gialla e appiccicosa che avevamo piazzato dopo colazione ed erano già neri di mosche morte o ancora ronzanti e li sostituivamo con altri nuovi che a loro volta si sarebbero riempiti di cadaveri entro l'ora di cena. Per tutto il tempo Sadie mi raccontava della sua vita.

Allora non mi era facile giudicare l'età della gente. Il mondo si divideva in grandi e bambini e lei per me era grande. Poteva avere sedici anni, ma forse anche diciotto o venti. In ogni caso, le piaceva ripetere di non avere nessuna fretta di sposarsi.

Andava a ballare tutti i sabati sera, ma sempre da sola. Da sola e per sé sola, come diceva lei.

Mi raccontava della sala da ballo. Ce n'era una in paese, poco lontano dalla via principale, che d'inverno ospitava le piste da curling. Pagavi dieci centesimi e potevi salire a ballare sulla pedana con tutta la gente intorno che ti fissava; non che a lei importasse. Ci teneva a sborsarli di tasca sua, i dieci centesimi, per non dover dir grazie a nessuno. Ma qualche volta un giovanotto la anticipava. Le chiedeva se voleva ballare e lei, per prima cosa, gli chiedeva di brutto, Tu sei capace? Sai ballare? L'altro la guardava stranito e rispondeva certo, altrimenti cosa ci avrebbe fatto li? E di solito si scopriva che per ballare intendeva trascinarsi sui piedi qua e là tenendola stretta con le manacce sudate. Certe volte li lasciava impalati sulla pista e si metteva a ballare da sola — che era quello che le piaceva fare, in ogni caso. Finiva il giro pagato e, se il cassiere protestava e cercava di farla pagare per due anziché uno, lei gli diceva di farseli bastare. Che ridessero pure vedendola ballare da sola, se ne avevano voglia.

L'altra sala era appena fuori del paese, sulla statale. Da loro si pagava all'ingresso e non per un solo ballo, ma per tutta la sera. Il locale si chiamava Royal-T. Anche lí Sadie pagava per sé. Di solito i ballerini erano di livello superiore, ma lei cercava comunque di farsi un'idea di come se la cavassero prima di permettere a chiunque di portarla in pista. Erano perlopiú ragazzi del paese, mentre quegli altri arrivavano dalle campagne. In fatto di piedi erano meglio — questi del paese — ma non sempre era dei piedi che ti dovevi preoccupare. Bensí di dove volevano mettere le mani e stringere. Certe volte era costretta a minacciarli recitando articoli di legge e a chiarire bene come si sarebbe comportata se non la piantavano. Faceva presente che lei era venuta per ballare e che si era pure pagata il biglietto. Per giunta, sapeva dove colpirli. Come rimetterli in riga. Ogni tanto qualche ballerino in gamba c'era e allora si divertiva. E quando attaccavano l'ultimo pezzo, lei schizzava a casa.

Non era come certe altre, diceva. Non intendeva farsi acchiappare.

Acchiappare. Quando diceva cosí, io immaginavo una grossa rete che ti cala addosso, dei mostriciattoli che te la stringono attorno fino a soffocarti senza lasciarti scampo. Sadie dovette intuire qualcosa del genere dalla mia faccia, perché mi disse di non aver paura.

— Non c'è niente di cui aver paura a questo mondo, basta stare attenti.

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