Copertina
Autore Haruki Murakami
Titolo 1Q84 - Libro 3
SottotitoloOttobre-dicembre
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Supercoralli , pag. 402, cop.ril.sov., dim. 14x22x2,8 cm , Isbn 978-88-06-20829-5
Originale1Q84 (ichi-kew-hachi-yon) [2010]
TraduttoreGiorgio Amitrano
LettoreAngela Razzini, 2013
Classe narrativa giapponese
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    Libro terzo - Ottobre-dicembre

  5 1.  Ushikawa. Qualcosa tira calci ai lontani margini della coscienza
 21 2.  Aomame.   Sto da sola, ma non sono sola
 33 3.  Tengo.    Tutte le bestie indossavano abiti
 46 4.  Ushikawa. Il rasoio di Occam
 58 5.  Aomame.   È inutile che trattenga il respiro
 67 6.  Tengo.    Il prurito che ho sui pollici
 83 7.  Ushikawa. Sto camminando verso di te
 97 8.  Aomame.   Questa porta non è niente male
109 9.  Tengo.    Prima che l'uscita sia bloccata
124 ro. Ushikawa. Raccogliere prove solide
139 11. Aomame.   Oltre a essere privo di logica, manca di cuore
151 12. Tengo.    Le regole del mondo cominciano ad allentarsi
164 13. Ushikawa. Tornare al punto di partenza vuol dire questo?
178 14. Aomame.   Questa mia piccola cosa
187 15. Tengo.    Non era autorizzato a rivelarlo
203 16. Ushikawa. Una macchina funzionale, paziente, imperturbabile
218 17. Aomame.   Ho solo due occhi
228 18. Tengo.    Dove se ti pungi con un ago esce del sangue rosso
248 19. Ushikawa. Cose che lui può e che le persone normali non possono
266 20. Aomame.   Come parte della mia trasformazione
282 21. Tengo.    Da qualche parte nella sua testa
302 22. Ushikawa. I suoi occhi mostrano compassione
313 23. Aomame.   La luce c'era, senza dubbio
319 24. Tengo.    Lascio il paese dei gatti

[...]


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5

1. Ushikawa

Qualcosa tira calci ai lontani margini della coscienza


- Potrebbe fare a meno di fumare, signor Ushikawa? - chiese l'uomo basso.

Ushikawa guardò per qualche istante il viso della persona al lato opposto della sua scrivania, quindi lanciò un'occhiata alla Seven Stars che aveva tra le dita. Non era accesa.

- Se non le dispiace, - aggiunse l'uomo cortesemente.

Sul viso di Ushikawa si disegnò un'espressione perplessa, come se si chiedesse cosa ci faceva quella roba tra le sue dita.

- No, si figuri, anzi. Certo che non la accendo. Devo averla presa in mano senza accorgermene.

L'uomo spostò su e giú il mento di circa un centimetro, ma il suo sguardo non si mosse. Rimase puntato sugli occhi di Ushikawa. Questi rimise la sigaretta nel pacchetto, che ripose in uno dei cassetti.

L'uomo alto, dai capelli raccolti in una coda di cavallo, stava in piedi davanti alla porta, appoggiato alla cornice cosí leggermente che a stento la toccava, e lo guardava come si guarda una macchia sulla parete. «Tipi sinistri», pensò Ushikawa. Era la terza volta che incontrava i due uomini e parlava con loro, ma il disagio non diminuiva.

Nel piccolo ufficio di Ushikawa, l'uomo basso, dalla testa rasata, gli sedeva di fronte. Parlare spettava a lui. Il tipo con la coda di cavallo rimaneva in silenzio. Come i cani di pietra che sorvegliano l'ingresso dei santuari shintoisti, se ne stava perfettamente immobile a fissare la faccia di Ushikawa.

- Sono tre settimane, - disse il Rasato.

Ushikawa prese il calendario da tavolo che era sulla scrivania, controllò ciò che vi era annotato, quindi annuí.

- Esatto. Oggi fanno giusto tre settimane dall'ultima volta che ci siamo incontrati.

- Da allora non abbiamo piú ricevuto notizie da lei. Credo di averglielo già detto la volta scorsa: la questione è della massima urgenza. Non c'è tempo da perdere, signor Ushikawa.

- Me ne rendo conto perfettamente, - disse Ushikawa, rigirando tra le dita, al posto della sigaretta, un accendino d'oro. - Non possiamo permetterci di sprecare altro tempo. Lo so bene.

Il Rasato aspettava che continuasse.

Ushikawa riprese:

- Ma vede, il fatto è che non sono abituato a dare informazioni un poco alla volta. Non mi piace riferire le cose a pezzetti. Vorrei andare avanti fino a quando non avrò un quadro completo della faccenda, i pezzi andranno al loro posto e capirò cosa c'è dietro. Consegnarle ora un rapporto incompleto sarebbe inutile e dannoso. Forse le sembrerà un ragionamento egoistico, ma il mio metodo è questo, signor Onda.

L'uomo dalla testa rasata che rispondeva al nome di Onda lo guardò con freddezza. Ushikawa sapeva che non nutriva nessuna simpatia nei suoi confronti, ma non ci faceva troppo caso. Per quanto potesse ricordare, non era mai piaciuto a nessuno. Quella situazione era normale per lui. Genitori e fratelli non lo avevano mai amato, gli insegnanti e i compagni di scuola nemmeno a parlarne, moglie e figlie non facevano eccezione. Se qualcuno gli avesse mostrato simpatia, si sarebbe sentito un po' in imbarazzo. Risultare sgradito, invece, non gli creava problemi.

- Signor Ushikawa se potessimo, rispetteremmo i suoi metodi. Anzi, direi che lo abbiamo sempre fatto. Ma adesso la situazione è diversa. Purtroppo non possiamo piú aspettare che lei continui a raccogliere e verificare le sue informazioni.

- Capisco, signor Onda, ma non credo che nel frattempo siate rimasti ad aspettarmi con le mani in mano, - disse Ushikawa. - Immagino che avrete battuto diverse piste per conto vostro, o sbaglio?

Onda non rispose. Le labbra chiuse formavano una riga orizzontale. Neanche la sua espressione mutò. Ma da quella reazione Ushikawa capi che il suo intuito aveva centrato il bersaglio. In quelle tre settimane, la loro organizzazione si era mobilitata per trovare la donna, seguendo probabilmente un percorso diverso dal suo. Senza, però, ottenere risultati degni di nota. Altrimenti quel sinistro duo non si sarebbe presentato di nuovo.

- Come si dice, ci vuole un diavolo per scacciarne un altro, - disse Ushikawa mostrando i palmi di entrambe le mani con l'aria di chi rivela un segreto prodigioso. - Se si cerca di nascondermi qualcosa, io divento un diavolo. Come potete vedere, non sono di bell'aspetto, ma ho un fiuto molto sviluppato. Se annuso qualcosa, sono capace di seguirlo ovunque. Però capirete che un diavolo deve agire secondo i suoi modi e i suoi tempi. Pur rendendomi conto dell'urgenza, devo chiedervi di aspettare ancora un po'. Se non mi lasciate lavorare con calma, perderemo tutto.

Onda osservò pazientemente i movimenti dell'accendino nella mano di Ushikawa. Quindi sollevò lo sguardò su di lui.

- Potrebbe raccontarci quello che ha scoperto finora, anche se si tratta di elementi parziali? Rispetto il suo modo di lavorare, ma se torniamo a mani vuote, senza nemmeno una notizia concreta, i nostri superiori non saranno contenti. Noi ci troveremo in seria difficoltà, ma anche lei, signor Ushikawa, sarà in una posizione tutt'altro che piacevole.

«Questi tipi sono con le spalle al muro quanto me», pensò Ushikawa.

I due uomini erano stati scelti per la sicurezza personale del Leader grazie alla loro eccellente padronanza delle arti marziali. Malgrado ciò il Leader era stato ucciso sotto i loro occhi. Anche se, in realtà, non c'erano ancora prove certe che si fosse trattato di un omicidio. Diversi medici della setta avevano esaminato il cadavere senza trovare nessun segno di ferite. Tuttavia la struttura medica della comunità era fornita solo di apparecchiature essenziali. E il tempo stringeva. Se fosse stato sottoposto a un'accurata autopsia per mano di specialisti, forse si sarebbe potuto scoprire qualcosa. Ma era troppo tardi. Il corpo era già stato fatto sparire in segreto dalla setta.

In ogni caso, non essendo riusciti a proteggere il Leader, i due uomini si trovavano in una situazione molto delicata. Il loro incarico adesso era quello di cercare la donna di cui si erano perse le tracce. Avevano l'ordine di trovarla, a costo di spaccare ogni filo d'erba in due. Ma per il momento non erano riusciti a ottenere nessun valido indizio: i due erano molto abili nel lavoro di sorveglianza e guardia del corpo, ma non avevano nessuna competenza nella ricerca di persone scomparse.

- Ho capito, - disse Ushikawa. - Vi riferirò quanto è emerso finora. Non posso farvi il resoconto completo, ma ve ne accennerò almeno una parte.

Onda socchiuse gli occhi per alcuni istanti. Poi annui.

- Va bene. Anche noi sappiamo alcune cose. Cose che lei, forse, conosce già, oppure no. Proviamo a mettere insieme le informazioni.

Ushikawa posò l'accendino e incrociò le dita delle mani sulla scrivania.

- Una giovane donna di nome Aomame è stata chiamata in una suite dell'Hotel Okura, dove ha sottoposto il Leader a una sessione di stretching muscolare. Questo è avvenuto all'inizio di settembre, una sera in cui al centro della città infuriava un violento temporale. La donna ha eseguito la sua terapia per circa un'ora in una stanza, sola con il Leader, poi è uscita, lasciandolo dormire. Vi ha detto di non disturbarlo per circa un paio d'ore. Voi avete fatto come vi ha chiesto. Ma il Leader non stava dormendo. Era morto. Non recava segni di ferite. Sembrava avesse avuto un attacco di cuore. Subito dopo la donna è sparita, e il suo appartamento è stato sgombrato. Lo avete trovato completamente vuoto, senza nulla. Il giorno dopo ha inviato la lettera di dimissioni alla palestra dove lavorava. Tutto era stato pianificato. Ciò porta a escludere che si sia trattato di un semplice incidente. L'unica conclusione è che la signorina Aomame abbia ucciso il Leader intenzionalmente.

Onda annui. Fino a quel punto non aveva nulla da ridire.

- Il vostro scopo è scoprire la verità. Per questo è necessario prendere quella donna a tutti i costi.

- Noi dobbiamo accertare che sia stata veramente lei a uccidere il Maestro, e se cosí fosse, per quale ragione lo ha fatto e cosa c'è dietro.

Ushikawa guardò le proprie mani sulla scrivania. Sembrava stesse osservando qualcosa d'insolito. Poi sollevò gli occhi sull'uomo di fronte a lui.

- Avete già controllato i familiari di Aomame, giusto? Tutti devoti seguaci della Società dei Testimoni. I genitori sono tuttora impegnati nel proselitismo. Il fratello maggiore, di trentaquattro anni, lavora nella sede principale della setta, a Odawara. È sposato e ha due figli. Anche la moglie è una fervente seguace dei Testimoni. Della famiglia, Aomame è l'unica ad aver abbandonato la setta, come dicono loro, «rinnegandola», e per questo l'hanno ripudiata. Per quasi vent'anni non hanno piú avuto contatti. È da escludere che loro possano nasconderla. Aomame ha troncato i rapporti con i suoi all'età di undici anni, e da allora ha contato solo sulle proprie forze. Per un periodo ha vissuto con la famiglia dello zio, ma quando ha cominciato il liceo è diventata del tutto indipendente. Mica roba da poco. Una donna dotata di grande volontà.

Il Rasato non disse nulla. Probabilmente erano tutte informazioni che conosceva già.

- È da escludere a priori che il nostro caso abbia a che fare con la Società dei Testimoni. È una comunità famosa per le convinzioni pacifiste e per il principio della resistenza passiva. È impensabile che avessero di mira la morte del Leader. Penso che su questo sarete d'accordo con me.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 21

2. Aomame

Sto da sola, ma non sono sola


Appena faceva buio, si sedeva su una sedia sul balcone e guardava il piccolo parco per bambini dall'altra parte della strada. Era il principale compito giornaliero, il centro della sua vita. Che il cielo fosse sereno, nuvoloso, o che piovesse, era capace di proseguire per ore senza interruzione. All'inizio di ottobre, l'aria cominciava a farsi fredda. La sera Aomame si vestiva a piú strati, prendeva un plaid e beveva una cioccolata calda. Fino alle dieci e mezzo circa fissava lo scivolo, poi si immergeva a lungo nella vasca per riscaldarsi e infine andava a letto.

Naturalmente c'era la possibilità che Tengo andasse lí anche di giorno, con la luce del sole. Ma le sembrava improbabile. Era sicura che se fosse tornato nel parco, sarebbe stato dopo il tramonto, quando si accendevano i lampioni ai vapori di mercurio e la luna si stagliava nitida in cielo. Dopo aver consumato una rapida cena, Aomame si vestiva per essere pronta a correre fuori, si sistemava i capelli, e puntava lo sguardo sullo scivolo. Teneva sempre a portata di mano la pistola automatica e un piccolo binocolo Nikon. Per paura che Tengo arrivasse mentre lei era in bagno, a parte la cioccolata calda, evitava di bere altro.

Aomame continuava a guardare il parco ogni sera, senza un solo giorno di pausa. Lo osservava senza leggere libri né ascoltare musica, ignorando tutti i suoni che provenivano dall'esterno. Quasi non cambiava posizione. Il suo unico movimento consisteva, a volte, nel sollevare il viso, quando la notte era senza nuvole. Lanciava uno sguardo al cielo e si accertava che ci fossero ancora due lune. Poi tornava subito a fissare il parco. Lei guardava il parco, e le due lune guardavano lei.

Ma Tengo non si faceva vedere.


Non erano in molti a visitare il parco di notte. A volte intravedeva delle coppie. Si sedevano sulla panchina e si tenevano la mano, dandosi ogni tanto dei brevi baci nervosi, come uccellini. Ma il parco era troppo piccolo e troppo illuminato. Spesso, dopo avervi passato un po' di tempo, gli innamorati, sentendosi a disagio, rinunciavano e si spostavano altrove. C'erano anche persone che arrivavano con l'intenzione di usare il gabinetto pubblico, ma quando scoprivano che la porta era chiusa a chiave se ne andavano deluse, o arrabbiate. Capitava talvolta un impiegato che, sulla via del ritorno a casa, si sedeva sulla panchina, immobile e con lo sguardo rivolto in basso, forse per smaltire una sbornia, oppure perché non aveva voglia di tornare subito a casa. C'era pure un vecchio solitario che di notte portava fuori il cane a passeggiare. Cane e padrone, ugualmente silenziosi, sembravano aver perso ogni speranza.

Per quasi tutta la notte nel parco non si vedeva anima viva. Non passava nemmeno un gatto. C'era solo la luce priva di calore del lampione ai vapori di mercurio che illuminava l'altalena, lo scivolo, la buca con la sabbia e il gabinetto chiuso a chiave. Guardando a lungo quella scena, a volte Aomame aveva la sensazione di essere stata abbandonata in un pianeta deserto. Come in quel film che descriveva il mondo dopo una guerra nucleare. Come si chiamava?

Ah, sí, L'ultima spiaggia.

Ciò nonostante, si concentrava e continuava a guardare il parco. Come un marinaio di vedetta che dall'albero maestro scruta il vasto mare cercando branchi di pesci o l'ombra sinistra di un periscopio, gli occhi attenti di Aomame vagavano alla ricerca di Kawana Tengo.

Poteva darsi che Tengo vivesse in un'altra parte della città, e che quella notte fosse stato in zona per puro caso. Se era cosí, le probabilità che tornasse si riducevano quasi a zero. Ma Aomame non lo credeva. La naturalezza che traspariva dai vestiti e dall'atteggiamento di Tengo, seduto in cima allo scivolo, le avevano dato l'impressione che fosse uscito per una breve passeggiata notturna nelle vicinanze di casa e che, trovandosi a passare vicino al parco, fosse entrato e salito sullo scivolo. Forse per guardare la luna. Se l'ipotesi era giusta, abitava a una distanza raggiungibile a piedi.

A Kōenji non era facile trovare posti dai quali si potesse guardare la luna. Il terreno era generalmente pianeggiante e gli edifici alti erano pochissimi. Lo scivolo offriva un'ottima postazione per contemplarla. Tranquilla, e al riparo dai seccatori. Se avesse avuto ancora voglia di guardare la luna, sicuramente Tengo ci sarebbe tornato. Aomame lo sentiva. Ma subito dopo pensava: «Non è detto che vada tutto cosí bene. Magari nel frattempo avrà trovato un altro posto, per esempio il terrazzo di uno dei rari palazzi alti, da cui la luna si può osservare meglio».

Aomame scosse brevemente, e con decisione, la testa. «Non devo fantasticare troppo. Non ho altra scelta se non credere che prima o poi tornerà qui, e aspettarlo. Non posso allontanarmi, questo parco è l'unico punto di contatto che ho con lui».


Aomame non aveva premuto il grilletto.

Era l'inizio di settembre. Lei, ferma in una piazzola d'emergenza sulla tangenziale n. 3 paralizzata dal traffico, si era ficcata in bocca la canna della Heckler & Koch nera. Indossava un tailleur di Junko Shimada e ai piedi calzava scarpe con i tacchi alti di Charles Jourdan.

Dagli abitacoli delle auto le persone la osservavano senza avere la minima idea di cosa stesse accadendo: una signora di mezza età su una Mercedes coupé color argento, uomini abbronzati la scrutavano dai sedili dei loro camion. Aomame aveva intenzione di farsi saltare il cervello sotto gli occhi di tutti con un proiettile da 9 mm. Non aveva altra scelta. Per uscire dal 1Q84 doveva porre fine alla propria vita. In cambio, quella di Tengo sarebbe stata salva. Questa, almeno, era stata la promessa del Leader a patto che lei gli donasse la morte.

L'idea di morire non la spaventava particolarmente. «Forse è stato stabilito nel momento stesso in cui sono stata trascinata in questo 1Q84. Non ho fatto altro che seguire una trama. Che senso avrebbe continuare a vivere da sola in un mondo dalla logica incomprensibile, che ha nel cielo due lune, una grande e una piccola, e dove degli esseri chiamati Little People governano il destino delle persone?»

Ma alla fine non aveva premuto il grilletto. All'ultimo momento lasciò andare la forza che aveva concentrato nell'indice della mano destra ed estrasse la canna della pistola dalla bocca. E, come chi è appena risalito a galla dal profondo del mare, inspirò ed espirò a pieni polmoni. Quasi volesse cambiare tutta l'aria che aveva dentro.

Aomame aveva rinunciato alla morte perché aveva udito una voce lontana. In quel momento lei si trovava in uno spazio senza suoni. Nell'attimo in cui aveva convogliato la forza sul dito che doveva premere il grilletto, ogni rumore intorno cessò di colpo. Era immersa nel silenzio, come nel fondo di una piscina. Lí la morte non appariva né cupa né spaventosa. Era qualcosa di naturale, come il liquido amniotico per il feto, e persino di ovvio. «Non è cosí male», pensò. E quasi le venne da sorridere. Fu allora che sentí la voce.

Le sembrò provenire da un luogo lontano, da un tempo remoto. Non era una voce che conosceva. Aveva percorso un cammino tortuoso, e per questo aveva perso il timbro e le caratteristiche originali. Restava solo un'eco vuota, priva di significato. Ciò nonostante, Aomame riuscí a percepire un calore venato di nostalgia. Le sembrò che quella voce chiamasse il suo nome.

Aomame allentò la forza dal dito che teneva il grilletto, socchiuse gli occhi e tese le orecchie. Si sforzò di distinguere le parole pronunciate dalla voce. Ma l'unica che riconosceva, o che le sembrava di riconoscere, era il suo nome. A parte quello, non c'era che una specie di ululato, come il vento che attraversa il vuoto. Poi la voce si allontanò, perdendo di nuovo ogni significato, riassorbita nello spazio senza suoni. Il vuoto che l'aveva avvolta si dissolse, e come se un tappo fosse stato tolto, tutti i rumori del mondo esterno ritornarono di colpo. Allora Aomame si accorse che la sua determinazione a morire era scomparsa.

«Chissà, forse potrei vedere di nuovo Tengo in quel piccolo parco, - pensò. - Posso sempre morire dopo. Prima voglio fare un altro tentativo. Vivere - non morire - significa anche la possibilità di incontrare Tengo».

Voglio vivere, pensò con chiarezza. Era una strana sensazione. Una sensazione che non ricordava di aver mai provato.

Disarmò il cane, mise la sicura e ripose la pistola automatica nella borsa. Poi raddrizzò la schiena, indossò gli occhiali da sole e si incamminò in direzione contraria al traffico, tornando al taxi che l'aveva accompagnata. Gli altri la guardavano attoniti mentre lei, sopra i tacchi a spillo, avanzava a grandi passi sulla tangenziale. Non ebbe bisogno di camminare a lungo. Il taxi si era spostato molto lentamente nell'ingorgo ed era arrivato vicino a dove si trovava lei.

Aomame bussò al finestrino dal lato dell'autista, che subito lo abbassò.

- Mi fa risalire?

Il tassista esitò.

- Quella cosa che si è infilata in bocca sembrava una pistola, - disse.

- Sí.

- È vera?

- Ma sta scherzando? - disse lei, storcendo la bocca.

L'autista apri la portiera e lei salí in auto. Si tolse la borsa dalla spalla, l'appoggiò accanto a sé sul sedile e con un fazzoletto si pulí le labbra. Le era rimasto in bocca il sapore del metallo e dell'olio lubrificante.

- E la scala di emergenza, l'ha trovata? - chiese l'uomo.

Aomame scosse la testa.

- Come pensavo. Non ne ho mai sentito parlare, - disse l'autista. - Allora, la porto all'uscita di Ikejiri?

- Sí, per favore, - rispose Aomame.

L'autista abbassò il finestrino, sporse fuori il braccio e si spostò sulla corsia di destra, davanti a un grosso autobus. Il tassametro indicava la stessa cifra di quando lei era scesa.

Aomame si appoggiò al sedile e, respirando lentamente, lanciò un'occhiata all'insegna pubblicitaria, ormai familiare, della Esso. La tigre, di profilo, teneva il tubo della benzina nella zampa e sorrideva. «Metti un tigre nel motore», recitava lo slogan.

- Metti un tigre nel motore, - bisbigliò Aomame.

- Come dice? - chiese l'autista, guardandola attraverso lo specchietto retrovisore.

- Niente. Parlavo da sola.

«Proviamo a vivere ancora, - pensò. - Vediamo cosa succede. Per morire, sono sempre in tempo. Forse».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 164

13. Ushikawa

Tornare al punto di partenza vuol dire questo?


Ushikawa calamitava decisamente gli sguardi su di sé. Era poco adatto per fare appostamenti o pedinare le persone. Per quanto tentasse di nascondersi tra la folla, spiccava come una scolopendra gigante nello yogurt.

In famiglia nessuno tra i genitori, i due fratelli e la sorella, era come lui. Il padre aveva un grande studio medico, nel quale la madre teneva la contabilità. I fratelli, dopo una brillante carriera scolastica, si erano laureati in medicina. Il maggiore esercitava la professione in un ospedale di Tōkyō e il minore era un ricercatore universitario. Quando il padre sarebbe andato in pensione, il piú grande avrebbe preso il suo posto nello studio medico, a Urawa. Entrambi erano sposati e avevano un figlio. La sorella, invece, si era laureata negli Stati Uniti e una volta tornata in Giappone aveva cominciato a lavorare come interprete. Aveva circa trentacinque anni e non era ancora sposata. Tutti loro, oltre a essere magri e alti, vantavano un bell'ovale e tratti regolari.

In famiglia, da ogni punto di vista, e soprattutto per quanto riguardava l'aspetto fisico, Ushikawa era la pecora nera. Era basso, con la testa grossa e deforme, e i capelli ricci e scomposti. Le gambe erano corte e curve come cetrioli. Gli occhi sporgenti facevano pensare che vivesse in un perpetuo stato di sorpresa, e intorno al collo aveva rotoli di grasso. Le sopracciglia, folte e grandi, sembravano due grossi bruchi desiderosi di unirsi: sarebbe bastato pochissimo perché si congiungessero in un'unica linea. A scuola, nell'insieme, aveva ottimi voti, ma in alcune materie il suo rendimento era un po' discontinuo. Soprattutto, era un disastro negli sport.

In quella famiglia ricca e compiaciuta di sé e dei suoi privilegi, Ushikawa era sempre stato un «corpo estraneo», la stonatura che rompeva l'armonia e creava una dissonanza. Bastava guardare le foto di famiglia per capire quanto fosse fuori posto: un intruso che si era infilato tra loro e che per sbaglio era finito negli scatti.

In famiglia non riuscivano a spiegarsi da dove fosse piovuto quell'essere tanto diverso nell'aspetto. Eppure, non c'era dubbio che fosse nato proprio dal grembo della madre, la quale ricordava ancora i dolori atroci delle doglie. Di sicuro, non era stato lasciato in un cestino davanti a un portone. Poi, all'improvviso, qualcuno si ricordò di un parente, dal ramo paterno, con un gran testone deforme. Era un cugino del nonno di Ushikawa. Durante la guerra aveva lavorato in una fabbrica di metalli nella circoscrizione di Kōtō, ma nella primavera del 1945 era morto sotto i bombardamenti di Tōkyō. Suo padre non lo aveva mai conosciuto, ma in un vecchio album era conservata una sua foto. Quando in famiglia la videro ci fu un coro unanime: «Ecco!» I due si somigliavano incredibilmente, erano talmente identici da far pensare che Ushikawa ne fosse la reincarnazione. Forse, gli stessi fattori genetici che avevano determinato l'aspetto dello zio, per qualche ragione, erano ricomparsi in lui.

Se non fosse stato per la sua esistenza, gli Ushikawa di Urawa, in provincia di Saitama, sarebbero stati, sia per l'aspetto sia per le credenziali accademiche e sociali, assolutamente inappuntabili. Il tipo di famiglia perfetta e fotogenica che chiunque avrebbe invidiato. Ma la presenza di Ushikawa provocava nelle persone espressioni di perplessità e sconcerto. Pensavano che la dea della bellezza fosse inciampata, magari per uno sgambetto, e che in quella famiglia si fosse insinuato un difetto. O meglio, i familiari di Ushikawa erano convinti che questo fosse il pensiero degli altri. Perciò tentavano con tutti i mezzi di non mostrarlo in pubblico, e se proprio erano costretti, facevano il possibile perché non si notasse, ma era una partita persa in partenza.

Ushikawa, però, non soffriva troppo di questa situazione. Non si sentiva né triste né solo. Lui era il primo a non volersi esporre, anzi era grato che i suoi lo tenessero nell'ombra. Non gli dispiaceva nemmeno che i fratelli e la sorella tendessero a ignorarne l'esistenza. Tutto sommato, anche il suo affetto nei loro confronti era minimo. Loro erano belli, bravissimi negli studi e, come se non bastasse, brillanti negli sport e pieni di amici. Ma ai suoi occhi erano individui privi di spessore, insignificanti. I loro pensieri erano piatti, avevano vedute ristrette, mancavano di ogni immaginazione e si preoccupavano soltanto dell'opinione altrui. Soprattutto, non erano dotati di quella sana capacità di dubitare, necessaria per sviluppare una vera saggezza.

Il padre rientrava nella categoria dei medici di successo della regione, ma era una persona mortalmente noiosa. Al contrario del leggendario re che mutava in oro ciò che toccava, lui trasformava in insulsi granelli di sabbia ogni cosa di cui parlava. Tuttavia, essendo un uomo di poche parole, riusciva, anche se in modo inconsapevole, a nascondere quanto in realtà fosse vacuo e tedioso. La madre, invece, era una donna loquace e irrimediabilmente gretta. Attaccata ai soldi, capricciosa, egoista, attratta da tutto ciò che era appariscente, non perdeva la minima occasione per sparlare degli altri con la sua voce stridula. Il fratello maggiore aveva ereditato il carattere del padre, il minore quello della madre. La sorella, anche se aveva una natura piú autonoma, non sapeva cosa fosse il senso di responsabilità ed era priva di gentilezza d'animo. Si preoccupava soltanto dei propri interessi. I genitori erano stati troppo indulgenti con lei, e avevano finito per viziarla.

Per queste ragioni Ushikawa aveva trascorso la maggior parte dell'infanzia da solo. Quando tornava da scuola si chiudeva in camera e si immergeva nella lettura. A parte il cane non aveva amici, quindi gli mancavano le occasioni per parlare di ciò che imparava o per fare conversazione, ma sapeva ragionare in modo logico e chiaro. Inoltre, era consapevole di possedere ottime doti di eloquenza e, per conto proprio, si era dedicato con pazienza a svilupparle. Per esempio, stabiliva un tema e animava una discussione attorno a esso interpretando un doppio ruolo. In uno dei due sosteneva una tesi con convinzione, nell'altro la criticava con altrettanto vigore. Era capace di identificarsi con lo stesso piglio — e, in un certo senso, con la stessa onestà — in entrambe le posizioni, e riusciva a caldeggiarle con trasporto. Attraverso questo esercizio, senza neanche accorgersene, imparò a mettersi in discussione e capí che gran parte di quelle che venivano considerate verità indiscusse, non erano altro che punti di vista relativi. Apprese che la soggettività e l'oggettività non sono distinte cosí nettamente come molti credono, e che se la linea di confine tra le due non è chiara fin dall'inizio, spostarla intenzionalmente non è poi tanto difficile.

Per rendere la logica e la retorica piú chiare ed efficaci, si riempiva la mente con le conoscenze piú disparate, che fossero di valore sicuro o dubbio, condivisibili o meno. Non era interessato alla cultura in senso generale, ma alle informazioni concrete di cui poteva verificare direttamente con mano la forma e il peso.

La sua grossa testa deforme divenne soprattutto un prezioso contenitore di dati, brutto a vedersi ma di grande utilità. Acquistò un'erudizione superiore a quella di qualunque suo coetaneo, e se avesse voluto, avrebbe potuto battere chiunque in un duello verbale. Non solo i fratelli e i colleghi, ma anche gli insegnanti e i genitori. Ushikawa, però, tentava, per quanto possibile, di non esibire le sue capacità di fronte agli altri. Non voleva attirare l'attenzione su di sé, anzi, era l'ultima cosa che desiderava. Conoscenza e abilità erano semplici strumenti, non accessori di cui fare sfoggio.

Ushikawa si vedeva come un animale notturno che attende, acquattato nel buio della foresta, l'avvicinarsi della preda. Aspettava paziente l'occasione giusta per sferrare l'attacco senza esitazioni. Fino a quel momento, doveva occultare la sua presenza. Era fondamentale rendersi invisibile per poi cogliere di sorpresa l'avversario. Faceva questi ragionamenti fin da quando era alle elementari. Già allora non si fidava di nessuno ed evitava di esprimere i suoi sentimenti.

A volte provava a immaginare come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto dei connotati normali. Non necessariamente belli, gli sarebbe bastato un aspetto comune, non cosí brutto da far girare la gente per strada. «Se fossi nato con un corpo diverso, come sarebbe stata la mia vita?» Si chiedeva. Ma tutto questo, per lui, andava al di là dell'immaginabile. Ushikawa era talmente Ushikawa che non c'era spazio per le ipotesi. Era grazie alla sua testa grossa e deforme, ai suoi occhi sporgenti e alle gambe corte e arcuate che era diventato ciò che era: un ragazzo autocritico, erudito e silenzioso, nonostante la sua eloquenza.

Con il passare degli anni, quel brutto ragazzo si era trasformato in un brutto giovanotto; poi, senza nemmeno accorgersene, in un brutto signore di mezza età. Sempre, in qualunque fase della sua vita, le persone si erano voltate a guardarlo quando lo incrociavano per strada. I bambini, addirittura, lo fissavano in viso senza nessun ritegno. Ushikawa, a volte, si consolava pensando che quando sarebbe diventato un brutto vecchio non avrebbe piú attirato l'attenzione. I vecchi, di norma, sono poco avvenenti, e a quell'età la bruttezza individuale non dovrebbe spiccare come quando si è giovani. Ma era difficile dirlo prima del tempo. Chissà, magari sarebbe diventato un insuperabile esempio di bruttezza senile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 178

14. Aomame

Questa mia piccola cosa


Aomame viveva ormai in uno stato di confusione e incertezza. Nel 1Q84, dove la logica e le conoscenze consuete non erano piú valide, era incapace di prevedere cosa ne sarebbe stato di lei. Se non altro, però, pensava che sarebbe riuscita a sopravvivere alcuni mesi e a dare alla luce il bambino. Naturalmente era solo un presentimento; ma di un tipo speciale, che rasentava la certezza. Le sembrava che tutto procedesse sulla base della premessa che avrebbe fatto nascere suo figlio. Lo sentiva.

Aveva ancora in mente le ultime parole del Leader del Sakigake: «Al varco l'attendono prove difficili. Quando le avrà superate, probabilmente vedrà le cose in modo chiaro».

«Lui sapeva qualcosa. Qualcosa di molto importante, - pensò Aomame. - E ha cercato di comunicarmelo con parole ambigue, difficili da interpretare. Una prova difficile potrei averla superata quando mi sono spinta sulla soglia della morte. Quando, davanti all'insegna della Esso con la pistola in mano, ero decisa a togliermi la vita, ma invece di morire sono tornata indietro. E ho scoperto di essere incinta. Forse anche questo era stabilito dall'inizio».

Le prime notti di dicembre furono segnate da un forte vento. Le foglie secche dell'albero di keyaki colpivano la copertura di plastica del balcone con un rumore secco, tagliente. Il vento freddo soffiava tra i rami nudi come un'ammonizione. Anche il verso dei corvi che dialogavano tra loro si era fatto piú duro e affilato. Era arrivato l'inverno.


Con il passare dei giorni, il pensiero che ciò che le stava crescendo nell'utero fosse il figlio di Tengo si faceva sempre piú forte, e a un certo punto si consolidò in certezza. Non disponeva ancora di elementi sufficienti per convincere un'altra persona da un punto di vista logico, però poteva spiegarlo chiaramente a se stessa. A lei era piú che evidente.

Se sono rimasta incinta senza un rapporto sessuale, chi altro può essere il padre se non Tengo?

Da novembre aveva cominciato a prendere peso. Eppure, anche se non usciva di casa, faceva i suoi esercizi ogni giorno e stava attenta a mangiare con moderazione. Da quando aveva vent'anni il suo peso non aveva mai superato i cinquantadue chili, ma da circa un mese la bilancia ne aveva segnati cinquantaquattro, e da allora non erano piú diminuiti. Aomame aveva l'impressione che anche il suo viso si fosse arrotondato. «Evidentemente questa piccola cosa ha bisogno che il corpo della madre cominci a ingrassare», pensò.

La sera, in compagnia della sua piccola cosa, Aomame continuava a guardare il parco. I suoi occhi cercavano senza sosta la sagoma massiccia di quel giovane uomo in cima allo scivolo. Osservando le due lune sospese l'una accanto all'altra nel cielo d'inizio inverno, si accarezzava la pancia sopra la coperta che le avvolgeva i fianchi. Ogni tanto, senza una ragione apparente, all'improvviso i suoi occhi si riempivano di lacrime che le rigavano le guance e cadevano sulla coperta. Forse per la solitudine, forse per l'ansia. Magari essere incinta la rendeva piú sensibile. Oppure, molto semplicemente, quel vento freddo le stimolava le ghiandole lacrimali. In ogni caso Aomame lasciava che fosse l'aria ad asciugarle il viso.

Dopo poco le lacrime interrompevano il proprio flusso e lei tornava alla sua vigilanza solitaria. «No, dopotutto non mi sento cosí sola, - pensava. - Ho questa piccola cosa. Siamo in due a guardare le lune e ad aspettare che Tengo ci raggiunga». Ogni tanto prendeva il binocolo e metteva a fuoco la cima deserta dello scivolo. A volte prendeva in mano la pistola automatica e ne verificava il peso e la sensazione sulla pelle. «Proteggere me stessa, cercare Tengo, nutrire questa piccola cosa: ecco i miei compiti attuali».


Una sera, mentre guardava il parco sferzato dal vento freddo, Aomame si accorse di credere in Dio. Fu una scoperta improvvisa, come se avesse saggiato con il piede un terreno solido sotto il fango. Una sensazione inspiegabile, una rivelazione inattesa. Per quanto ricordava, aveva sempre avuto in odio l'idea stessa di Dio. Piú precisamente, aveva sviluppato un rifiuto per le persone e il sistema che si frapponevano tra lei e Dio. Per molto tempo aveva identificato quelle persone e quel sistema con Dio. Odiare loro aveva significato odiare Dio.

Da quando era nata, loro l'avevano circondata. Usando il nome di Dio l'avevano controllata, dominata, oppressa. L'avevano derubata del tempo e della libertà, legando il suo cuore con catene pesanti. Predicavano la bontà di Dio, ma ne esaltavano doppiamente l'ira e l'intolleranza. All'età di undici anni Aomame aveva preso la sua decisione, staccandosi da quel mondo. Ma per farlo aveva dovuto sacrificare molte cose.

«Se Dio non esistesse, la mia vita sarebbe molto piú luminosa, naturale e ricca, - pensava spesso. - Invece di essere tormentata da rabbia e paura, avrei potuto accumulare tanti bellissimi ricordi, come accade per tutte le bambine. E la mia vita, adesso, sarebbe piú tranquilla, piena».

Tuttavia in quel preciso istante, mentre da una fessura del pannello di plastica guardava il parco deserto e con una mano si sfiorava la pancia, non poteva fare a meno di riconoscere che nella parte piú profonda di sé credeva in Dio. Ogni volta che recitava in modo automatico la preghiera, o quando congiungeva le mani, superando i confini della sua stessa mente, credeva in Dio. Era una sensazione che la penetrava fino al midollo, che non poteva scacciare con la logica o con il sentimento, né tanto meno cancellare con l'odio o la rabbia.

«Ma questo non è il loro Dio, - pensò. - È il mio. Ci sono arrivata sacrificando la mia vita, subendo ferite nella carne, lasciando che mi scorticassero, mi succhiassero il sangue, mi strappassero le unghie, mi rubassero il tempo, la speranza, i ricordi. Non è un Dio con una forma e un aspetto. Non indossa alcuna tunica bianca e non ha, sul viso, nessuna barba. Non impone dottrine, libri sacri, regole. È un Dio che non premia e non punisce. Non dà e non toglie. Non esiste un paradiso da guadagnare né un inferno in cui cadere. Eppure, con il caldo o con il freddo, Dio è sempre presente».

A volte Aomame ricordava le parole pronunciate dal Leader poco prima di morire. Non poteva dimenticare quella sua robusta voce da baritono. Come non poteva levarsi dalla mente la sensazione dell'ago che affondava nella sua nuca.


«Dove c'è luce, deve esserci ombra, e dove c'è ombra, deve esserci luce. Non esiste ombra senza luce, né luce senza ombra. Non so se le creature che chiamiamo Little People siano il bene o il male. In un certo senso è un problema che supera la nostra comprensione e le nostre definizioni. Noi viviamo insieme a loro da tempo immemorabile. Da quando la coscienza degli uomini era ancora agli albori».


Dio e i Little People erano esseri in opposizione, o facce diverse di una stessa realtà?

Aomame non ne aveva idea. Sapeva soltanto che doveva proteggere la piccola cosa dentro di sé, e che per farlo aveva bisogno di credere in Dio. O di riconoscere che credeva in Dio.

Quindi si mise a riflettere. Dio non ha forma, eppure può assumerne una qualsiasi. L'immagine che lei visualizzava era quella di una Mercedes Benz coupé aerodinamica. Un'auto nuova fiammante, appena consegnata dal rivenditore, dalla quale scendeva un'elegante signora di mezza età. In piena tangenziale, si toglieva il suo bellissimo spolverino primaverile e lo offriva ad Aomame nuda, proteggendola dal vento freddo e dagli sguardi indiscreti degli uomini. Poi, senza dire una parola, risaliva nella sua coupé color argento. Lei sapeva che Aomame custodiva una creatura dentro di sé, sapeva che doveva proteggerla.


Aomame fece un altro sogno. È imprigionata in una stanza bianca, piccola e a forma di cubo, senza finestre e con una porta. Lei giace supina su un letto austero e disadorno. La lampada che pende dal soffitto illumina la sua pancia gonfia simile a una montagna. Lei non la sente come una parte di sé, ma è sicuramente un'estensione della sua carne. Il momento del parto è ormai prossimo.

Il Rasato e Coda di cavallo sorvegliano la stanza. I due sono determinati a non commettere un secondo errore. Hanno già sbagliato una volta, ora devono recuperare il terreno perduto. Hanno il compito di non far uscire Aomame dalla stanza e di non permettere a nessuno di entrare. Aspettano con ansia la nascita di quella piccola cosa. È evidente la loro intenzione di strapparla ad Aomame non appena sarà nata.

Aomame tenta di urlare. Cerca disperatamente di chiamare aiuto, ma la stanza è costruita con materiali speciali. Le pareti, il pavimento e il soffitto assorbono istantaneamente ogni suono. Lei stessa non riesce a sentire le proprie grida. Spera che la signora della Mercedes coupé arrivi e la salvi. Lei e quella piccola cosa. Ma le pareti della stanza bianca risucchiano la sua voce.

Quella piccola cosa assorbe il suo nutrimento dal cordone ombelicale e diventa sempre piú grande. Scalcia contro le pareti dell'utero per fuggire da quella tiepida oscurità. Cerca la luce e la libertà.

Accanto alla porta è seduto Coda di cavallo, il piú alto dei due uomini. Ha le mani sulle ginocchia e fissa un punto nell'aria, forse una nuvoletta condensata. Il Rasato è in piedi accanto al letto. Indossano entrambi, come l'altra volta, abiti scuri. Il Rasato, ogni tanto, alza il braccio e guarda l'orologio. Sembra uno che alla stazione attende l'arrivo di un treno importante.

Aomame non può muovere le braccia e le gambe. Non è legata da nessuna corda, tuttavia è bloccata. Non ha sensibilità nelle dita. Ha il presentimento che le doglie stiano per iniziare. Il treno fatale si sta avvicinando alla stazione in perfetto orario. Lei riesce a sentire l'impercettibile vibrazione delle rotaie.

A quel punto si sveglia.

Aomame fece una doccia per eliminare il sudore sgradevole e indossò degli abiti puliti. Quelli bagnati li mise in lavatrice. Odiava quel sogno, ma suo malgrado tornava spesso. Alcuni dettagli nella trama variavano, ma la scena e la conclusione erano sempre le stesse. La stanza bianca a forma di cubo, le doglie che si avvicinavano. I due guardiani nei loro anonimi abiti scuri.

Loro sapevano che lei aveva quella piccola cosa dentro di sé. O presto lo avrebbero saputo. Aomame era pronta. Se necessario, avrebbe scaricato sul Rasato e Coda di cavallo tutti i proiettili da 9 mm senza un attimo di esitazione. Il Dio che la proteggeva, a volte, era sanguinario.


Si senti bussare alla porta. Aomame era seduta su uno sgabello in cucina, e nella mano destra impugnava la pistola senza sicura. Fuori, fin dal mattino, cadeva una pioggia fredda. Il suo odore invernale avvolgeva il mondo.

- Signorina Takai, buongiorno, - disse un uomo sul pianerottolo, smettendo di bussare. - Sono sempre io, l'esattore della NHK. Mi dispiace disturbarla, ma sono venuto di nuovo per riscuotere il canone. Signorina Takai, è lí dentro, vero?

Aomame, guardando verso la porta, senza emettere alcun suono disse:

«Abbiamo telefonato alla NHK. Lei è un impostore, uno che finge di essere un esattore. Chi è? Cosa vuole?»

- Le persone devono pagare per quello che hanno ricevuto. È una regola basilare della società. Lei ha usufruito dei programmi televisivi, quindi deve pagare. Ricevere qualcosa senza dare nulla in cambio non è giusto. Equivale a un furto.

La sua voce risuonava nel corridoio. Sebbene roca, arrivava dappertutto.

- Non sono spinto da sentimenti, personali. Non ce l'ho con lei e non ho nessuna voglia di punirla. è solo che non sopporto le ingiustizie. Quando si prende, si paga. Signorina Takai, finché non aprirà continuerò a venire qui per bussare alla sua porta. Non penso che le faccia piacere. Mi creda, non sono una persona irragionevole. Se mi darà l'occasione di discutere, vedrà che troveremo una soluzione. Signorina Takai, sia gentile e apra la porta.

Continuò a bussare ancora per un po'.

Aomame strinse la pistola con entrambe le mani. «Quest'uomo sa che sono incinta, - pensò. Era leggermente sudata sotto le ascelle e sulla punta del naso. - Qualunque cosa accada, non aprirò. Se prova a forzare la serratura con una chiave, un attrezzo o in qualsiasi altro modo, che sia un esattore della NHK o un imbroglione, gli scaricherò l'intero caricatore nella pancia».

Ma non sarebbe successo. Aomame lo sapeva. L'uomo non poteva aprire la porta. Se non lo faceva lei dall'interno, era inespugnabile. Forse era proprio questo a irritarlo e a renderlo cosí loquace. «Con tutte quelle parole tenta soltanto di farmi saltare i nervi».

Dopo una decina di minuti l'uomo se ne andò, ma non prima di averla minacciata, derisa, blandita, di nuovo violentemente insultata, annunciandole che sarebbe tornato ancora, con quel tono di voce altissimo che rimbombava in tutto il piano.

- Non mi sfuggirà, signorina Takai. Finché utilizzerà le nostre onde elettromagnetiche, continuerò a farle visita. Sono uno che non si arrende cosí facilmente. È il mio carattere. La saluto, a presto!

Aomame non senti il rumore dei suoi passi, ma dallo spioncino verificò che l'uomo non era piú davanti alla porta. Rimise la sicura alla pistola e andò in bagno a lavarsi la faccia. Aveva la camicia inzuppata di sudore sotto le ascelle. Quando la tolse per cambiarla, si mise nuda davanti allo specchio. La pancia non era ancora troppo gonfia, nessuno l'avrebbe notata. Ma al suo interno custodiva un segreto importante.

| << |  <  |