Copertina
Autore Haruki Murakami
Titolo After Dark
EdizioneEinaudi, Torino, 2008, Supercoralli , pag. 180, cop.ril.sov., dim. 14,5x22.2x1,8 cm , Isbn 978-88-06-17842-0
OriginaleAfutadaku [2004]
TraduttoreAntonietta Pastore
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa giapponese
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Pagina 3

Capitolo primo


È una metropoli quella che abbiamo sotto gli occhi.

La vediamo attraverso lo sguardo di un uccello notturno che vola alto nel cielo. Nel nostro sconfinato campo visivo, appare come un gigantesco animale. O un confuso agglomerato, composto da tanti organi avvinghiati l'uno all'altro. Un'infinità di arterie si protendono fino alle estremità di un corpo inafferrabile, vi fanno circolare il sangue e ne rigenerano di continuo le cellule. Trasmettono nuove informazioni, e raccolgono quelle vecchie. Comunicano nuovi bisogni, e raccolgono quelli vecchi. Portano nuove contraddizioni, e raccolgono quelle vecchie. Al ritmo di queste pulsazioni, il corpo si accende in piú punti, si infiamma, si contorce. La mezzanotte è vicina, il metabolismo di base per sostenere la vita dell'organismo, che ha appena superato la fase culminante della sua attività, continua con vigore inalterato. Un gemito, quasi un accompagnamento in sottofondo, si leva dalla città. Un gemito monotono, privo di alti e bassi, eppure denso di presagi.

Il nostro sguardo, scelta un'area dove la luminosità è piú intensa che altrove, la mette a fuoco. Si abbassa lentamente verso quel punto. Un mare di luci al neon di mille colori. È un quartiere ad alta concentrazione di bar, ristoranti, night club. I giganteschi schermi digitali installati sulla facciata dei palazzi si spengono sul fare della notte, ma gli altoparlanti davanti ai locali continuano a emettere a tutto volume musica hip-hop dai bassi enfatizzati. Un vasto game center gremito di giovani. Assordanti suoni elettronici. Un gruppo di studenti di ritorno da una cena di classe. Delle teenager dai capelli tinti di biondo, minigonne che mettono in mostra robuste gambe nude. Impiegati in giacca e cravatta che si affrettano ad attraversare un incrocio affollato per non perdere l'ultimo treno. Nonostante l'ora tarda, davanti ai karaoke gli strilloni esortano i passanti a entrare con invariato entusiasmo. Una vistosa monovolume nera percorre lentamente le strade come se volesse valutarne l'atmosfera. I vetri oscurati da una pellicola nera le danno l'aspetto di un animale dotato di pelle e organi speciali, un animale che vive negli abissi marini. Una coppia di giovani poliziotti dall'espressione molto tesa sta pattugliando le stesse strade, ma quasi nessuno presta loro attenzione. Il quartiere a quest'ora funziona secondo principi propri. Siamo alla fine dell'autunno. Non c'è vento, però l'aria è fredda. Fra poco sarà un giorno nuovo.


Siamo all'interno di una caffetteria della catena Denny's.

Un'illuminazione banale ma sufficiente, un arredamento e un vasellame insignificanti, una planimetria studiata con precisione fin nei minimi dettagli da specialisti di marketing, in sottofondo una musica innocua a basso volume, camerieri scrupolosamente addestrati ad accogliere i clienti con una cortesia da manuale: «Prego, benvenuti al Denny's». Il locale è stato realizzato in ogni sua parte con elementi anonimi e interscambiabili. In questo momento è quasi pieno.

Gettiamo un'occhiata intorno, poi fermiamo lo sguardo su una ragazza seduta vicino alla finestra. Perché proprio lei? Perché non un'altra? Non lo sappiamo. Eppure per qualche motivo la nostra attenzione è attirata da quella ragazza... cosí, è una cosa che ci viene spontanea. Seduta a un tavolo per quattro persone, sta leggendo un libro. Indossa una felpa grigia col cappuccio, dei jeans, e ai piedi ha delle scarpe da ginnastica gialle scolorite da innumerevoli lavaggi. Ha appeso allo schienale della sedia accanto alla sua un giubbotto, piuttosto malandato anche quello, decorato con il logo di un'università. Quanto all'età, probabilmente è una studentessa del primo anno. Non è piú una liceale, ma in qualche modo ha ancora addosso l'atmosfera delle scuole superiori. Capelli corti e neri, lisci. Quasi niente trucco, e nemmeno un gioiello. Un viso piccolo e magro. Occhiali dalla montatura nera. Ogni tanto fra le sopracciglia le si forma una ruga, segno che sta riflettendo.

La ragazza è molto infervorata nella lettura. Non stacca quasi gli occhi dalle pagine di uno spesso libro dalla copertina rigida, di cui non possiamo leggere il titolo perché ha ancora la fodera di carta della libreria. Deve trattarsi di un argomento impegnativo, a giudicare dalla serietà con cui sta leggendo. Sembra divorare il testo riga per riga, senza saltare una parola.

Sul tavolino c'è una tazza di caffè. Un portacenere. Accanto al portacenere è posato un berretto da baseball viola. Con la grossa «B» dei Boston Red Sox. Può darsi che sia un po' grande per la sua testa. Sulla sedia di fianco c'è una sacca di pelle marrone. Dalla forma, si direbbe che sia stata riempita in fretta e furia con le prime cose che capitavano, cosí, alla rinfusa. A intervalli regolari la ragazza porta la tazza alla bocca, ma non sembra trovare il caffè di suo gradimento. Lo beve perché ce l'ha davanti, quasi fosse suo dovere, per cosí dire. A un certo punto le viene voglia di fumarsi una sigaretta: la mette fra le labbra e l'accende con un accendino di plastica. Socchiude gli occhi, soffia con naturalezza il fumo nell'aria, poi posa la sigaretta nel portacenere e prende a massaggiarsi le tempie con le dita, come per prevenire un mal di testa incipiente.

La musica in sottofondo è Go Away Little Girl, di Percy Faith e la sua orchestra. Ovviamente nessuno l'ascolta. Alcuni dei numerosi clienti stanno consumando al Denny's una cena tardiva, altri bevono solo un caffè, ma lei è l'unica donna sola. Ogni tanto solleva gli occhi dal libro e guarda l'orologio che ha al polso. Il tempo però non sembra scorrere alla velocità che vorrebbe. Tuttavia non dà l'impressione di avere un appuntamento con qualcuno. Non si guarda mai attorno, né getta occhiate verso la porta, spera soltanto che il tempo passi un po' piú in fretta. Peccato che all'alba manchi ancora molto, non c'è bisogno di dirlo.

Ora smette di leggere e guarda fuori dalla finestra. Dalla caffetteria al primo piano si ha una buona visuale sulla strada animata e allegra, che malgrado l'ora è ancora illuminata e piena di gente che va e viene. Gente che sa dove andare, altra che non lo sa. Gente che ha un obiettivo, altra che non lo ha. Gente che cerca di fermare il tempo, altra che vorrebbe farlo passare in fretta. Dopo aver osservato un momento lo spettacolo di quella folla incoerente, la ragazza fa un sospiro e torna a posare lo sguardo sul libro. Allunga la mano verso la tazza di caffè. Nel portacenere la sigaretta, da cui ha tirato solo qualche boccata, diventa un lungo cilindro di cenere.


La porta automatica all'ingresso si apre per lasciar entrare un giovane alto e dinoccolato. Indossa un giaccone di pelle nera, dei pantaloni di cotone verde oliva tutti stropicciati, e porta delle scarpe da lavoro marroni. Ha i capelli piuttosto lunghi, un po' arruffati. Può darsi che negli ultimi giorni non abbia avuto modo di lavarli. O che sia riuscito solo pochi minuti fa a emergere da una fitta boscaglia. Oppure per lui avere i capelli in disordine è una condizione naturale e rassicurante. È magro, ma non si può dire che abbia un bel fisico snello, piuttosto dà l'impressione di non nutrirsi a sufficienza. Appeso a una spalla tiene un grosso strumento musicale nel suo fodero nero, uno strumento a fiato. E una sacca sporca. Dentro deve averci stipato spartiti e altra roba poco voluminosa. Sulla guancia destra ha una profonda cicatrice che non passa inosservata. Un taglio breve, fatto probabilmente da qualche sorta di lama. A parte quel taglio, non ha nulla che attiri l'attenzione. Un giovane del tutto ordinario. Fa venire in mente un cane bastardo, buono ma non molto furbo, che abbia smarrito la strada.

Una cameriera gli va incontro e lo guida a un tavolo in fondo. Passano di fianco alla ragazza che sta leggendo. Appena la superano, il giovane sembra rammentarsi di qualcosa, perché si blocca, torna indietro lentamente come in un film che viene riavvolto e si ferma accanto al suo tavolo. Poi piega la testa di lato e la guarda con profondo interesse. Nella sua mente stanno affiorando dei ricordi. Per metterli a fuoco ci vuole un po' di tempo. Si direbbe il tipo di persona che ha sempre bisogno di molto tempo, qualunque cosa faccia.

Avvertendo la sua presenza, la ragazza solleva la testa dal libro, socchiude gli occhi e guarda il giovane in piedi davanti a lei. Deve alzare il viso perché lui è alto. I loro sguardi si incrociano. Il ragazzo le fa un sorriso affabile. Per farle capire che non ha intenzioni ostili.

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- È davvero questa bellezza mozzafiato, tua sorella? Mari annuisce e beve un sorso d'acqua.

- È dalle medie che fa la modella per delle riviste. Sa, quelle riviste femminili per teenager.

- Mhn... - fa Kaoru. - Certo che dev'essere dura, avere per sorella maggiore un tale fenomeno. A parte questa considerazione, però, come mai una ragazza come te se ne va in giro da sola in piena notte in un posto del genere?

- Una come me?

- Sí, voglio dire... basta guardarti per capire che sei una ragazza perbene.

- Non avevo voglia di tornare a casa.

- Hai litigato con i tuoi?

Mari scuote la testa.

- No, non è quello. Volevo semplicemente starmene per i fatti miei in un posto che non fosse casa mia. Fino al mattino.

- Ti è già capitato altre volte?

Mari non risponde.

- Forse mi occupo di quel che non mi riguarda, ma se devo dire la verità, questo non è un quartiere dove le ragazze perbene possano aspettare l'alba da sole. Ci sono dei tipi pericolosi, in giro. Me la sono vista brutta piú di una volta persino io. Dalla partenza dell'ultimo treno fino all'arrivo del primo, questo posto diventa molto diverso da come lo vedi di giorno.

Mari prende il berretto dei Red Sox che ha posato sul banco, e per un po' giocherella con la falda. Nella sua testa sta rimuginando su qualche pensiero. Poi però lo scaccia.

- Scusi, potremmo parlare di qualcos'altro? - chiede in tono gentile, ma fermo.

Kaoru prende una manciata di noccioline e se le infila in bocca tutte insieme.

- Certo, come no? Si', parliamo di qualcos'altro. Mari tira fuori dalla tasca del giubbotto una Camel col filtro e l'accende col proprio accendino.

- Ehi, tu fumi? - fa Kaoru stupita.

- Qualche volta.

- A essere sincera, non ti si addice per niente. Mari diventa rossa, poi fa un sorriso un po' forzato.

- Posso averne una? - chiede Kaoru.

- Prego.

Kaoru prende una Camel e se l'accende con l'accendino di Mari. Ed è un fatto che fuma con tutt'altra disinvoltura.

- Ce l'hai il ragazzo?

Mari scuote piano la testa.

- In questo momento, i ragazzi non mi interessano molto.

- Preferisci le ragazze?

- No, non è quello. Non so bene neanch'io.

Kaoru fuma e intanto ascolta la musica. Ora che è rilassata, il suo viso lascia trasparire una certa fatica.

- Senta, volevo già chiederglielo prima, - fa Mari. - Perché l'albergo si chiama Alphaville?

- Mah, non saprei. L'avrà scelto il capo. I love hotel hanno tutti dei nomi del cavolo. Tanto sono posti dove un uomo e una donna vengono solo per fare quello: basta che ci siano il letto e il bagno, del nome non gliene frega niente a nessuno. Va bene uno qualunque. Perché lo vuoi sapere?

- Perché Alphaville è uno dei miei film preferiti. Un film di Jean-Luc Godard.

- Mai sentito.

- È un vecchio film francese. Degli anni Sessanta.

- Allora il capo l'avrà preso da li. Quando lo vedo glielo chiedo. E cosa significa, Alphaville?

- È il nome di una città immaginaria in un prossimo futuro.

- Ah, è un film di fantascienza? Tipo Guerre stellari?

- No, non è di quel genere. Non è un film d'azione, con effetti speciali... non so spiegarmi bene, ma è un film ideologico. In bianco e nero, con tanti dialoghi, di quelli che danno nei cinema d'arte e d'essai.

- Come, ideologico?

- Tipo, ad Alphaville le persone che piangono vengono arrestate e punite pubblicamente.

- Perché?

- Perché ad Alphaville nessuno deve provare emozioni profonde. Quindi non esistono sentimenti come l'amore. E nemmeno la contraddizione o l'ironia. Tutte le cose vengono regolate usando una formula matematica, secondo uno schema centralizzato.

Kaoru aggrotta la fronte.

- L'ironia? Cosa vuoi dire?

- Osservare noi stessi, o quel che ci appartiene, in maniera obiettiva. Oppure osservare le cose da un punto di vista opposto e contrario, e trovarci qualcosa di ridicolo.

Kaoru riflette un po' sulla spiegazione di Mari.

- Be', non è che mi sia proprio chiaro. Comunque in questa città, Alphaville, il sesso esiste?

- Sí, il sesso esiste.

- Un sesso che non ha bisogno né di amore né di ironia.

- Già.

Kaoru fa una risata sarcastica.

- A pensarci bene, come nome per un love hotel è perfetto.

Nel locale entra un uomo di mezza età dall'aria distinta, mingherlino, che va a sedersi all'estremità del banco. Ordina un cocktail e si mette a parlare a bassa voce col barista. Sembra un cliente abituale. Di quelli che si siedono sempre allo stesso posto e bevono sempre la stessa cosa. Una di quelle persone di cui non si capisce la vera natura, che fanno della metropoli a notte fonda la propria abitazione.

- Allora lei faceva lotta libera femminile? - chiede Mari.

- Sí, l'ho fatta per molto tempo. Ero grande e grossa, e sapevo battermi, cosí già al liceo mi hanno messa tra i giovani talenti, poi ho debuttato, e da quel momento in poi ho sempre vinto. Mi sono tinta i capelli di biondo, questo biondo eccessivo, rasata le sopracciglia, mi sono persino fatta tatuare uno scorpione rosso su una spalla. Qualche volta sono anche andata in televisione. Ho fatto degli incontri a Hong Kong, a Taiwan... Avevo anche un mio piccolo club di tifosi. Tu non la guardi, vero, la lotta libera femminile?

- No, non ho mai visto un incontro.

- Oh, anche quella è un grosso giro di quattrini... comunque mi sono fatta male alla schiena, e all'età di ventinove anni mi sono ritirata. Sai, io ci mettevo l'anima, quando mi battevo, rischiavo il tutto per tutto senza tirarmi mai indietro, e in questo modo prima o poi ti fai male. Per quanto robusta una sia, c'è un limite. Per natura, io non sono capace di risparmiare le energie. Forse sono troppo generosa, ma quando il pubblico urlava, quando lo sentivo andare in delirio, mi esaltavo e davo piú del necessario. Risultato: ancora adesso quando piove mi viene un dolore lancinante alla schiena. Resto completamente bloccata, posso solo sdraiarmi e stare immobile. Sono davvero messa male, sai?

Kaoru ruota la testa sul collo facendo scrocchiare le vertebre.

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Capitolo settimo


Tutto solo, l'uomo lavora di fronte allo schermo del computer. E il cliente che è stato ripreso dalla videocamera dell'Alphaville. Quello che indossava un impermeabile grigio chiaro e ha ritirato la chiave della stanza 404. Sta scrivendo sulla tastiera senza nemmeno guardarla. A una velocità impressionante. Eppure le sue dita riescono a stento a seguire la rapidità del suo pensiero. Tiene le labbra serrate. Per tutto il tempo resta assolutamente impassibile. Il suo viso non mostra né soddisfazione né contrarietà riguardo all'andamento del lavoro. Ha arrotolato le maniche della camicia fino al gomito, sbottonato il colletto, allentato la cravatta. Su un foglio che tiene accanto a sé, quando ne ha bisogno annota dei numeri e dei segni a matita. Una lunga matita color argento con la gomma da cancellare a un'estremità. C'è impresso sopra il nome della ditta, VERITECH. Altre sei matite dello stesso colore sono allineate con ordine su un apposito vassoietto. Tutte lunghe uguali. Tanto appuntite che piú di cosí non si potrebbe.

La stanza è grande. Tutti i colleghi se ne sono andati: nell'ufficio è rimasto solo lui. Da un piccolo stereo cd poggiato sulla scrivania esce il suono né troppo alto né troppo basso di una sonata per pianoforte di Bach. Nell'esecuzione di Ivo Pogorelic. Suite inglese. La stanza è quasi tutta buia, solo il posto dove si trova l'uomo è illuminato da una lampada al neon sul soffitto. È una scena che Edward Hopper avrebbe potuto dipingere col titolo «Solitudine». All'uomo però quella situazione non mette particolare tristezza. Anzi, semmai è contento quando non ha gente intorno. Può concentrarsi senza che nessuno lo disturbi e portare avanti il lavoro ascoltando la musica che gli piace. Un lavoro che gli va a genio. Perché quando vi si concentra, perlomeno in quei momenti, non ha bisogno di arrovellarsi sui problemi reali. Perché a patto di non risparmiare né tempo né fatica, può risolvere ogni dubbio logico o analitico. Mentre ascolta a un livello semiconscio la musica, osserva lo schermo del computer e muove le dita a una velocità che non ha nulla da invidiare a quella di Pogorelic. Non fa gesti inutili. Nella stanza esistono soltanto l'elaborata musica del diciottesimo secolo, lui e il problema tecnico che gli è stato sottoposto.

Ogni tanto però il dolore al dorso della mano destra sembra preoccuparlo, perché fa una pausa, smette di lavorare un momento, apre e chiude il pugno diverse volte e prova a far girare il polso. Si massaggia con la sinistra. Fa un profondo sospiro, getta un'occhiata all'orologio. Il suo viso si acciglia appena appena. A causa di questo dolore alla mano il lavoro procede un po' piú lento del solito.

I suoi vestiti sono puliti, perfettamente in ordine. Non si può dire che abbiano un tocco personale, né che siano portati con eleganza, ma in ogni caso l'uomo sceglie con cura quello che indossa. E non ha cattivo gusto. Si vede subito che sia la camicia che la cravatta sono costate parecchio. Probabilmente sono capi firmati. L'impressione che si ricava dalla sua faccia è che sia un uomo intelligente, e che abbia ricevuto una discreta istruzione. L'orologio che porta al polso della mano sinistra è di ottima marca. Gli occhiali sembrano Armani. Ha mani grandi, dita lunghe, unghie curatissime. E porta una sottile fede nuziale all'anulare. La sua fisionomia non ha nulla di veramente caratteristico, ma osservandone bene l'espressione si può intuire la presenza di una forte volontà. L'uomo dev'essere sulla quarantina, non ha certo una faccia piccola, ma nemmeno appesantita da carne rilassata. Il suo aspetto fisico nel complesso fa venire in mente una stanza ben ordinata. Non si direbbe mai il genere d'uomo che va in un love hotel con una prostituta cinese. E tantomeno sembra capace di un'idiozia come massacrarla di botte e poi scappare portandole via i vestiti. Tuttavia in realtà è quello che ha fatto, e non poteva fare diversamente.

Squilla il telefono, ma lui non solleva la cornetta. Il viso sempre impassibile, continua a lavorare alla stessa velocità. Lascia squillare il telefono senza toccarlo. Nemmeno il suo sguardo vacilla. Dopo quattro squilli, la segreteria telefonica si mette in funzione.

- Sono Shirakawa, in questo momento non posso rispondere al telefono. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, per favore.

Si sente il segnale acustico.

- Pronto? - fa una voce di donna. Una voce bassa, un po' addormentata. - Sono io, se sei li rispondi, per favore...

Senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer, Shirakawa con il telecomando che ha a portata di mano mette lo stereo in posizione di pausa, poi aziona il telefono. L'apparecchio è provvisto di un dispositivo che permette di parlare senza sollevare la cornetta.

- Sono qui, - dice Shirakawa.

- Prima ho chiamato e non c'eri, allora ho pensato che magari stasera tornavi presto, - dice la donna.

- Prima, verso che ora?

- Poco dopo le undici. Ti ho lasciato un messaggio... Shirakawa guarda il telefono. È vero, la lampada rossa lampeggia.

- Scusami. Non me n'ero accorto. Ero concentrato nel lavoro. Poco dopo le undici, hai detto? A quell'ora sono uscito, sono andato a mangiare qualcosa. Poi sono passato allo Starbucks e ho preso un caffè macchiato. Sei stata sveglia tutto questo tempo?

Mentre parla, Shirakawa continua a battere sulla tastiera con entrambe le mani.

- Alle undici e mezza sono andata a dormire, ma ho fatto un sogno strano... poco fa mi sono svegliata, e ho visto che non eri ancora tornato... stasera cos'hai preso?

Shirakawa non capisce bene il senso della domanda. Smette di battere sui tasti e osserva il telefono. Le rughe agli angoli degli occhi per un attimo gli si fanno piú profonde.

- Cos'ho preso?

- Sí, voglio dire, cos'hai mangiato alle undici?

- Ah, cucina cinese. Al solito. Riempie la pancia.

- Era buono?

- No... non direi.

Torna a guardare lo schermo e riprende a battere sui tasti.

- E il lavoro?

- Mhn, complicato... C'è un tale, qui, che ha messo in buca una palla impestata. Se prima che faccia giorno qualcuno non corre ai ripari, domattina non si potranno tenere conferenze in rete.

- E quel «qualcuno», ovviamente, sei di nuovo tu...

- Per l'appunto. Anche perché non vedo nessun altro, qui intorno.

- Pensi di farcela entro domani mattina?

- Certamente. Sono un professionista di prima categoria: riporto il punteggio in pari, a costo di passare una nottata d'inferno. Anche perché se entro domattina non si possono tenere conferenze in rete, c'è il pericolo che si sparga la voce che vogliamo comprare la Microsoft...

- Comprate la Microsoft?

- Sto scherzando, - dice Shirakawa. - Comunque ci vorrà ancora un'ora, poi chiamo un taxi... penso di essere a casa per le quattro e mezza.

- A quell'ora dormirò. Devo alzarmi alle sei e preparare il cestino del pranzo per i bambini.

- Mi sa che quando ti alzi, io sarò profondamente addormentato.

- Già, e quando ti alzi tu, io sarò in ufficio e starò facendo la mia pausa pranzo.

- E quando tu torni a casa, io inizio a lavorare seriamente.

- Insomma, non ci incontriamo mai, come sempre.

- La settimana prossima, dovrei tornare a un orario di lavoro un po' piú normale. Un collega rientra dalle ferie, e il nuovo programma dovrebbe essere piú stabile.

- Veramente?

- Forse sí.

- Può darsi che abbia capito male, ma ricordo di averti sentito dire esattamente le stesse parole il mese scorso.

- Già, in realtà le ho appena tagliate e incollate.

La moglie fa un sospiro.

- Speriamo che funzioni. Perché ogni tanto mi piacerebbe mangiare insieme, e andare a dormire alla stessa ora.

- Mhn.

- Cerca di non strafare.

- Stai tranquilla: come al solito metto in buca l'ultima palla, mi becco gli applausi del pubblico, e torno a casa.

- Be', ciao.

- Ciao.

- No, un momento.

- Si?

- Sono desolata di chiedere una sciocchezza del genere a un professionista del tuo livello, ma tornando a casa puoi fermarti in un supermercato aperto tutta la notte e comprare del latte? Quello scremato della Takanashi, se lo trovi.

- Certo, figurati. Un litro di latte scremato Takanashi.

Shirakawa spegne il telefono. Dà un'occhiata all'orologio per controllare l'ora. Prende il bicchiere di carta poggiato sul tavolo e beve un sorso di caffè ormai freddo. Sul bicchiere è stampato il logo INTEL INSIDE. Schiaccia un pulsante sullo stereo per far ripartire la musica, e sul ritmo delle note di Bach apre e chiude píú volte il pugno della mano destra. Fa un profondo respiro, per cambiare l'aria nei polmoni. Poi ricollega il cervello all'operazione interrotta e riprende a lavorare. Il modo di trovare la minor distanza possibile tra il punto A e il punto B diventa per lui la principale preoccupazione.

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— Perché?

- Cioè vuoi sapere perché all'improvviso mi è venuta voglia di studiare seriamente?

- Sí.

Con la tazza stretta fra le mani, Takahashi guarda Mari socchiudendo leggermente gli occhi. Come se guardasse in una stanza da una fessura in una finestra.

- Me lo chiedi perché vuoi veramente conoscere la risposta?

- È ovvio. Scusa, ma di solito, se uno domanda qualcosa, è perché la risposta gli interessa.

- In teoria. Però ci sono anche un sacco di persone che fanno domande solo cosí, per cortesia.

- Non ho capito: perché dovrei farti delle domande per cortesia?

- Be', sí, hai ragione, - fa Takahashi pensandoci un po' su, poi riposa la tazza sul piattino. Con un rumore secco.

- Riguardo alla spiegazione, c'è una versione lunga e una breve. Quale preferisci?

- Una via di mezzo.

- Okay. Una risposta formato medio.

Takahashi riepiloga mentalmente quello che vuole dire.

- Quest'anno, da aprile a giugno, sono andato molte volte in tribunale. Al tribunale di Tòkyò a Kasumigaseki. Ho assistito a diversi processi e su ognuno ho dovuto scrivere una relazione: era il compito per un seminario. Tu... tu sei mai stata in un tribunale?

Mari scuote la test.

- Un tribunale somiglia a un cinema multisale. All'ingresso c'è un pannello con la lista dei processi che si terranno quel giorno e l'orario di inizio, come se fosse il cartellone dei film in programma. Scegli quello che ti interessa, vai li e ascolti. Chiunque può entrare liberamente. Solo che non si possono portare dentro cineprese o registratori. Neanche cose da mangiare. È vietato chiacchierare. I sedili sono molto stretti, e se uno si addormenta viene avvisato da un usciere. Comunque, visto che per entrare non si paga, non è il caso di protestare.

Takahashi fa una pausa.

- Io ho seguito soprattutto processi per casi criminali. Violenza aggravata, incendio doloso, furto, omicidio... ci sono delle persone cattive che commettono azioni cattive e vengono prese e processate. Viene inflitta loro una pena. In questo genere di processi tutto è piú facile da capire, no? Nei reati finanziari, nei crimini ideologici e quella roba li, la scena si complica. Separare il bene dal male diventa difficile, e alla fine è una gran rottura di scatole. Il mio scopo era di riempire un sacco di pagine, prendere un voto accettabile, e chiudere l'argomento. Tipo alle elementari, quando durante le vacanze estive dovevo osservare le glorie del mattino e poi fare un resoconto.

A questo punto Takahashi tace. Si guarda i palmi delle mani che tiene appoggiate sul tavolo.

- Ma a forza di andare in tribunale, di ascoltare processi, ho cominciato a provare uno strano interesse per le vicende che venivano dibattute e per le persone che in quelle vicende erano coinvolte. Cioè a poco a poco sono arrivato a pensare che non si trattava di faccende che non mi riguardavano. Era una sensazione strana. Cioè, all'inizio mi dicevo: quelle che vengono giudicate qui, comunque la si rigiri, sono persone di un genere diverso dal mio. Vivono in un mondo diverso dal mio, hanno idee diverse, fanno cose diverse. Tra il mondo in cui vivono loro e quello in cui vivo io, c'è un alto e solido muro. Insomma, tanto per cominciare la possibilità che io mi renda colpevole di qualche crimine grave è pressoché nulla. Io sono un pacifista, ho un animo gentile, e fin da piccolo non ho mai alzato le mani su nessuno. Per questo potevo assistere ai processi con distacco, da una posizione di spettatore. Come se fossero qualcosa che non aveva nulla a che fare con me.

Takahashi alza il viso e guarda Mari. Poi, scegliendo bene le parole:

- Però, a forza di andare in tribunale e di ascoltare le testimonianze delle persone implicate, la requisitoria del procuratore e l'arringa della difesa, e anche le dichiarazioni dell'imputato, ho cominciato a non essere piú tanto sicuro di me. Insomma, sono arrivato a pensare cosí... cioè, che forse non esiste una barriera che separa due mondi. E anche se c'è, forse è una barriera di cartapesta sottile sottile. Che appena fai per appoggiarti, cede e tu ti ritrovi dall'altra parte. O piuttosto, l'altra parte è già riuscita a intrufolarsi zitta zitta dentro di te, ma tu non te ne sei ancora accorto... può darsi che tutto si riduca a una roba del genere. È questa l'impressione che a poco a poco ho provato. È difficile da spiegare a parole, non so...

Takahashi accarezza col dito il bordo della tazza.

- E quando ho formulato questo pensiero, ho cominciato a vedere tante cose in modo diverso da prima. Il processo stesso, in quanto sistema, ai miei occhi è apparso come una sorta di animale particolare, strano.

- Un animale strano?

- Tipo... ecco, una sorta di polipo. Un polipo gigantesco che vive in fondo agli abissi. Un polipo con una forza vitale tremenda, e con un'infinità di tentacoli lunghissimi, che avanza verso qualche punto nel mare buio. Mentre ascoltavo i processi, non riuscivo a togliermi dalla testa quell'animale. Assume forme diverse. Ci sono volte in cui prende la forma dello stato, o della legge. Altre in cui assume forme piú complesse, piú problematiche. Puoi tagliare i suoi tentacoli mille volte: ricrescono sempre. Nessuno può ucciderlo, quell'animale. È troppo forte, e vive in un luogo troppo profondo. Non si capisce dove sia il suo cuore. Sai cosa provavo in quei momenti? Un profondo terrore. E una sorta di disperata certezza: potevo scappare lontano finché volevo, non sarei comunque riuscito a sfuggirgli. Quello lí non si dà minimamente la pena di pensare che io sono io, o che tu sei tu. Davanti a lui ogni persona viene privata del suo nome e del suo volto. Diventiamo tutti dei semplici simboli. Dei semplici numeri.

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