Autore Haruki Murakami
Titolo L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Supercoralli , pag. 268, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-21977-2
OriginaleShikisai o motanai Tazaki Tsukuru to, kare no junrei no toshi [2013]
TraduttoreAntonietta Pastore
LettoreAngela Razzini, 2014
Classe narrativa giapponese












 

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Capitolo primo


Dal mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire. Nel frattempo aveva compiuto vent'anni, ma raggiungere la pietra miliare della maggiore età non era stato per lui un evento particolarmente significativo. Metter fine ai suoi giorni gli sembrava la cosa piú naturale e coerente. Per quale motivo, però, non avesse fatto quell'ultimo passo, ancora oggi non riusciva a capirlo. E dire che in quel periodo attraversare la soglia che separa la vita dalla morte sarebbe stato piú facile che bere un uovo dal guscio!

Se Tsukuru non aveva mai veramente cercato di suicidarsi, era forse perché la sua idea della morte era cosí pura, cosí intensa, che nella sua mente non vi aveva mai associato un'immagine concreta che ne fosse all'altezza. Il problema della messa in pratica era secondario: se a un certo punto avesse visto nei paraggi una porta che conduceva alla morte, probabilmente non avrebbe esitato ad aprirla. Girare la maniglia, per lui, sarebbe stato un gesto come un altro, qualcosa su cui non c'era da riflettere piú di tanto. Tuttavia, per fortuna o per sfortuna, davanti a sé quella porta non la vide mai.

Spesso Tazaki Tsukuru si ripeteva che sarebbe stato molto meglio morire allora, evitando cosí di esistere nel presente. Era un pensiero allettante, perché in tal caso tutto ciò che ora considerava realtà, avrebbe smesso di essere reale. E come lui non sarebbe piú esistito per il mondo, il mondo non sarebbe piú esistito per lui.

Eppure, ancora oggi, Tsukuru non riusciva a capire quale fosse la ragione che all'epoca l'aveva portato a un passo dalla morte. Certo, una ragione concreta c'era, ma non gli sembrava sufficiente per spiegare il desiderio di annientamento che l'aveva accerchiato per sei mesi con tanta forza. Accerchiato... sí, era l'espressione giusta. Come Giona che viene inghiottito da una balena e continua a vivere nella sua pancia, Tsukuru era caduto nel ventre della morte e aveva passato giorni senza data nel buio stagnante di quell'antro.

In quel periodo aveva vissuto come un sonnambulo, o come uno che non si è ancora reso conto di essere morto. Si svegliava all'alba, si lavava i denti, indossava i primi vestiti che trovava, saliva sul treno che lo portava all'università, prendeva appunti durante le lezioni. Procedeva nelle sue giornate attenendosi alle abitudini di sempre, per lo stesso impulso che spinge una persona investita da una raffica di vento ad aggrapparsi a un lampione. Non parlava con nessuno a meno che non fosse indispensabile e, quando tornava nell'appartamento dove viveva da solo, si sedeva sul pavimento con la schiena contro la parete e si abbandonava al pensiero della morte. O meglio: dell'annullarsi. In quei momenti, davanti a lui, si spalancava una voragine nera che arrivava dritta fino al centro della terra. Un abisso dove si vedeva soltanto turbinare il nulla sotto forma di una solida nube, e si udiva nient'altro che un silenzio cosí profondo da opprimere i timpani.

Quando non pensava alla morte, Tsukuru non pensava a niente. Cosa che gli riusciva con una certa facilità: non leggeva giornali, non ascoltava musica, non provava nessun desiderio sessuale. Quel che accadeva nel mondo non aveva per lui il minimo significato. Se si stancava di starsene chiuso nella sua stanza, usciva e gironzolava un po' nel quartiere senza una meta precisa.

Oppure andava alla stazione, si sedeva su una panchina e guardava arrivare e partire i treni, per ore.

Ogni mattina si faceva la doccia e si lavava i capelli e i denti, e due volte alla settimana faceva il bucato. La pulizia era uno dei pilastri a cui si aggrappava. Il bucato, la doccia, i denti. Al cibo invece non prestava quasi attenzione. A pranzo mangiava alla mensa dell'università e praticamente era il suo unico vero pasto. Se poi gli veniva fame andava al supermercato del quartiere e tornava a casa con qualche mela e un po' di verdura, oppure del pane in cassetta che mangiava senza scaldarlo, o del latte che beveva dal cartone. Quando era l'ora di dormire buttava giú un bicchierino di whisky, come se fosse un sonnifero. Per sua fortuna non reggeva bene l'alcol e due dita di whisky erano sufficienti per spedirlo nel mondo dei sogni. In quei giorni, però, di sogni non ne faceva. E anche se ne avesse abbozzato uno, il suo ricordo, arrivato alla soglia della consapevolezza, sprofondava giú verso il territorio del nulla, lungo il piano inclinato, scivoloso e senza appigli della coscienza.


La ragione che aveva scatenato in Tazaki Tsukuru quella forte attrazione per la morte era chiarissima: i quattro ragazzi che per molto tempo erano stati i suoi amici piú intimi un giorno gli avevano annunciato che non volevano piú vederlo né sentirlo. Di punto in bianco, senza lasciare spazio a discussioni o proteste. E senza dare la minima spiegazione su cosa li spingesse a dirgli una cosa tanto crudele. Né, del resto, lui aveva osato chiederlo.

Erano amici dai tempi del liceo, ma Tsukuru aveva lasciato la sua città natale per frequentare l'università a Tōkyō: per cui l'essere scacciato dal gruppo non aveva avuto grandi conseguenze sulla sua vita quotidiana, e non c'era il rischio che li incontrasse per caso. Questo almeno in teoria. Perché invece era proprio l'enorme distanza dai suoi amici a causargli un dolore tanto acuto. L'isolamento e la solitudine erano diventati un cavo lungo centinaia di chilometri teso fino allo spasmo da giganteschi argani. E attraverso quel cavo gli arrivava, giorno e notte, un messaggio misterioso. Un rumore indecifrabile che, come un vento violento che attraversa un bosco, variava di intensità, giungendo, a volte, a trapanargli le orecchie.


I cinque ragazzi – tre maschi e due femmine – erano stati compagni di classe in un liceo pubblico di un quartiere residenziale di Nagoya. Erano diventati amici nell'estate del primo anno, durante un'attività di volontariato, e anche nei due anni successivi, benché fossero finiti in classi diverse, avevano continuato a formare un gruppo molto affiatato. L'attività di volontariato che li aveva fatti conoscere era il compito delle vacanze assegnato dal professore di scienze sociali, ma erano stati loro stessi a decidere di portare avanti quell'esperienza anche dopo la fine del periodo stabilito.

Oltre a vedersi per il volontariato, giocavano a tennis, organizzavano gite nei dintorni, andavano a nuotare vicino a Wada, o si riunivano a casa dell'uno o dell'altro per preparare compiti in classe e interrogazioni. Oppure — ed era la cosa piú frequente — rimanevano semplicemente a parlare per ore e ore, stretti in cerchio, in un posto qualsiasi. Non c'era un tema stabilito, ovviamente, ma non per questo rimanevano mai a corto di argomenti.

Erano diventati amici per caso. Come attività di volontariato per le vacanze c'erano molte possibilità tra cui scegliere: una di queste era un corso di sostegno organizzato da un istituto cattolico per studenti delle elementari con problemi di apprendimento. A scegliere quel programma, dei trentacinque ragazzi della classe, erano stati soltanto loro cinque: e cosí per tre giorni avevano partecipato a un campo estivo nei dintorni di Nagoya, trovandosi benissimo con i bambini.

Già durante i giorni al campo erano riusciti a ritagliarsi del tempo tutto per loro durante il quale parlarsi a cuore aperto, conoscersi l'un l'altro, condividere speranze e paure. E quando il campo estivo era finito, ognuno dei cinque ormai sentiva di «trovarsi nel posto giusto, con le persone giuste». Tsukuru sapeva di aver bisogno degli altri quattro tanto quanto gli altri avevano bisogno di lui: era questa la sensazione di perfetta armonia che li avvolgeva tutti. Assomigliava a una reazione chimica incredibilmente felice anche se nata apparentemente per caso: una di quelle che, per quanto si provi a mettere insieme gli stessi elementi, non si ottengono due volte.

In seguito, piú o meno due volte al mese, nei fine settimana avevano continuato a partecipare ai corsi di sostegno aiutando i bambini a studiare, leggendo loro dei libri, e facendo sport insieme. Capitava anche che tagliassero l'erba del prato, dessero il bianco alle pareti, riparassero qualche attrezzo. Quell'attività era durata due anni e mezzo, fino a quando avevano finito il liceo.

Tuttavia, in un gruppetto formato da tre maschi e due femmine è inevitabile che possa nascere qualche motivo di tensione. Se si fossero formate due coppie, ad esempio, uno dei ragazzi sarebbe stato di troppo. Dobbiamo immaginare che quell'eventualità stesse sospesa sopra le loro teste come una piccola nube minacciosa. Eppure non solo non si era realizzata, ma nemmeno c'erano mai stati segni che fosse sul punto di farlo.

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Capitolo terzo


In quel mezzo anno durante il quale aveva vagabondato sul ciglio della morte, Tsukuru aveva perso sette chili. Non c'era da stupirsene, visto che non faceva pasti regolari. Lui, che fin da bambino aveva avuto un viso piuttosto paffuto, si era ridotto a uno scheletro. Aveva dovuto comprare dei pantaloni di una taglia piú piccola dato che stringere la cintura fino all'ultimo buco non era bastato. Quando si spogliava, la sua cassa toracica con quelle ossa sporgenti sembrava una mesta gabbia per uccelli. Il suo portamento peggiorava a vista d'occhio, anche perché le spalle gli si erano incurvate in avanti. Le gambe scarnificate erano gracili come quelle di un palmipede. Il suo era diventato il corpo di un vecchio: questo pensò guardandosi dopo tanto tempo, nudo, in piedi davanti allo specchio. Di un vecchio o di qualcuno che sta per passare a miglior vita da un momento all'altro.

Sí, sembro un moribondo, ma è inevitabile, si disse Tsukuru di fronte alla sua immagine riflessa. Perché in un certo senso sono stato veramente sul punto di morire. Sono sopravvissuto per un soffio, aggrappato a questo mondo come la crisalide di un insetto resta attaccata al ramo di un albero, ma sempre in balia di ogni folata di vento. Questa scoperta — il fatto di avere l'aspetto di un moribondo — fu per lui un nuovo shock. Non si stancava di guardare il suo corpo nudo riflesso nello specchio, al pari di chi, davanti alle immagini strazianti di una lontana regione distrutta da un terremoto o da un'inondazione, non riesce a staccare gli occhi dallo schermo del televisore.

Forse quella volta sono morto davvero, pensò Tsukuru: e fu come ricevere uno schiaffo in faccia. L'estate scorsa, quando la mia stessa esistenza è stata negata da quei quattro, il ragazzo che si chiamava Tazaki Tsukuru ha smesso di respirare. Solo il mio aspetto si è conservato, anche se a fatica, e in poco meno di sei mesi anche quello ha subito una metamorfosi completa. Sono cambiati la forma del mio corpo, l'espressione del mio viso, lo sguardo che i miei occhi posano sul mondo. Ogni sensazione che provo è diversa da prima: la carezza del vento sulla mia pelle, il suono dell'acqua che scorre, i raggi di sole che filtrano tra le nuvole, il colore dei fiori di stagione... È come se fossi diventato una persona nuova. Quello che si trova adesso qui, che si riflette in questo specchio, a prima vista sembra il solito Tazaki Tsukuru: ma non lo è. È soltanto un recipiente il cui contenuto è stato sostituito, qualcosa che solo per comodità viene ancora chiamato Tazaki Tsukuru. Se continua a usare questo nome, è perché al momento non ne ha un altro.


Quella notte Tsukuru fece un sogno strano, in cui era tormentato dalla gelosia. Era da molto tempo che non faceva un sogno tanto vivido e realistico.

Fino ad allora Tsukuru non aveva mai conosciuto la gelosia. Capiva grosso modo, lo capiva razionalmente, cosa significasse essere geloso, è ovvio. Ad esempio era il sentimento nutrito da chi non aveva il talento o la personalità per raggiungere una certa posizione nel vedere qualcuno che la raggiungeva. Oppure quello di chi scopriva la donna amata nelle braccia di un altro. Invidia, rimpianto, delusione e rabbia che non si sa come sfogare.

Tsukuru però quel sentimento non l'aveva mai provato, nemmeno una volta in vita sua. Non aveva mai rimpianto sul serio il talento o le qualità che non possedeva, non aveva mai idolatrato né invidiato nessuno, né aveva mai amato follemente una donna. Va da sé che aveva anche lui le sue frustrazioni: se qualcuno gli avesse chiesto cosa gli mancava, avrebbe potuto recitare a memoria un elenco. Non sarebbe stata una lista interminabile, d'accordo, ma di certo ci sarebbero state piú di due o tre voci. Però erano mancanze che sentiva legate alla propria personalità, non riguardavano qualcosa di esterno a lui. Perlomeno fino ad allora era stato cosí.

In quel sogno, invece, desiderava fino allo spasimo una donna. Non gli era chiaro chi fosse lei, era solo una presenza indefinita. Solo una presenza, sí, ma con una particolare qualità: era una donna in grado di tenere separati il corpo e il cuore. «Posso darti una delle due cose, — aveva detto a Tsukuru. — O il corpo o il cuore. Tutti e due non li puoi avere. Quindi devi scegliere una delle due parti, ora, qui. Perché l'altra la darò a qualcun altro». Tsukuru però la voleva tutta intera. Non poteva accettare di consegnarne metà a un altro uomo. Era qualcosa che non poteva sopportare. Se non posso averti tutta, preferisco rinunciare, avrebbe voluto dirle. Ma non ci riusciva. Era bloccato.

Ecco, in quel momento Tsukuru aveva provato un dolore tremendo, come se due mani enormi lo stessero strizzando. I suoi muscoli si laceravano, le sue ossa urlavano. Si sentiva come se stesse letteralmente inaridendo, lí, in quel momento, come se ogni cellula del suo corpo si stesse prosciugando. Tremava di rabbia. La rabbia di dover consegnare a qualcun altro metà di quella donna. Era come se la sua collera si trasformasse in un liquido denso che defluiva viscoso dal suo midollo spinale. I polmoni impazzivano, il cuore batteva a velocità spaventosa, come un motore spinto al massimo. E un sangue cupo e irrequieto gli scorreva nel corpo.

Tremando tutto, alla fine spalancò gli occhi. Gli ci volle un po' di tempo per rendersi conto che aveva solo sognato. Era fradicio di sudore, si strappò di dosso il pigiama bagnato e si asciugò con un telo di spugna. Ma per quanto strofinasse, non riusciva a eliminare quella sensazione viscida. Poi comprese. O piuttosto intuí. Questa è gelosia, si disse. Qualcuno stava cercando di portarmi via il cuore o il corpo della donna che amavo, se non tutte e due le cose.

La gelosia — Tsukuru lo imparò da quel sogno — è la prigione piú avvilente che ci sia al mondo. Perché è una prigione nella quale l'individuo si rinchiude da solo. Non ci viene spinto a forza da qualcuno. Ci entra di sua spontanea volontà, chiude la porta a chiave dall'interno e getta la chiave dalla finestra, al di là delle sbarre. E nessuno sa che lui è incarcerato lí dentro. Naturalmente se volesse potrebbe andarsene. Perché quelle sbarre di ferro si trovano nel suo cuore. Ma non riesce a farlo. Il suo cuore è diventato duro come un muro di pietra. Questa è la natura della gelosia.

Tsukuru prese dal frigo del succo d'arancia e ne bevve un paio di bicchieri. Aveva la gola riarsa. Poi si sedette al tavolo e, mentre guardava il cielo schiarirsi poco a poco fuori dalla finestra, cercò di placare i tremiti del corpo e del cuore, ancora scossi dall'emozione. Cosa diavolo significa questo sogno?, si chiese. È una profezia? O un messaggio in codice? Vuole insegnarmi qualcosa? Oppure il mio vero io, qualcosa di sconosciuto anche a me stesso, ha rotto il guscio e cerca di venire alla luce? L'uovo si è schiuso e un'orribile creatura si sforza disperatamente di emergere, pensò Tsukuru.

In seguito, si rese conto che era stato a partire da quel momento che aveva smesso di desiderare con tutto se stesso la morte. Osservando il proprio corpo nudo nello specchio, aveva capito che l'immagine che vi si rifletteva non era autentica. E quella notte, per la prima volta in vita sua, aveva conosciuto la gelosia (o quella che tale gli era sembrata). Quando si fece mattino, si era lasciato alle spalle le lunghe giornate buie che per sei mesi aveva trascorso faccia a faccia con il nulla della morte.

Forse l'intensa, ustionante sensazione di gelosia che era sgorgata in lui prendendo la forma di un sogno aveva neutralizzato il desiderio di morte che lo aveva posseduto fino a quel momento. Come un forte vento soffiando da ovest spazza via dal cielo una spessa coltre di nubi. Sí, doveva essere successo qualcosa del genere, pensò Tsukuru.

Tutto ciò che gli restava adesso, era qualcosa che assomigliava a una visione finalmente chiara, e al contempo serena, quasi pacata. Una sensazione neutra e incolore come una bonaccia. Era come stare seduto tutto solo in una grande e vecchia casa ormai disabitata, dove tendeva le orecchie al suono vano di un enorme orologio a pendolo che scandiva il tempo. In silenzio, si limitava a guardare le lancette che avanzavano, senza distogliere gli occhi un momento. E ogni ora che passava, lui, con altrettanta regolarità, invecchiava di un'ora, mentre nel suo cuore vuoto una sottile membrana avvolgeva, strato su strato, le sue emozioni.

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In uno di quei sabati sera in cui parlavano fino a tardi, la conversazione si spostò sul tema della morte. Sul significato del fatto che gli esseri umani devono morire. Che devono convivere con il presentimento della propria scomparsa. Discussero di quell'argomento in modo piú o meno teorico, ma Tsukuru avrebbe voluto rivelare al suo amico di essere vissuto per un certo periodo a stretto contatto con la morte, e di aver subito nel corso di questa esperienza uno straordinario cambiamento; avrebbe voluto descrivergli lo scenario misterioso che gli era apparso davanti. Ma se avesse iniziato a parlarne, avrebbe dovuto raccontargli nei dettagli, dall'inizio alla fine, ciò che l'aveva portato a quella condizione. Di conseguenza si era limitato ad ascoltare. A parlare era stato soprattutto Haida.

Quando le lancette dell'orologio segnarono le undici, l'argomento si era esaurito e nella stanza era calato il silenzio. Normalmente sarebbe stata l'ora di metter fine alla conversazione e andare a dormire. Sia l'uno che l'altro il mattino si svegliavano presto. Haida però, seduto a gambe incrociate sul divano, restava assorto nei suoi pensieri.

Finché a un certo punto, in un tono esitante che non gli era abituale, disse: — A proposito della morte, conosco una strana storia. Me l'ha raccontata mio padre. È una cosa che è capitata a lui, quando aveva poco piú di vent'anni. Piú o meno l'età che abbiamo noi adesso. L'ho sentita tante di quelle volte, fin da quando ero piccolo, che la ricordo perfettamente nei minimi dettagli. È una storia pazzesca, al punto che ancora adesso stento a credere che una cosa simile sia capitata a un essere umano. Ma mio padre non è il tipo da raccontar balle su un argomento del genere, e poi non ha fantasia, non riuscirebbe mai a inventarsi qualcosa di sana pianta. Inoltre, come sai, le storie inventate, a forza di venir ripetute, a poco a poco subiscono variazioni. Si aggiunge un pezzo, si dimentica la versione precedente... Quella che mi raccontava mio padre invece era sempre precisa identica, in ogni dettaglio. Quindi sono sicuro che l'ha vissuta davvero. Sono suo figlio e lo conosco bene. Tu che non lo conosci, però, sei libero di crederci o meno. Ti chiedo semplicemente di ascoltarla. Prendila pure per una leggenda urbana, o per una storia di fantasmi, non fa niente. È piuttosto lunga, e abbiamo fatto tardi, vuoi che te la racconti lo stesso?

— Certo, — rispose Tsukuru, — tanto non ho sonno.

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Capitolo quinto


— Da giovane, per un anno, mio padre ha fatto una vita da vagabondo, — iniziò Haida. — Era la fine degli anni Sessanta, quando il vento delle rivolte studentesche soffiava sul mondo e la gente voltava le spalle ai valori tradizionali. Non so esattamente cosa sia successo, ma mentre frequentava l'università, a Tōkyō, mio padre aveva assistito ad alcuni episodi assurdi, cose che non condivideva: da lí aveva perso l'entusiasmo per la lotta politica e si era ritirato dal movimento. Cosí ha chiesto una sospensione dagli studi e per un anno ha girovagato da solo a piedi, senza una meta precisa, per tutto il Giappone. Si guadagnava da vivere facendo lavori pesanti, quando aveva un po' di tempo leggeva, incontrava persone diverse, insomma, faceva esperienze di vita. Papà dice sempre che per lui, per come era fatto, è stato un periodo molto fecondo. Che da quella vita ha tratto lezioni importanti. È da quando ero bambino che lo sento raccontare una serie di episodi che gli sono capitati quell'anno. Sai, un po' come si ascoltano i soldati raccontare le avventure vissute in guerra, in paesi e in tempi lontani. Terminato quel periodo, papà ha ripreso gli studi ed è tornato alla sua vita. Non ha mai piú fatto lunghi viaggi. Per quel che ne so io, ha sempre passato il suo tempo tra casa e università. È strano, vero? Anche nella vita piú sobria e regolare, da qualche parte c'è sempre un momento di crisi, di rottura. Si potrebbe anche dire «un tempo per rompere gli schemi». Forse gli esseri umani hanno bisogno di questa specie di sospensione, chissà.


Quell'inverno, il padre di Haida lavorava come inserviente in una piccola stazione termale della prefettura di Ōita, sull'isola di Kyǖshǖ. Il posto gli piaceva moltissimo, e aveva deciso di starci un po'. Si occupava dei vari lavoretti che, di giorno in giorno, gli venivano assegnati: fatto ciò era libero di usare il suo tempo come gli pareva. La paga era minima, ma aveva vitto e alloggio, e poteva godere dei bagni termali. Quando non lavorava, sdraiato nella sua stanzetta leggeva quanto voleva. Le persone della locanda trattavano con gentilezza quello studente taciturno ed eccentrico venuto da Tōkyō, i tre pasti che gli davano erano semplici, ma cucinati con ingredienti freschi della regione e saporiti. Ma soprattutto quel posto era tagliato fuori dal mondo. La televisione si vedeva male perché il segnale era disturbato, e i quotidiani arrivavano con un giorno di ritardo. La fermata dell'autobus era a tre chilometri di distanza, in fondo a una strada di montagna talmente sconnessa che l'unica macchina in grado di andare e venire dalla stazione termale era una jeep scassata appartenente alla locanda. Addirittura la luce elettrica era stata installata da poco.

Davanti alla locanda scorreva un torrente dove si pescavano in abbondanza pesci dai colori stupendi e dalla carne saporita. Uccelli dal trillo acuto incrociavano i loro voli allegri al di sopra della corrente, e non era raro vedere cinghiali e scimmie. La montagna era ricchissima di piante selvatiche. In quell'ambiente isolato, il giovane Haida si dedicava a sazietà alla lettura e alla riflessione. Ormai non nutriva piú alcun interesse per gli avvenimenti del mondo al di là della montagna.

Passati circa due mesi da quando si era installato in quel posto, ebbe una conversazione con uno dei clienti. Era un uomo tra i quaranta e i cinquanta, alto, con braccia e gambe lunghe e magre, i capelli cortissimi e un'incipiente calvizie. Portava occhiali dalla montatura dorata e il suo cranio liscio aveva la forma di un uovo appena deposto. Con una sacca appesa alla spalla percorreva da solo i sentieri di montagna, e soggiornava in quella locanda già da una settimana. Quando usciva, metteva sempre un giubbotto di pelle, dei jeans e degli stivali da lavoro. Se faceva freddo, anche un berretto di lana e una sciarpa blu intorno al collo. Si chiamava Midorikawa. Perlomeno era questo il nome che aveva scritto nel registro dei clienti, insieme a un indirizzo di Koganei, nella cintura di Tōkyō. Doveva essere una persona meticolosa, perché pagava sempre in contanti prima di mezzogiorno il conto del giorno precedente.

(Midorikawa? Di nuovo qualcuno dotato di un colore, pensò Tsukuru, ma continuò ad ascoltare la storia senza dire nulla).

L'uomo chiamato Midorikawa non faceva nulla di speciale. Appena aveva un po' di tempo si immergeva nella piscina termale all'aria aperta; camminava sui monti dei dintorni, poi si infilava sotto il kotatsu a leggere uno dopo l'altro i tascabili che aveva portato con sé (piú della metà erano banali romanzi polizieschi); la sera beveva da solo due caraffe di sake caldo: ecco, piú o meno, tutto quello che faceva. Era taciturno almeno quanto Haida e non parlava con nessuno a meno che non fosse indispensabile, cosa che non preoccupava particolarmente i gestori della locanda. Erano abituati a quel tipo di clientela. A venire fino a quella sorgente termale sperduta in mezzo ai monti, di solito erano persone almeno un po' eccentriche, soprattutto quelle che si fermavano a lungo.

Una volta Haida, prima dell'alba, stava immerso nell'acqua termale sul bordo del torrente, quando arrivò anche Midorikawa, che attaccò bottone. Per qualche ragione sembrava che l'uomo, nei confronti di quel giovane inserviente, avesse subito nutrito una certa curiosità. Forse perché l'aveva visto intento a leggere un'antologia di Bataille in veranda durante le ore di riposo.

Midorikawa disse di venire da Tōkyō e di essere un pianista jazz. Aveva avuto qualche piccolo problema personale e si era stufato di lavorare tutti i giorni, cosí era salito fin lassú fra i monti, da solo, per fare una pausa e tirare il fiato in un ambiente tranquillo. Insomma, era arrivato in quella locanda per caso, spostandosi da un posto all'altro. Gli era piaciuta perché era molto semplice, c'era solo lo stretto necessario.

— Anche tu vieni da Tōkyō, vero?

Nella penombra, immerso nell'acqua calda, Haida gli spiegò la sua situazione: aveva chiesto una sospensione dagli studi, e viaggiava senza una meta. Tanto all'università tutto era bloccato, e restare a Tōkyō non avrebbe avuto senso.

— Ma a te non interessano le rivolte che ci sono adesso nella capitale? — gli chiese l'uomo. — Varrebbe la pena di darci un'occhiata, non credi? Ogni giorno che passa i disordini si allargano in nuovi quartieri. Hai la sensazione che il mondo venga ribaltato dalle fondamenta. Non hai voglia di essere lí anche tu?

Haida rispose che il mondo non era qualcosa che si potesse ribaltare con tanta facilità. Erano piuttosto le persone a venire ribaltate. E questo lui non aveva voglia di vederlo con i suoi occhi. Quel modo di esprimersi deciso, quasi brusco, dovette piacere a Midorikawa. Gli domandò se per caso, da quelle parti, ci fosse un posto dove poter suonare il piano.

Haida gli rispose che nella valle vicina c'era una scuola media, dopo le lezioni probabilmente gli avrebbero permesso di usare il piano dell'aula di musica. Midorikawa fu molto contento di quell'informazione e chiese, scusandosi per il disturbo, se piú tardi Haida non potesse mostrargli la strada. Haida parlò della cosa al padrone della locanda, che gli consigliò di accompagnare il cliente fin li. Telefonò lui stesso alla scuola media per chiedere l'autorizzazione a usare il piano. Subito dopo pranzo, Haida e l'uomo si misero in cammino verso la scuola media al di là della montagna. Dato che aveva appena smesso di piovere il sentiero era scivoloso, ma Midorikawa, sempre con la borsa a tracolla, avanzava a lunghi passi decisi: le sue gambe erano gracili ma forti.

Il vecchio piano verticale dell'aula di musica era accordato male e aveva i tasti irregolari, ma nel complesso era ancora utilizzabile. Il pianista si sedette sullo sgabello cigolante, allargò le dita sulla tastiera e fece un passaggio di controllo sugli ottantotto tasti. Poi provò alcuni accordi. Di quinta, settima, nona, undicesima. Non sembrava molto contento del suono, ma già solo per il fatto di toccare la tastiera dava l'impressione di provare una sorta di piacere fisico. Dalla velocità e dalla sicurezza con cui muoveva le dita, Haida dedusse che doveva essere un musicista di una certa fama.

Dopo aver verificato le condizioni del piano, Midorikawa prese dalla borsa un sacchetto di stoffa e lo posò con riguardo sul piano. Era un sacchetto fatto di un tessuto pregiato, tenuto chiuso da una stringa. Haida si chiese se non contenesse le ceneri di qualcuno. Dai gesti che compiva, tenerlo sul piano quando suonava doveva essere un'abitudine.

Midorikawa attaccò 'Round Midnight. Sembrava esitante. All'inizio suonava ogni accordo con cautela, circospetto, ricordava una persona che mette un piede nell'acqua di un torrente per tastarne il fondo e controllare la velocità della corrente. Arrivato alla fine del tema principale, però, si lanciò in una lunga improvvisazione. Man mano che i minuti passavano, le sue dita si muovevano sempre piú abili e generose, come pesci che familiarizzano con l'acqua. La mano sinistra incoraggiava la destra, la destra stimolava la sinistra. Il giovane Haida di jazz non ci capiva granché, ma per puro caso conosceva quel pezzo di Thelonious Monk, e sentiva che l'esecuzione di Midorigawa non solo aveva carattere: era proprio splendida. C'era una profondità d'animo che faceva dimenticare le cattive condizioni del pianoforte. Unico e incantato ascoltatore, Haida aveva la sensazione che quelle note lavassero via tutta la sporcizia che aveva in sé. La bellezza di cui erano pervase sembrava intrecciarsi all'aria pura e colma di ozono, alla corrente fresca e limpida dei torrenti. Anche Midorikawa era tutto preso dall'esecuzione, intorno a lui non esisteva piú nulla. Era la prima volta che Haida vedeva una persona cosí profondamente assorta in qualcosa. Non riusciva a staccare gli occhi dalle dita di quell'uomo che si muovevano come dotate di vita propria.

Quando il pezzo, trascorsa una quindicina di minuti, finí, Midorikawa prese dalla sacca uno spesso asciugamano e si deterse con cura il sudore dal viso. Poi chiuse gli occhi e restò un momento in silenzio, quasi in meditazione.

— Va bene cosí, è sufficiente, — disse dopo un po'. — Possiamo andare —. Prese il sacchetto sopra il piano e lo ripose con attenzione nella borsa.

— Che cos'è quel sacchetto? — chiese Haida che non riuscí a trattenersi.

— Un talismano, — rispose laconicamente Midorikawa.

— Cioè, una specie di divinità protettrice dei pianoforti?

— No, forse potrei chiamarlo il mio alter ego, — disse Midorikawa con un debole sorriso agli angoli della bocca. — Ha una strana storia, questo sacchetto. Ma è molto lunga, adesso sono troppo stanco per raccontartela.

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— Sí, per il momento il lavoro va alla grande, — rispose Aka. Poi si schiarí la voce. — Sai di cosa si occupa, la mia agenzia?

— Grosso modo. Se quello che avete scritto sul sito è esatto, cioè.

Aka rise.

— Non sono balle. È tutto vero. La parte piú importante però non c'è, come puoi capire. Quella resta qui dentro, - disse picchiettandosi una tempia con la punta del dito. — Sono come gli chef, io! Gli chef ti danno la ricetta, ma senza svelarti il segreto.

— Mi è sembrato di capire che vi occupate principalmente di formazione del personale.

— Esatto. Formiamo i nuovi assunti, aggiorniamo i quadri medi. È il genere di servizio che assicuriamo alle aziende. Creiamo un programma su misura per i clienti, adattandolo alle loro aspettative. Noi siamo molto professionali e per le imprese è un risparmio di tempo e di energia.

— Outsourcing delle risorse umane, — disse Tsukuru.

— Esatto. Ed è un'attività nata totalmente da una mia idea. Si vede sempre nei fumetti, no? Sopra la testa di un personaggio, tutt'a un tratto, si accende una lampadina. È andata esattamente cosí. Quanto ai capitali iniziali, un mio conoscente, che è a capo di una finanziaria, ha avuto fiducia in me e me li ha prestati. Se ce l'ho fatta è solo perché a proteggermi le spalle c'era lui.

— Ma l'idea dove l'hai presa?

Aka rise.

— Oh, non vale nemmeno la pena di parlarne! Dopo la laurea ho trovato posto in una grande banca, ma il lavoro non mi interessava. Sopra di me c'erano solo degli imbecilli. Non vedevano piú in là del loro naso, badavano solo ai loro interessi e non pensavano al futuro. Se le maggiori banche giapponesi sono tutte cosí, mi sono detto, per il paese si annunciano tempi bui. Ho tenuto duro per tre anni, ma la situazione non evolveva. Anzi, peggiorava di giorno in giorno. A quel punto ho dato le dimissioni e ho iniziato a lavorare in una finanziaria. È stato il presidente a propormi di entrare da loro, gli andavo a genio. Lí si poteva operare molto piú liberamente che in banca e il lavoro era interessante. Però anche nella finanziaria non andavo d'accordo con i miei diretti superiori, quindi ho fatto le mie scuse al presidente, e dopo due anni e qualcosa me ne sono andato. Ti dà fastidio se fumo? — chiese prendendo dalla tasca un pacchetto di Marlboro.

— No, certo, — rispose Tsukuru. Aka si mise una sigaretta fra le labbra e l'accese con un piccolo accendino d'oro. Inspirava ed espirava il fumo lentamente, con gli occhi socchiusi.

— Lo so che dovrei smettere, ma non ce la faccio: non riesco a lavorare se non fumo. Tu hai mai provato a smettere?

Tsukuru non aveva mai fumato una sigaretta in vita sua.

Aka riprese a raccontare.

— Sembra che io sia allergico a lavorare sotto padrone. A prima vista non si direbbe, e io stesso non sapevo di avere questo carattere, almeno fino a quando non ho iniziato a lavorare. Eppure è la verità. Quando ricevo ordini assurdi da gente incompetente, vado fuori di testa. Esplodo. Le persone come me non vanno bene in un'azienda. Cosí ho preso la mia decisione... e mi sono lanciato in una start up.

Aka si interruppe un momento e rimase a fissare il fumo che si alzava dalla sigaretta come se osservasse ricordi lontani.

— Un'altra cosa che ho imparato lavorando in un'azienda, è che la maggior parte della gente a questo mondo non ha nessuna difficoltà a eseguire gli ordini. Al contrario: è felice di venir comandata. Certo, molti protestano: ma non lo fanno sul serio, hanno semplicemente l'abitudine di lamentarsi sempre. Se fossero obbligati a usare la testa, a prendersi la responsabilità delle loro decisioni, non saprebbero che pesci pigliare. Allora mi sono detto che potevo metter su un business sfruttando questa loro natura. Tutto qui. Mi spiego?

Tsukuru non rispose. La sua opinione non era richiesta sul serio.

— Dopodiché ho compilato una lista di tutto ciò che non mi andava, che non volevo piú né fare né subire, tutto quello che mi veniva in mente. E, basandomi su questa lista, ho ideato un programma in grado di addestrare le persone che obbediscono ciecamente agli ordini che arrivano dall'alto. Dico «ideato», ma è chiaro che tante parti le ho scopiazzate di qua e di là. Il tirocinio che ho fatto quando sono entrato in banca mi è stato molto utile. Ci ho aggiunto i metodi che vengono usati nelle sette religiose, nei seminari di illuminazione spirituale. Ho studiato le direttive di servizio delle imprese che hanno successo negli Stati Uniti in questo stesso settore. Ho letto un sacco di libri di psicologia. Anche i manuali d'addestramento delle SS e dei marines americani mi sono serviti per alcuni aspetti. Dopo aver dato le dimissioni, per sei mesi mi sono dedicato anima e corpo alla messa a punto del programma. Sono sempre stato bravo ad andare a fondo di una cosa.

— E poi sei intelligente.

Aka sogghignò.

— Grazie. Ma non tocca a me dirlo.

Tirò una boccata dalla sigaretta e scosse la cenere. Poi alzò lo sguardo e fissò Tsukuru.

— L'obiettivo delle sette religiose e dei seminari di illuminazione, di solito, è fare un sacco di soldi, poco importa se per raggiungere lo scopo sottopongono i loro adepti a dei violenti lavaggi del cervello. Noi queste cose non le facciamo. Se utilizzassimo metodi poco corretti non verremmo mai contattati dalle aziende importanti. Anzi, fammelo dire: nemmeno dei trattamenti troppo drastici o aggressivi sono accettabili. Magari ottieni dei risultati nel breve periodo, anche dei risultati evidenti se è per questo, ma alla lunga non va bene. Inculcare il senso della disciplina è importante, ma il programma che adotti dev'essere assolutamente scientifico, funzionale, ben chiaro fin dall'inizio. Non deve oltrepassare i limiti comunemente ritenuti ragionevoli. E gli effetti devono essere in una certa misura durevoli. Il nostro obiettivo non è creare degli zombi. Vogliamo formare una forza lavoro che, pur muovendosi secondo le aspettative dell'azienda, sia convinta di «pensare con la propria testa».

— Una visione del mondo piuttosto cinica, — osservò Tsukuru.

— Può darsi che si possa definire cosí.

— Sí, ma non credo che riusciate a inculcare un tale senso della disciplina a tutti i soggetti che partecipano ai vostri seminari...

— Infatti. Ci sono molte persone completamente impermeabili al nostro programma. Sono personaggi che si dividono in due categorie. La prima comprende gli antisociali. Gli «outcast», si direbbe in inglese. Sono quelli che rifiutano per principio chiunque assuma una posizione costruttiva, non accettano di essere inquadrati in un gruppo, di dover obbedire a delle regole. Occuparsi di queste persone è una perdita di tempo, non si può far altro che chieder loro di farsi da parte. L'altra categoria è formata da persone che realmente pensano con la loro testa. Queste è meglio prenderle cosí come sono. Utilizzarle nel modo giusto. In qualunque sistema, tali... «eletti» sono necessari. E se tutto va come deve andare, finiscono col diventare dei leader. Detto ciò, in mezzo a queste due categorie c'è una fascia di persone — la maggior parte della gente — che esegue alla lettera gli ordini che riceve. Piú o meno l'ottantacinque per cento della popolazione, stando a una stima approssimativa. È su quell'ottantacinque per cento che ho basato il mio business.

— Business che ha soddisfatto le tue aspettative.

Aka annui.

— Assolutamente sí. Per il momento, almeno, si sta sviluppando in accordo alle mie previsioni. All'inizio era una piccola agenzia con un paio di dipendenti, ma ora ci siamo allargati fino a metter su un ufficio come questo che vedi. E ci stiamo facendo un nome.

— Insomma, hai trasformato le cose che non volevi fare o subire in dati, modelli, li hai studiati e ci hai costruito intorno il tuo business. Questo è stato il punto di partenza.

Aka annui.

— Esatto. Non è difficile visualizzare quello che non vuoi fare o che non vuoi subire. Cosí come non è difficile visualizzare quello che vuoi fare. Si tratta solo di decidere se essere negativi o positivi, la differenza è tutta lí. Un semplice problema di scelta della direzione.

A Tsukuru tornarono in mente le parole che aveva detto Ao: «Io il suo lavoro non lo farei volentieri, proprio per niente».

— Sí, ma forse è anche una tua personale rivincita nei confronti della società, dopo essere stato emarginato per tanto tempo per la tua intelligenza, — disse Tsukuru.

— Può darsi che tu abbia ragione, — ammise Aka. Poi sorrise soddisfatto e fece schioccare le dita. — Ottimo servizio. Vantaggio per Tazaki Tsukuru.

— E tu presiedi personalmente a questi corsi? Fai lezione in piedi davanti a tutti?

— Sí, all'inizio facevo tutto io, anche quello. Non c'era nessun altro di cui mi fidassi. Di' la verità, Tsukuru, riesci a immaginarmi? Mi vedi a parlare a una platea di persone?

— No, per niente, — rispose sinceramente Tsukuru.

Aka rise. — Eppure anche in questo me la cavavo bene. Modestia a parte, sono piuttosto dotato. Era tutta scena, ovviamente. Riuscivo a essere persuasivo senza per questo scostarmi troppo dalla realtà. Adesso però non mi occupo piú dei corsi. Non sono un guru, sono un manager. In tutto e per tutto. Di cose da fare ne ho davvero una montagna. Adesso formo gli istruttori, ai quali delego anche il lavoro d'ufficio. In piú, di questi tempi mi capita spesso di tenere delle conferenze: vengo invitato dalle aziende per dei corsi interni o dalle università per parlare nei seminari di orientamento professionale... Sto anche scrivendo un libro che mi ha commissionato una casa editrice.

A quel punto Aka fece una pausa e schiacciò il mozzicone della sigaretta nel portacenere.

— Questo genere di business, una volta consolidato il know-how, non è difficile da gestire. Si stampano dei bei dépliant, si fa una pubblicità di prim'ordine, si mette su una sede elegante in un quartiere prestigioso. La si arreda con mobili di buon gusto, si assume personale valido che si presenti bene e lo si paga adeguatamente. L'immagine è essenziale. Non bisogna aver paura di investire nell'immagine. Dopodiché il passaparola fa il resto: se ci si fa subito una buona reputazione, poi basta cavalcare l'onda. Ma per il momento ho deciso di non allargarmi oltre e ho circoscritto il campo alle imprese della zona di Nagoya. Capisci, non posso garantire la qualità del mio lavoro se opero in un territorio che non ho sotto controllo.

A quel punto Aka cercò lo sguardo di Tsukuru.

— Di' la verità, di come funziona la mia agenzia non ti importa niente, vero?

— Piú che altro sono stupito. Non avrei mai immaginato, quando avevamo vent'anni, che avresti messo su un'attività del genere.

— Non lo immaginavo neanch'io, — disse Aka, e poi rise.

— Pensavo che avrei intrapreso la carriera universitaria, che sarei diventato professore. Ma quando sono arrivato all'università ho capito che non ero proprio portato per lo studio e la ricerca. È un mondo terribilmente noioso. Non volevo passare la mia vita lí dentro. E quando mi sono laureato e ho trovato posto in banca, ho capito che non ero fatto nemmeno per lavorare in un ufficio. È stata una serie di tentativi e di errori. Però sono riuscito a trovare la mia strada e non mi lamento. E tu, che mi dici? Sei soddisfatto del tuo lavoro?

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