Autore Haruki Murakami
Titolo Norwegian Wood
SottotitoloTokyo Blues
EdizioneEinaudi, Torino, 2013 [2006], Super ET , pag. XX+384, cop.fle, dim. 13,5x20,8x2,4 cm , Isbn 978-88-06-21646-7
OriginaleNoruwei no mori [1987]
PrefazioneGiorgio Amitrano
TraduttoreGiorgio Amitrano
LettoreAngela Razzini, 2014
Classe narrativa giapponese












 

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Pagina 3

I.


Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai.

Quando l'aereo ebbe completato l'atterraggio, la scritta «Vietato fumare» si spense e dagli altoparlanti sul soffitto cominciò a diffondersi a basso volume una musica di sottofondo. Era Norwegian Wood dei Beatles in una annacquata versione orchestrale. E come sempre mi bastò riconoscerne la melodia per sentirmi turbato. Anzi, questa volta ne fui agitato e sconvolto come non mi era mai accaduto.

Nel tentativo di calmarmi, mi piegai coprendomi la faccia con le mani e restai assolutamente immobile. Dopo qualche istante la hostess tedesca si avvicinò e mi chiese in inglese se mi sentissi male. Non è nulla, risposi, solo un giramento di testa.

- Davvero non posso fare niente per lei?

- Davvero, non è nulla. Grazie, - dissi.

La hostess mi sorrise e si allontanò. La musica di sottofondo era adesso un pezzo di Billy Joel. Sollevai il viso, e mentre guardavo le nuvole scure sospese sopra il Mare del Nord, la mia mente andò a tutte le cose che avevo perduto nel corso della vita. Il tempo passato, le persone morte o mai piú riviste, le emozioni che non possono rivivere.

Fino a quando l'aereo non si fu completamente arrestato e i passeggeri non si slacciarono le cinture e cominciarono a prendere borse e soprabiti dai portabagagli, rimasi tutto il tempo in quel prato. Assaporavo il profumo dell'erba, sentivo il vento sulla pelle e i gridi degli uccelli. Era l'autunno del 1969, e di li a poco avrei compiuto vent'anni.

La hostess di prima tornò, si sedette nel posto accanto al mio e mi chiese: - Tutto bene?

- Sto bene adesso, grazie. All'improvviso mi era venuta un po' di malinconia, - dissi sorridendo. - Tutto qui.

- Capisco. Succede anche a me qualche volta, - rispose lei. Scosse un po' la testa, si alzò e con un sorriso molto carino mi disse: - Le auguro buon viaggio. Auf Wiedersehen.

- Auf Wiedersehen, - dissi io.


Anche adesso che sono passati diciott'anni, riesco ancora a ricordare chiaramente quel prato e il paesaggio intorno. Le montagne, che una dolce pioggia interminabile aveva lavato dalla polvere di tutta un'estate, si erano ricoperte di un verde profondo e smagliante, il vento di ottobre faceva fremere qui e là le piume dei susuki e nuvole lunghe e sottili aderivano perfettamente alla sommità del cielo, azzurro e trasparente come una lastra di ghiaccio. Il cielo era cosí infinito che a guardarlo fisso dava le vertigini. Il vento attraversava il prato facendo ondeggiare leggermente i capelli di lei prima di perdersi nel bosco. Sulle cime degli alberi le foglie frusciavano e in lontananza si sentiva un cane abbaiare. Era un abbaiare cosí lontano e fioco che sembrava provenire dai confini di un altro mondo. Ma per il resto il silenzio era assoluto. Nessun altro suono arrivava alle nostre orecchie, e non incontrammo anima viva. Vedemmo solo due uccelli di un rosso fiammante alzarsi in volo come se qualcosa li avesse spaventati, e allontanarsi in direzione del bosco. Mentre camminavamo, Naoko mi raccontava del pozzo.

Strana cosa la memoria. Nel momento in cui mi trovavo realmente lí, non mi rendevo nemmeno conto del paesaggio. Non mi sembrava che avesse niente di particolare, e non immaginavo neanche lontanamente che diciott'anni dopo avrei potuto ricordarmelo fin nei minimi dettagli. A dire la verità, in quel periodo non avrebbe potuto importarmene meno del paesaggio. Pensavo solo a me stesso, alla ragazza cosí bella che camminava al mio fianco, alla nostra storia, e poi ancora a me. Era un'età in cui qualunque cosa io potessi vedere, sentire, pensare, mi tornava sempre nelle mani come un boomerang. Per giunta ero innamorato, e quell'amore mi aveva portato in una situazione terribilmente complicata. Non c'era nessuno spazio per accorgersi del paesaggio.

Eppure adesso la prima cosa che affiora nella mia mente è proprio quel prato tra le montagne. L'odore dell'erba, il vento che portava dentro sé un gelo sottile, il profilo dei monti, l'abbaiare di un cane: sono queste le cose che per prime mi si affacciano alla mente. Chiarissime. Talmente chiare che ho quasi l'impressione, se allungo la mano, di poterne seguire i contorni con le dita ad una ad una. Ma in questo paesaggio non ci sono figure umane. Non c'è nessuno. Naoko non appare, io nemmeno. E mi chiedo dove siamo andati a finire noi due. Come è potuto succedere? Dove è andato a finire tutto quello che ci sembrava cosí prezioso, dov'è lei e dov'è la persona che ero allora, il mio mondo? Ma è inutile, ormai non riesco nemmeno a ricordare facilmente il viso di Naoko. Quello che mi resta è solo lo sfondo: un paesaggio senza figure.

Naturalmente, con un po' di tempo riesco a richiamare alla mente il suo viso. Ma prima appaiono le sue piccole mani fredde, quei bei capelli lisci cosí leggeri al tocco, i lobi delle orecchie morbidi e rotondi con sotto un piccolo neo, l'elegante cappotto di cammello che portava spesso d'inverno, quel suo modo di fare una domanda guardando sempre l'altro dritto negli occhi, la voce che a volte tremava per qualche ragione (era come se parlasse su una collina dove soffiava un vento fortissimo).

E solo se metto insieme tutte queste immagini, ad una ad una, allora il suo viso mi appare naturalmente, in un soffio. Prima riaffiora il suo profilo. Sarà forse perché io e Naoko camminavamo sempre fianco a fianco. Sí, dev'essere per questo che è sempre la cosa che ricordo per prima. Poi lei si volta verso di me, mi sorride dolcemente con il collo un po' inclinato e comincia a parlare, frugando nei miei occhi. Come se cercasse l'ombra di un pesciolino che guizza sul fondo di una chiara fontana.

Però, per ritrovare in questo modo il viso di Naoko, ci vuole un po' di tempo. E col passare degli anni, il tempo si allunga sempre di piú. È triste ma è cosí. Mentre prima per ricordarla mi bastavano cinque secondi, i cinque secondi sono diventati dieci, poi trenta, poi un minuto. Il tempo si è allungato pian piano, come le ombre al tramonto. E mi chiedo se di questo passo alla fine il suo viso non sarà inghiottito dall'oscurità. Non c'è dubbio che la mia memoria si stia allontanando da Naoko. Proprio come io mi sto allontanando dal ragazzo che ero allora. Cosí solo quel paesaggio, il paesaggio di quel prato in ottobre, come la scena chiave di un film, mi ritorna senza fine alla mente. E quell'immagine continua insistente, in qualche parte di me, a tirarmi dei calci e a gridare: ehi, svegliati! Non vedi che sono ancora qui? Svegliati e sforzati di capire. Di capire cosa ci sto ancora a fare qui.

Non è che mi faccia male. Non provoca nessun dolore. Ogni volta che tira dei calci si sente solo un rumore sordo, un rumore che forse finirà prima o poi anch'esso per scomparire come è scomparso tutto il resto. Ma in quell'aereo della Lufthansa nell'aeroporto di Amburgo, tutte queste immagini hanno continuato a sferrarmi dei calci, piú a lungo delle altre volte e con piú forza che mai. Svegliati, sforzati di capire! È per questo che sto scrivendo. Sono uno di quelli che per capire le cose ha assolutamente bisogno di scriverle.

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Pagina 39

Io leggevo molto i libri, è vero, ma non leggevo molti libri, perché a me piaceva leggere piú volte quelli che amavo. Gli scrittori che preferivo in quel periodo erano Truman Capote, John Updike, Francis Scott Fitzgerald e Raymond Chandler, ma né al corso né al collegio si trovava una sola persona che leggesse o amasse quel tipo di romanzi. Gli altri leggevano autori come Takahashi Kazumi, Ōe Kenzaburō e Mishima Yukio, ma anche gli scrittori francesi contemporanei avevano una discreta circolazione. Con gli altri il discorso sui libri faticava a ingranare, cosí io continuai a leggere per conto mio in silenzio. Leggevo e rileggevo lo stesso libro molte volte, e a volte chiudevo gli occhi e mi riempivo i polmoni del suo odore. Il semplice annusare quel libro, scorrere le dita tra le pagine, per me era la felicità.

La lettura favorita dei miei diciott'anni era stato Centauro di John Updike, ma a furia di rileggerlo il suo splendore iniziale si era a poco a poco appannato, e aveva finito col cedere la posizione in cima alla classifica al Grande Gatsby di Fitzgerald, che poi rimase il mio libro preferito ancora per molto molto tempo. Avevo preso l'abitudine, ogni volta che me ne veniva voglia, di prenderlo dallo scaffale, aprirne una pagina a caso e di leggere per un po' a partire da quel punto, e devo dire che mai, nemmeno una volta, mi deluse. Non c'era una sola pagina che presa a sé risultasse noiosa. Lo trovavo meraviglioso, e mi sarebbe piaciuto comunicare agli altri questo senso di meraviglia. Ma attorno a me non c'era una sola persona che avesse letto Il grande Gatsby, e nemmeno che fosse potenzialmente interessata. Nel 1968 Fitzgerald non era forse considerato reazionario, ma certo non era neanche uno degli autori raccomandati.

In quel periodo intorno a me c'era una sola persona che avesse letto Il grande Gatsby, e fu questa la ragione per cui stringemmo amicizia. Si chiamava Nagasawa, studiava legge all'Università di Tōkyō ed era due anni avanti a me. Vivendo nello stesso collegio ci conoscevamo di vista, ma un giorno, mentre sedevo al sole in un angolo della mensa leggendo Il grande Gatsby, si sedette accanto a me e mi chiese cosa stessi leggendo. Gli mostrai la copertina. Ti piace? mi chiese. È la terza volta che lo leggo da cima a fondo, ma piú lo leggo e piú ci scopro cose incredibili, dissi.

- Se c'è uno che legge tre volte Il grande Gatsby, siamo fatti per diventare amici, - disse come parlando fra sé. E fu cosí che facemmo amicizia. Questo accadde in ottobre.

Nagasawa era uno strano tipo. Me ne rendevo conto sempre di piú man mano che imparavo a conoscerlo. Di persone strane nel corso della mia vita ho avuto modo di incontrarne e conoscerne tante da aver perso il conto, ma non ho mai trovato uno piú strano di lui. Aveva letto talmente tanto che come lettore io non potevo neanche accostarmi a lui, ma di regola non prendeva in mano un libro se lo scrittore non era morto da almeno trent'anni. Come fai se no a fidarti? diceva.

- Con questo non voglio dire che non mi fido della letteratura contemporanea in assoluto. È solo che non vorrei sciupare del tempo prezioso leggendo opere che non hanno ricevuto il battesimo del tempo.

- Quali sono gli scrittori che ti piacciono? - provai a chiedere.

- Balzac, Dante, Joseph Conrad, Dickens, - rispose lui pronto.

- Non proprio gli autori del momento.

- È proprio per questo che li leggo. Se uno legge quello che leggono gli altri, finisce col pensare allo stesso modo. Queste cose lasciamole al mondo dei provinciali, alle mezze calzette. I tipi come si deve non fanno errori di gusto. Vuoi sapere una cosa, Watanabe? In questo collegio le uniche persone appena appena come si deve siamo io e te. Tutto il resto è robaccia.

- Ma come fai a dirlo? - chiesi io sconcertato.

- Sono cose che si capiscono. C'è gente che ha un marchio sulla fronte. Basta vederlo. E poi tutti e due leggiamo Il grande Gatsby.

Cercai di fare un rapido calcolo. - Però dalla morte di Scott Fitzgerald sono passati solo ventotto anni.

- Che importano, due anni? - disse lui. - Per un grande scrittore come Fitzgerald si può anche fare una piccola concessione.

Al collegio nessuno sospettava che in segreto lui fosse un avido lettore di classici, ma anche se si fosse venuto a sapere non sarebbe stata la notizia dell'anno. Lui era famoso per ben altre cose. La prima era senz'altro la sua intelligenza. Era stato ammesso all'Università di ōkyō senza il minimo sforzo, aveva sempre il massimo dei voti e una volta superato l'esame di stato sarebbe entrato al ministero degli Esteri per intraprendere la carriera diplomatica. Il padre dirigeva un grande ospedale a Nagoya e il fratello, che si era laureato in medicina, anche lui alla Università di ōkyō, avrebbe continuato il lavoro del padre. Sembrava la classica famiglia perfetta. Lui era sempre pieno di soldi e, per finire, si presentava anche molto bene. Perciò tutti lo guardavano dal basso in alto, ed era il solo capace di incutere soggezione perfino al direttore del collegio. Se faceva una richiesta a qualcuno, l'altro eseguiva all'istante senza la minima obiezione. Scontentarlo sarebbe stato inconcepibile.

Nagasawa sembrava possedere per natura qualcosa che gli permetteva di sedurre e sottomettere gli altri senza il minimo sforzo. La sua arte consisteva nel porsi dall'inizio in una posizione di superiorità da cui valutare al volo le situazioni, impartire istruzioni efficienti e precise, e ottenere dagli altri una docile sottomissione. Era come se attorno alla sua testa aleggiasse un'aureola tipo quella degli angeli, a testimoniare il potere di cui era dotato, e a chiunque bastava rivolgergli un'occhiata per convincersi che era un uomo superiore e lasciarsi prendere da un timore reverenziale. Perciò nessuno si capacitava del fatto che Nagasawa avesse scelto come amico uno come me senza nessun pregio particolare, ma per via di questo mi vidi trattare con una certa considerazione da gente che non conoscevo nemmeno. Nessuno si rendeva conto di quanto in realtà fosse semplice la spiegazione della sua scelta. La ragione per cui io piacevo a Nagasawa era che io non provavo per lui nessuna ammirazione né tantomeno venerazione. A me interessavano gli aspetti piú strani e contorti della sua personalità, ma i suoi voti brillanti, il carisma e il suo bell'aspetto mi lasciavano del tutto freddo. E penso che per lui questa dovesse essere una cosa molto rara.

Nagasawa era uno che dentro di sé combinava in maniera molto estrema diversi elementi contraddittori. A volte era di una gentilezza tale che io stesso ne ero commosso, eppure nel fondo era malvagio come pochi. Sapeva dimostrare una rara nobiltà d'animo e allo stesso tempo una inguaribile bassezza. E mentre con la sua grinta e il suo ottimismo trascinava la gente, il suo spirito annegava in una palude di tristezza e solitudine. Intuii dal primo momento questa sua natura contraddittoria, e non riuscivo a capacitarmi di come facessero gli altri a non vederla. Il suo inferno lo accompagnava a ogni passo.

Ma nonostante tutto provavo anche dell'affetto per lui. La sua piú grande virtú era la franchezza. Non mentiva per nessuna ragione, riconosceva sempre con esattezza i propri sbagli e i propri difetti, e non cercava di nascondere le cose che non gli facevano comodo. Nei miei confronti fu sempre generoso, in qualsiasi circostanza, e piú volte seppe essermi d'aiuto, rendendo la mia vita al collegio molto piú facile e piacevole. Tuttavia non riuscii mai a fidarmi davvero di lui, e in questo il mio rapporto con lui era di natura completamente diversa da quello che avevo avuto con Kizuki. Dopo aver visto Nagasawa picchiare senza pietà una ragazza da ubriaco, giurai che mai piú per nessuna ragione mi sarei fidato di lui.

Su Nagasawa all'interno del collegio circolavano svariate leggende. La prima era che aveva mangiato tre lumaconi vivi senza battere ciglio, un'altra era che aveva un pene immenso, un'altra ancora che alla sua età era già stato a letto con un centinaio di donne.

La storia dei lumaconi era vera. Fu lui a dirmelo quando glielo chiesi.

- Erano enormi, - disse.

- Ma perché hai fatto una cosa simile?

- Mah, sai, erano successe varie cose, - spiegò. - L'anno che sono entrato al collegio, ci furono un po' di problemi tra le matricole e i vecchi. Era settembre, mi pare. Fatto sta che come rappresentante delle matricole andai a negoziare con gli anziani. Il capo era uno di destra armato come un samurai, e non tirava per niente aria di trovare accordi. Cosí dissi: «Ho capito, se questo può servire a risolvere la questione, farò qualsiasi cosa voi chiediate». Allora quello mi fa: «Bene, se è questo che vuoi, prova a mangiare questi». «Va bene, - dissi io, - sono pronto». E li mangiai. Tre lumaconi grossi cosí e dovetti mandarli giú, vivi.

- Che sensazione hai provato?

- Sai, come tutte le sensazioni, anche quella di mangiare dei lumaconi vivi la può capire solo qualcuno che l'ha provata. Il momento in cui, slup ! , ti scivola attraverso la gola e poi, plop!, ti piomba nello stomaco, è veramente atroce. Sono freddi, e poi dopo ti resta quel sapore in bocca... Ancora adesso se ci ripenso mi vengono i brividi. Ho lottato disperatamente per non vomitare. Perché se avessi vomitato li avrei dovuti ingoiare da capo. Cavoli, li mandai giú uno dietro l'altro.

- E dopo averli mangiati che hai fatto?

- Tornai in camera e ingurgitai litri di acqua salata, - disse Nagasawa. - Che altro potevo fare?

- Eh, già, - convenni.

- Però da allora non c'è stato piú nessuno che abbia osato dirmi qualcosa. Nessuno, inclusi gli anziani. Non c'è nessun altro capace di mandare giú tre lumaconi vivi.

- Ah, di questo sono sicurissimo, - dissi io.

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Pagina 80

- Io in realtà non ci sarei voluta venire a questa scuola, - disse Midori, scuotendo leggermente la testa. - Sarei voluta andare a una scuola pubblica. Una normalissima scuola per persone normalissime. E avrei trascorso felice e spensierata la mia adolescenza. Invece, per la vanità dei miei sono stata costretta a iscrivermi qui. Cose che capitano, quando una ha voti alti alle elementari. La mia maestra disse: «Con questi voti la bambina potrebbe essere iscritta a quella scuola». E i miei non se lo fecero dire due volte. Ci ho passato sei anni ma anche col tempo non mi è mai piaciuta. Ci andavo pensando sempre la stessa cosa: ah, se potessi uscirne anche solo un giorno prima, anche solo un giorno prima! E bada che io ho ricevuto persino il premio per non essere mai arrivata in ritardo e non aver fatto mai assenze. Anche se odiavo tanto la scuola. E sai perché?

- Non lo so, - dissi.

- Proprio perché la odiavo fino alla morte, questa scuola. Per questo non ho fatto un solo giorno di vacanza. Potrebbero fregarmi, pensavo. E se mi avessero fregato una sola volta per me sarebbe stata la fine. Temevo uno smacco completo. Anche con la febbre a trentanove mi trascinavo fino a scuola. E se la maestra mi diceva: «Kobayashi, ma sei sicura di sentirti bene?» io mentivo dicendo: «Sí, sto bene, non è niente», e stringevo i denti. E cosí come premio per il minor numero di ritardi e assenze mi diedero il dizionario di francese. È per questo che poi all'università mi sono iscritta a tedesco. Avrei odiato sentirmi in debito con quella scuola, fosse pure per una sciocchezza del genere. Ma non è stato uno scherzo, ti assicuro.

- Ma cos'era che non ti piaceva della scuola?

- A te la scuola piaceva?

- Non mi piaceva né mi dispiaceva. Io sono andato a quello che tu chiami un normalissimo liceo pubblico, ma piú che altro non me ne fregava molto.

- Questa, - disse Midori stropicciandosi gli occhi ai lati con i mignoli, - è una scuola dove si raccolgono le ragazze dell'élite. Ce ne sono quasi mille: tutte con voti alti e un'educazione raffinata. E tutte piene di soldi. Devono esserlo. Prima di tutto la retta è altissima, poi ci sono costantemente offerte da fare, per la gita scolastica prenotano un intero albergo tradizionale a Kyōto, un posto extralusso dove ti servono la kaiseki ryōri su tavolinetti di lacca, e una volta l'anno ti portano a lezione di table manners all'Hotel Okura. Se tu questo me lo chiami normalissimo... Ma vuoi sapere una cosa? Tra le centosessanta ragazze del mio anno io ero l'unica che abitasse a Toshima. Una volta ho provato a guardare l'elenco con gli indirizzi di tutte. E loro, loro dove abitavano invece? Una cosa incredibile: Chiyoda-ku Sanbanchò, Minato-ku Motoazabu, Oda-ku Den'enchōfu, Setagaya-ku Seijō... solo i quartieri piú chic. C'era solo una ragazza di Chiba, Kashiwa si chiamava, e io cercai di fare amicizia con lei. Era una ragazza simpatica. Vieni a casa mia, mi disse, lo so che è molto lontano ma mi farebbe tanto piacere. Va bene vengo, dissi io. Andai. Senti, non potevo credere ai miei occhi. Solo per girare tutta la casa ci voleva un quarto d'ora. C'era un giardino da favola con due cani ognuno della grandezza di quella utilitaria che mandavano giú pezzi di carne di manzo grossi cosí. Eppure lei, per il fatto di abitare a Chiba, aveva un complesso rispetto alle altre della classe. Ti parlo di una ragazza che se correva il rischio di arrivare in ritardo si faceva accompagnare in Mercedes Benz fino alla scuola. La macchina era guidata dall'autista che naturalmente sembrava uscito da Green Hornet, con tanto di berretto e guanti bianchi. Ciò nonostante, quella ragazza si vergognava. Una cosa da non credere! Non è una cosa da non credere?

Feci di sí con la testa.

- Se cerchi in tutta la scuola non troverai un'altra ragazza che abita a Toshima-ku, Kita-Ōtsuka. E non solo. Nel registro con le professioni dei genitori, al nome di mio padre c'è scritto «Commercio librario». Per fortuna nella mia classe l'hanno presa per una cosa molto speciale. Dicevano: beata te, puoi sempre avere tutti i libri che vuoi. Non è che mi prendessero in giro. Loro immaginavano librerie immense tipo Kinokuniya. Neanche pensano che una libreria possa essere qualcosa di diverso. E invece fa proprio pena la nostra libreria. Povera Libreria Kobayashi! Quando entri (la porta fa un gran baccano) ti trovi davanti in fila pile di riviste. Quelle che vendono di piú sono le riviste per signore, roba con supplementi illustrati di quarantotto pagine sulle piú recenti tecniche sessuali. Le signore del vicinato le comprano, le leggono con attenzione sedute al tavolo di cucina, e quando torna il marito provano a mettere in pratica qualcosa. Cose che se le vedi non ci credi. Ma che cosa avranno in testa tutte queste casalinghe? E poi i manga. Anche questi vendono molto: «Magazine», «Sunday», «Jump». Poi naturalmente i settimanali. Insomma praticamente vendiamo soprattutto riviste. Ci sono anche un po' di libri, solo tascabili, ma niente di serio. Gialli, storie di samurai, romanzi rosa, sono le uniche cose che si vendono. E naturalmente manuali: come imparare a giocare a go, come coltivare i bonsai, come preparare i discorsi per i matrimoni, tutto quello che dovete assolutamente sapere sul sesso, come smettere di fumare eccetera eccetera. Ma da noi si vende anche la cancelleria. Vicino alla cassa ci sono penne, matite, quaderni e tutto il resto. Fine. Non trovi Guerra e pace, né l'ultimo di Ōe Kenzaburō, e neanche Il giovane Holden. Ecco la Libreria Kobayashi. Vorrei sapere cosa c'è da invidiare. Trovi che ci sia da invidiare?

- Mi sembra di vederla con i miei occhi.

- Sí, è un negozio cosí. Dalle nostre parti vengono tutti a comprare da noi, abbiamo anche un servizio a domicilio, e abbiamo sempre avuto molti clienti. Abbastanza da mantenere quattro persone senza problemi. Non abbiamo debiti. Noi figlie possiamo andare tutt'e due all'università. Ma questo è tutto. Non abbiamo disponibilità che ci permettano di fare piú di tanto. Perciò io non sarei mai dovuta andare in una scuola come questa. È servito solo a creare problemi a me. Ogni volta che ci chiedevano di fare una offerta, ti parlo di beneficenza, i miei genitori facevano mille storie. Se uscivo con delle mie compagne, al momento di andare a mangiare si finiva sempre in qualche ristorante di lusso e io stavo tutto il tempo sulle spine per paura che non mi bastassero i soldi. È dura vivere cosí, sai? I tuoi sono ricchi?

- I miei? Normalissima gente che lavora. Né ricchi né poveri. Per mantenermi a studiare a Tōkyō in una università privata credo che facciano un po' di sacrifici, ma relativi dato che sono figlio unico. I soldi che mi mandano al mese non sono tanti, quindi faccio dei lavori part-time. Hanno una normale casetta unifamiliare con piccolo giardino e come macchina una Toyota Corolla.

- Che lavoro fai?

- Tre volte alla settimana faccio il turno serale in un negozio a Shinjuku. Un lavoro rilassante. Non devo fare altro che stare seduto e vendere i dischi.

- Davvero? - disse Midori. - Ti facevo un tipo che non aveva mai avuto problemi di soldi. Forse dall'aspetto.

- Infatti non ho veri problemi. Ma non ho neanche questa barca di soldi. Nella media, credo.

- Alla mia scuola tutte erano piene di soldi, - disse lei appoggiando le mani sulle ginocchia con le palme rivolte in alto. - Questo è stato il mio problema.

- Vedrai che d'ora in poi di gente cosí non ne vedrai piú tanta.

- Sai qual è il piú grosso vantaggio di essere ricchi?

- Non lo so.

- La libertà di poter dire che non hai soldi. Per esempio se io proponevo a delle compagne di fare qualcosa insieme, capitava spesso che rispondessero: «Stavolta non posso, perché non ho una lira».

- Ma se accadeva il caso inverso, io non potevo rispondere allo stesso modo. Se io avessi detto «Non ho una lira» avrebbe voluto dire che veramente non avevo una lira. Sarebbe stato patetico. È come quando una ragazza bella dice: «Oggi non posso uscire di casa perché sono un mostro». Prova a pensare l'effetto se a dire la stessa cosa è una brutta. La gente si mette solo a ridere. Cosí è stata la vita per me per sei lunghi anni, fino all'anno scorso.

- Vedrai che con un po' di tempo dimenticherai.

- Vorrei dimenticare il piú presto possibile. Per me entrare all'università è stato un vero sollievo. Mai vista tanta gente normale.

Le labbra leggermente piegate in un mezzo sorriso, si accarezzò i capelli cortissimi col palmo della mano.

- E tu fai qualche lavoro-part-time? - chiesi.

- Sí, scrivo testi per le mappe. Hai presente quei libretti che vendono con le mappe? Dove ci sono scritte delle spiegazioni sulle città, il numero degli abitanti, i luoghi famosi? Il tale percorso turistico, la tale leggenda, i fiori e gli uccelli caratteristici di un posto... Il mio lavoro è scrivere queste cose. Non c'è niente di piú facile. Bazzecole. Vado alla biblioteca di Hibiya; e in un giorno finisco un intero volume. Poi se impari qualche trucco del mestiere ti arriva tutto il lavoro che vuoi.

- E quali sarebbero i trucchi del mestiere?

- Per esempio, se riesci a inserire delle cose che di solito gli altri non mettono. Allora il redattore della ditta che pubblica queste mappe pensa: «Questa ragazza sa scrivere!» Cosí si è molto apprezzati, e piovono richieste. Non è che bisogna scrivere chissà che cosa, bastano delle notizie piccole piccole. Per esempio: «Per costruire la tale diga è stato sommerso un villaggio, ma gli uccelli migratori, che ancora se lo ricordano, all'arrivo della stagione si recano lí, e sorvolano il lago che sorge dove un tempo era il villaggio, in tondo in tondo, infinite volte. Questa scena si può ammirare ancora oggi». Ecco, se uno riesce a inserire un aneddoto come questo, loro sono felicissimi. Pittoresco e commovente, no? Le altre ragazze che fanno questo lavoro non usano questi accorgimenti, di solito. Perciò io riesco a fare un bel po' di soldi, scrivendo questi testi.

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Pagina 231

- Hai mai letto Il Capitale? - chiese poi Midori.

- L'ho letto, anche se naturalmente non proprio fino in fondo. Piú o meno come tutti.

- L'hai capito?

- C'erano dei punti che capivo e altri che non capivo. Per recepire Il Capitale in modo corretto uno dovrebbe apprendere tutto un sistema di pensiero. Però naturalmente la teoria marxista nelle grandi linee credo di averla capita.

- Secondo te uno appena entrato all'università, che non ha mai letto niente del genere, e che prende in mano Il Capitale per la prima volta, riesce a capirlo senza problemi?

- Mah, questo mi sembrerebbe un po' troppo, - dissi.

- Allora senti questa. Quando ho cominciato l'università, mi piaceva cantare cosí entrai in un club di musica folk. Si rivelò un covo di mistificatori della peggior specie, che ancora a pensarci adesso mi vengono i brividi. Arrivati li per prima cosa ti davano da leggere Marx. Per la prossima volta leggete da pagina tot a pagina tot. E non mancò un sermone su come le canzoni folk dovessero essere collegate alla società e al radicalismo. C'era poco da fare: tornata a casa mi dovetti mettere a leggere Marx. Ma non ci capivo niente, molto peggio del condizionale. Dopo tre pagine lasciai perdere. Cosí alla successiva riunione spiegai che avevo provato a leggere ma non ci avevo capito un tubo. Mi trattarono come un'idiota. Non avevo la minima coscienza critica, mancavo totalmente di visione sociale. Fu tragico, sai? E solo perché avevo confessato di non aver capito un testo. Non ti sembra una cosa orrenda?

Annuii.

- Per non parlare poi della discussione. Tutti usavano le parole piú difficili con l'aria di chi non ha fatto altro in vita sua. Io che non capivo mi azzardavo a fare domande tipo: «Che vuol dire sfruttamento imperialistico? Ha qualcosa a che fare con la società dell'India orientale?» o «Distruggere la cooperazione industria-università significa che dopo la laurea non bisogna cercare lavoro presso un'industria?» Ma nessuno mi dava spiegazioni. Anzi, si arrabbiavano sul serio. Ti rendi conto?

- Mi rendo conto sí.

- Come è possibile che non capisci queste cose? mi dicevano. Come pensi di vivere senza un'idea nel cervello? Ma io sono quella che sono. Non sarò molto intelligente. Sono una persona comune. Ma non sono le persone comuni quelle che sostengono la società, e quelle che vengono sfruttate? E sbandierare di fronte alle persone comuni parole che non possono capire me lo chiamate rivoluzione? Trasformazione della società? Io vorrei fare veramente qualcosa per migliorare le condizioni della società. E credo che se ci sono veramente persone sfruttate bisogna mettere fine a questa cosa. E non è proprio per questo che facevo domande cercando di capire?

- Sí, credo di sí.

- Allora pensai: questi sono solo una massa di mistificatori. Si compiacciono di usare paroloni difficili a effetto per suscitare l'ammirazione delle ragazze appena entrate all'università, e in realtà pensano solo a infilare le mani sotto alle gonne. Poi quando arrivano al quarto anno si tagliano i capelli, trovano un bell'impiego alla Mitsubishi, alla TBS, all'IBM o alla Banca Fuji, si prendono una moglie carina che non ha mai letto una parola di Marx e affibbiano ai loro bambini i nomi piú pretenziosi che trovano. Altro che «Distruzione della cooperazione università-industria!» C'è da piangere dalle risate. Gli altri appena iscritti come me neanche a parlarne. Anche se non avevano capito un bel niente facevano la faccia di chi ha capito perfettamente ed è dalla parte giusta. E poi in privato mi dicevano: «Non fare la scema, anche se non capisci basta che dici "sí, sí" o "ah, ma davvero!" e tutto andrà bene». Ma c'è stata una cosa che mi ha fatto andare ancora piú in bestia. Vuoi sentire?

- Dimmi.

- Una sera dovevamo partecipare a un'assemblea e a noi ragazze fu ordinato di preparare e portare venti o-nigiri a testa per uno spuntino notturno. Si può immaginare una cosa piú maschilista? Comunque, siccome non volevo essere sempre la solita rompiscatole, senza dire una parola preparai i miei venti o-nigiri, ripieni di umeboshi e avvolti nelle alghe. E vuoi sapere dopo che cosa mi son sentita dire? «Kobayashi ha fatto gli o-nigiri mettendoci dentro solo umeboshi, e non ha fatto nemmeno un contorno». Le altre ragazze li avevano riempiti con salmone, bottarga e avevano preparato frittatine di contorno. Io rimasi come una scema, senza spiccicare parola. Come mai loro che si riempivano la bocca di rivoluzione e roba del genere si mettevano a fare una questione sugli o-nigiri di uno spuntino notturno? Per i loro palati raffinati non bastava il ripieno di umeboshi e l'esterno di alghe. Ma pensate a quei poveri bambini dell'India!

Scoppiai a ridere.

- E poi come andò a finire questo club?

- A giugno me ne andai, ero talmente indignata, - disse Midori. - Ma non è solo il club. Tutta l'università è piena di questi ipocriti. Passano la loro vita tremando, nel terrore che gli altri possano scoprire che non hanno capito qualcosa. E naturalmente leggono tutti gli stessi libri, si riempiono tutti degli stessi paroloni, ascoltano tutti John Coltrane e si esaltano con i film di Pasolini. Sarebbe questa la rivoluzione?

- Non chiedere a me. Non mi è mai capitato di vederne una.

- Se la rivoluzione è questa, meglio farne senza. Qui sono capaci di fucilarti con l'imputazione di aver messo solo l' umeboshi nell' o-nigiri. E guarda che anche tu di sicuro saresti tra i giustiziati. Magari perché capire il condizionale è controrivoluzionario.

- Ah, non mi stupirei, - dissi.

- A me, da persona comune quale sono, la situazione è molto chiara. Che scoppi o non scoppi la rivoluzione, le persone comuni continueranno a vivere modestamente nelle loro modeste abitazioni. Cosa vuoi che sia dopotutto la rivoluzione? Cambiare il nome del governo. Ma tutti quei signorini non lo capiscono, quelli che si riempiono la bocca di tante parole idiote. Ma tu l'hai mai visto un agente delle tasse?

- Mai.

- Io sí, tante di quelle volte. Entravano a casa nostra senza nessun riguardo, pieni di tracotanza. Che roba è questo registro? Strani affari combinate qui. Volete farmi credere che queste sono le spese? Forza, tirate fuori le ricevute, ho detto le ricevute, chiaro? Noi ci mettevamo da parte in un angolo e quando era ora di pranzo ordinavamo per loro del sushi di ottima qualità. E bada che mio padre è uno che non ha mai nemmeno una volta cercato di fregare le tasse. Davvero, eh. È fatto cosí, è di vecchio stampo. Ciò nonostante gli agenti delle tasse non gli davano tregua. Per esempio trovavano da ridire che le entrate erano troppo basse. Come se questa fosse una cosa che dipendeva da lui! A sentire queste cose mi si torceva lo stomaco. Avrei voluto gridargli: queste cose vagliele a dire a quelli che i soldi ce li hanno sul serio. Che dici, se scoppia la rivoluzione, gli agenti delle tasse cambieranno atteggiamento?

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