Autore Haruki Murakami
Titolo Vento & Flipper
EdizioneEinaudi, Torino, 2016, Supercoralli , pag. 234, cop.rig.sov., dim. 14x22x2,2 cm , Isbn 978-88-06-22798-2
OriginaleKaze no uta o kike [1979] - 1973 nen no pin bōru [1980]
TraduttoreAntonietta Pastore
LettoreAngela Razzini, 2016
Classe narrativa giapponese












 

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Indice


    3   Romanzi nati sul tavolo di cucina


   13   Ascolta la canzone del vento

  107   Flipper, 1973
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Pagina 3

Romanzi nati sul tavolo della cucina

Introduzione a due romanzi brevi


La maggior parte della gente - nella società giapponese, perlomeno - prende un diploma, poi trova un lavoro e dopo un po' di tempo si sposa. Anch'io all'inizio avevo intenzione di seguire questo percorso. O, quantomeno, pensavo che le cose piú o meno sarebbero andate cosí. In realtà, prima mi sono sposato, poi ho iniziato a lavorare, e dopo, finalmente, mi sono laureato. Insomma, ho fatto tutto all'incontrario.

Nonostante fossi sposato, l'idea di lavorare in una azienda non mi andava giú, cosí decisi di aprire un locale mio. Un posto dove la gente potesse ascoltare jazz, bere un caffè o una bibita, mangiare un boccone. Poiché adoravo il jazz, sarebbe stato piacevole averlo nelle orecchie dal mattino alla sera, pensavo nella mia concezione semplicistica e facilona del lavoro. Peccato che mia moglie e io, essendo ancora studenti, non avessimo soldi. Di conseguenza per tre anni, al fine di mettere insieme un po' di denaro, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo accettato ogni sorta di lavoretto, e chiesto prestiti a destra e a manca. Poi, con quanto raggranellato, abbiamo aperto un locale nel quartiere di Kokubunji, una zona frequentata da studenti, nella periferia ovest di Tōkyō. Era il 1974.

All'epoca un giovane, per lanciare un'attività commerciale, non aveva bisogno di somme esorbitanti come oggi. Non era raro che le persone come me - poco portate per la vita dell'impiegato - aprissero un piccolo locale da qualche parte: caffè, ristorantini, librerie, negozi di roba varia... Anche intorno al nostro bar c'erano diversi esercizi messi su da gente della nostra generazione. A Kokubunji si respirava ancora forte la controcultura, era il rifugio di quel che restava del movimento studentesco. Vi si potevano ancora trovare degli spiragli nella compattezza del sistema sociale.

Portai da casa dei miei genitori il mio vecchio piano verticale e nei weekend cominciai a offrire ai clienti musica live. Nel quartiere vivevano diversi giovani musicisti jazz, che erano felici - forse - di suonare per un modesto compenso. Alcuni di loro adesso sono diventati famosi, e mi succede di incontrarli nei jazz club di tutta Tōkyō.

Facevamo la vita che ci piaceva, certo, ma pagare tutti quei debiti era una fatica improba. Avevamo chiesto prestiti sia in banca che agli amici. Una volta che non eravamo riusciti a racimolare la somma mensile da rimborsare alla banca, mia moglie e io stavamo camminando in piena notte a testa bassa, quando trovammo a terra delle banconote. Fosse una straordinaria coincidenza o un aiuto del destino, fatto sta che era esattamente la cifra di cui avevamo bisogno. Visto che la scadenza era il giorno dopo, ci sentimmo graziati dal destino (nel corso della mia esistenza, prodigi del genere mi sono accaduti in piú occasioni). In realtà avremmo dovuto consegnare il denaro alla polizia, ma non potevamo permetterci il lusso di tanta onestà.

In ogni caso, fu un periodo divertente, questo è sicuro. Ero giovane, pieno di energia, potevo ascoltare la mia musica preferita quanto volevo, ed ero il sovrano del mio piccolo regno. Non avevo l'obbligo di sopportare tragitti quotidiani su treni affollati, riunioni noiosissime, capi ufficio odiosi davanti ai quali dover abbassare la testa. Inoltre avevo l'opportunità di incontrare un sacco di gente interessante.

Per questi motivi, dai venti ai trent'anni ho passato la maggior parte del mio tempo a fare dei lavori manuali (tipo preparare sandwich, mescolare cocktail o buttare fuori ubriachi molesti...) al fine di pagare i debiti. A un certo punto, dato che il palazzo di Kokubunji dove si trovava il bar sarebbe stato rinnovato, dovemmo trasferirci piú in centro, nella zona di Sendagaya. Il locale era piú grande e piú nuovo, c'era anche posto per un piano a mezza coda, ma i debiti aumentarono in proporzione. Non era ancora il momento di tirare il fiato.

Voltandomi indietro, tutto quello che ricordo è quanto lavoravamo. Immagino che la maggior parte della gente in gioventú non si ammazzi di fatica, di certo io non ho conosciuto la spensieratezza che di solito si attribuisce alla primavera della vita. Quel poco di tempo libero che mi restava lo passavo a leggere. Per quanto fossi oberato di lavoro, stressato o stanco, leggere e ascoltare la musica per me erano sempre dei piaceri immensi. Dei piaceri che non ho permesso a nessuno di portarmi via.

Man mano che mi avvicinavo ai trenta, il nostro bar di Sendagaya cominciava a ingranare anche dal punto di vista economico. Non potevamo sentirci del tutto tranquilli - avevamo ancora dei debiti, c'erano alti e bassi -, ma ci sembrava che, continuando di quel passo, alla fine ce l'avremmo fatta.


Un pomeriggio di aprile del 1978, stavo guardando una partita di baseball al Jingū Stadium, non lontano da casa mia. Era l'inizio della stagione della Central League, gli Yakult Swallows contro gli Hiroshima Carp. Io ero già un tifoso degli Swallows, cosí ogni tanto, invece di fare una passeggiata, andavo a vederli.

All'epoca gli Swallows erano delle schiappe (già dal nome, «rondini» ma anche gergalmente «boccaloni», non promettevano niente di buono), non avevano soldi e nemmeno giocatori famosi. Di conseguenza, com'è ovvio, a fare il tifo per loro eravamo quattro gatti. Anche per un inizio di stagione, gli spettatori quel giorno erano pochissimi. Me ne stavo sdraiato da solo sul prato e guardavo la partita bevendo una birra. A quei tempi, al Jingū, non c'erano gli spalti per gli spettatori, solo un pendio erboso. Il cielo era di un azzurro terso, la birra ben fredda, e contro il verde dell'erba - la prima che vedessi dopo tanti mesi - la palla bianca si stagliava nettamente. Il primo battitore degli Swallows era Dave Hilton, un americano magro che nessuno conosceva. Il quarto era Charlie Manuel, che poi divenne famoso come manager dei Cleveland Indians e dei Philadelphia Phillies. All'epoca era davvero forte, un battitore valoroso che i fan giapponesi avevano soprannominato «il diavolo rosso».

Mi pare che il primo lanciatore degli Hiroshima Carp, quel giorno, fosse Sotokoba. Per gli Yakult era Yasuda. Nella seconda parte del primo inning, Hilton spedí la prima palla di Sotokoba sulla sinistra, e catturò la seconda base. Il bel suono secco della mazza che colpiva la palla percorse lo stadio. Ci furono degli applausi. Fu in quel momento che, senza una ragione al mondo, tutt'a un tratto pensai: «Sí, anch'io posso scrivere un romanzo!»

Ricordo ancora perfettamente la sensazione che provai in quel momento: avevo afferrato qualcosa che era sceso volteggiando dal cielo. Non sapevo perché fosse venuto ad atterrare proprio sul palmo delle mie mani. Non lo capivo allora, e non lo capisco oggi. Ma era successo, qualunque fosse la ragione. Era stata una sorta di rivelazione. O forse sarebbe meglio definirla un'epifania. Tutto quello che posso dire è che la mia vita è cambiata drasticamente in quell'attimo, quando Dave Hilton, al Jingū Stadium, conquistò quella splendida seconda base.

Dopo la partita - vinta dagli Yakult - andai in treno a Shinjuku, comprai una risma di fogli e una penna stilografica. All'epoca computer e word processor erano ancora una rarità, si doveva per forza scrivere a mano, un carattere dopo l'altro. Però era una sensazione che aveva una freschezza nuova, per me. Ricordo ancora l'emozione che mi riempiva il petto. Era da tempo immemorabile che non tenevo in mano una penna stilografica.

Ogni notte, quando tornavo a casa dal lavoro, mi sedevo al tavolo della cucina e scrivevo. Quelle ore prima dell'alba erano il solo tempo libero che avessi. Nei sei mesi seguenti riuscii cosí a scrivere Ascolta la canzone del vento. Terminai la prima stesura proprio quando la stagione di baseball finiva. A proposito, quell'anno gli Yakult Swallows, contrariamente a ogni previsione, vinsero la Central League, poi nella Japan Series sbaragliarono i campioni della Pacific League, gli Hankyū Braves, che avevano dei battitori fortissimi. Fu una stagione miracolosa che mandò i tifosi in visibilio.

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5.


Era pazzesco come il Sorcio non leggesse mai nulla. Le uniche cose che gli ho visto leggere, a volte, erano delle lettere o delle riviste sportive. Se invece io, per ammazzare il tempo, prendevo in mano un libro, lui mi guardava con lo stesso sconcerto con cui una mosca guarderebbe uno scacciamosche.

- Perché leggi dei libri?

- Perché bevi della birra? - gli risposi senza nemmeno guardarlo, mangiando ora un pezzo di merluzzo marinato, ora un po' di insalata. Il Sorcio ci pensò su a lungo, riapri la bocca solo dopo cinque minuti:

- La cosa buona della birra è che la puoi pisciare fuori tutta. One-out, one-on double play. Non resta niente.

Continuò a osservarmi mentre mangiavo.

- Allora? Perché leggi sempre dei libri?

Mandai giú l'ultimo pezzo di merluzzo con un sorso di birra, misi via il piatto, poi presi L'educazione sentimentale che avevo posato accanto a me, e ne feci scorrere velocemente le pagine.

- Perché Flaubert ormai è morto e sepolto, - risposi.

- Non leggi libri di scrittori viventi?

- Gli scrittori viventi non valgono niente.

- Perché?

- Perché quando una persona è morta, hai l'impressione di poterle perdonare quasi tutto, - risposi guardando una replica di Route 66 sul televisore portatile che si trovava al di là del bancone. Di nuovo il Sorcio si immerse nei suoi pensieri.

- E alle persone vive e vegete? Non puoi perdonare quasi tutto?

- Mah, non saprei... Non è che ci abbia pensato molto seriamente. Ma se proprio mi trovassi nella necessità di farlo, se fossi messo alle corde, be', forse no. Forse non riuscirei a perdonarle.

Jay venne a mettere altre due birre davanti a noi.

- E poi cosa faresti?

- Abbraccerei il cuscino e mi metterei a dormire.

Il Sorcio scosse la testa, perplesso.

- Che idea strampalata. Non so cosa pensarne, - disse.

Gli riempii di nuovo il bicchiere, ma lui, rannicchiato su se stesso, continuava a riflettere.

- Quand'è stata l'ultima volta che ho letto un libro? Forse l'estate scorsa, - riprese dopo un po'. - Ho dimenticato sia il titolo che l'autore. Ho dimenticato anche perché l'ho letto. Comunque era un romanzo, scritto da una donna. La protagonista aveva una trentina d'anni ed era una famosa stilista di moda. Si era convinta di avere un male incurabile.

- Che male?

- L'ho scordato. Un cancro o qualcosa del genere. Ce ne sono altri, di mali incurabili?... Quindi va in un posto al mare e si masturba dal mattino alla sera. Dappertutto, nella vasca, nei boschi, sul letto, persino quando fa il bagno in mare.

- Si masturba in mare?

- Sí, in mare!... Da non crederci. Perché una deve scrivere un libro su una cazzata del genere? Quando ci sono un'infinità di argomenti ben piú interessanti!

- Mah...

- Romanzi cosí, no grazie! Mi fanno vomitare.

Approvai con un cenno del capo.

- Se dovessi scrivere un libro io, sarebbe una cosa del tutto diversa.

- Tipo?

Mentre rifletteva, il Sorcio passava il dito intorno al bordo del bicchiere.

- Che te ne pare di quest'idea? Sono su una nave, in mezzo al Pacifico, ma la nave affonda. Aggrappato al salvagente, sto guardando le stelle mentre galleggio tutto solo nell'oceano buio. È una notte tranquilla e bellissima. Ed ecco che vedo una giovane donna, anche lei aggrappata a un salvagente, venire nuotando verso di me.

- Una carina?

- Ovvio!

Bevvi un sorso di birra e scossi la testa.

- Mi sembra una gran boiata.

- Comunque ascolta. Dunque, io e lei passiamo ore uno accanto all'altra, a parlare del piú e del meno galleggiando nel mare. Da dove veniamo e dove stavamo andando, le cose che ci interessano, con quante donne sono andato a letto, i nostri programmi tv favoriti, i sogni che abbiamo fatto la sera prima... questo tipo di discorsi, insomma. Poi ci facciamo una birra.

- Fermo, fermo! Dove la trovate, la birra?

Il Sorcio rifletté un momento.

- Galleggia. Lattine di birra arrivano dalla dispensa della nave, portate dalla corrente. Insieme a scatole di sardine sott'olio. Cosí ti va bene?

- Mmh.

- Intanto si fa notte. «Adesso cosa facciamo? - mi chiede la ragazza. - Io provo a nuotare verso un'isola». Isole però non se ne vedono. «Meglio che restiamo qui a galleggiare e bere birra, - le dico io. - Vedrai che qualche aereo ci verrà in soccorso». Invece lei si allontana a nuoto, da sola.

A quel punto il Sorcio fece un sospiro, e bevve un sorso.

- Dopo aver nuotato due giorni e due notti, la ragazza riesce ad approdare su un'isola. Quanto a me, come al solito sto smaltendo la sbornia quando vengo soccorso da un aereo. E poi, alcuni anni dopo, ecco che ci incontriamo per caso in un piccolo bar di Yamanote.

- Scommetto che vi scolate di nuovo qualche birra.

- È una storia triste, non trovi?

- Piú o meno...




6.


Il romanzo del Sorcio aveva due punti buoni. Primo, non c'erano scene di sesso. Secondo, nessuno moriva. Tanto si sa che gli uomini vanno a letto con le donne, e muoiono. Quindi che bisogno c'è di ricordarglielo con un libro?


- Pensi che il mio sia stato uno sbaglio? - chiedeva la donna.

Il Sorcio beveva un sorso di birra e scuoteva lentamente la testa.

- Vuoi che ti dica una cosa? Tutti sbagliano.

- Cosa te lo fa pensare?

Il Sorcio si schiariva la gola, poi si leccava le labbra. Ma non rispondeva.

- Ho nuotato e nuotato, tanto da staccarmi le braccia. Avevo male ovunque e pensavo di morire. E continuavo a ripetermi che forse io avevo torto, e tu ragione. Perché mentre io soffrivo le pene dell'inferno, tu te ne stavi tranquillo a galleggiare sulle onde.

Cosí dicendo la donna faceva un risolino, poi si premeva le dita contro l'angolo degli occhi con aria sconfortata. Il Sorcio, irrequieto, cominciava a frugarsi in tasca. Per la prima volta, da tre anni che aveva smesso, suo malgrado voleva fumare.

- Mi hai augurato di morire?

- Be', sí, un po'...

- ... soltanto un po'?

- Non ricordo piú.

Seguiva un breve silenzio. Il Sorcio sentiva che avrebbe dovuto dire qualcos'altro.

- Sai, gli uomini non nascono tutti uguali.

- Chi l'ha detto?

- John F. Kennedy.




7.


Da bambino ero terribilmente taciturno. I miei genitori, preoccupati, mi portarono da un loro amico psicologo.

La casa di questo dottore si trovava su un'altura dalla quale si vedeva il mare. Mi sedetti sul divano di un salotto ben soleggiato e una gentile signora di mezza età mi portò del succo d'arancia ghiacciato e due ciambelle. Mangiai mezza ciambella, attento a non far cadere lo zucchero sulle ginocchia, e bevvi tutto il succo d'arancia.

- Ne vuoi ancora? - mi chiese il dottore. Scossi la testa. Eravamo rimasti soli, seduti uno di fronte all'altro. Dalla parete davanti a me, un ritratto di Mozart dallo sguardo schivo come quello di un gatto mi osservava.

- C'era una volta, tanto tempo fa, una capra molto amichevole.

Come inizio non era male. Chiusi gli occhi e mi immaginai la capra amichevole.

- La capra aveva sempre un pesante orologio d'oro attaccato al collo, e andava in giro soffiando e sbuffando. L'orologio non soltanto era pesante, era pure rotto. Finché un giorno un suo amico, il coniglio, arriva e le dice: «Senta, signora capra, perché si porta sempre al collo un orologio che non funziona? Peserà un accidenti e non serve a niente». «Sí, è pesante, - risponde la capra, - ma ci sono abituata. Anche se è pesante e non funziona».

Dette queste parole, il dottore bevve il suo succo d'arancia e mi guardò sorridendo. Io attendevo in silenzio il seguito della storia.

- Il giorno del compleanno della capra, il coniglio le portò in regalo una scatolina legata con un bel nastro. Dentro c'era un orologio nuovo, luccicante, leggero ed estremamente preciso. La capra, felice, se lo appese al collo, e andò in giro mostrandolo a tutti.

A quel punto la storia improvvisamente si interruppe.

- La capra sei tu, il coniglio sono io, l'orologio è il tuo cuore.

Mi sentii un po' preso in giro, ma non potei fare altro che annuire.

Una volta alla settimana, il sabato pomeriggio, prendevo il treno e poi l'autobus per andare a casa dello psicologo e facevo terapia mangiando brioche, torta di mele, focacce e croissant. Dopo un anno a quel ritmo, dovetti andare anche dal dentista.

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Pagina 73

28.


Parliamo della città. Quella in cui sono nato e cresciuto, quella dove sono andato a letto con una ragazza per la prima volta.

Ha il mare di fronte, le colline alle spalle, e un grande porto a poca distanza. È una cittadina piuttosto piccola. Quando torno a casa dal porto, a tutta velocità sulla strada nazionale, non fumo mai. Perché nel tempo di accendere una sigaretta, rischio di oltrepassare la mia città.

La popolazione è di circa settantamila abitanti, un numero che negli anni non è quasi variato. La maggior parte vive in una villetta a due piani con giardino e possiede una macchina, spesso due.

Queste non sono cifre che mi sono immaginato, le ho trovate nei bollettini che l'ufficio statistiche del municipio pubblica regolarmente alla fine dell'anno. Mi piace soprattutto la parte che parla delle «villette a due piani».

La casa del Sorcio di piani ne aveva tre, e addirittura una serra sul tetto. In un garage scavato nel fianco della collina c'erano la sua TR3 e la Mercedes del padre. Stranamente, in quella casa il locale che aveva un'atmosfera piú intima e familiare era proprio quel garage. Perché, anche se era abbastanza grande da contenere un aereo da diporto, aveva i muri interamente tappezzati da vecchi televisori e frigoriferi, da divani e servizi di piatti di cui la famiglia non si serviva piú, da stereo e scaffali... In mezzo a tutta quella roba ammonticchiata, lui e io passavamo ore piacevoli bevendo birra.

Di suo padre non sapevo quasi nulla. Non l'avevo mai incontrato. Quando gli chiedevo che tipo di persona fosse, il Sorcio si limitava a rispondere che era un uomo, e molto piú vecchio di lui.

Correva voce che da giovane - prima della guerra, cioè - fosse povero in canna. Poi, poco prima che iniziassero le ostilità, era riuscito con grande sforzo ad acquistare un piccolo laboratorio chimico e si era messo a produrre una pomata che teneva lontani gli insetti. Sulla cui efficacia c'erano molti dubbi, ma per sua fortuna il fronte bellico si spostò verso sud e le vendite della pomata salirono alle stelle.

Quando la guerra fini, buttò la pomata nel ripostiglio e cominciò a produrre un «integratore nutritivo» di natura non meglio specificata, poi, dopo la guerra di Corea, dall'integratore passò ai detersivi per uso domestico. Il sospetto era che si trattasse sempre dello stesso prodotto. Piú che probabile.

Venticinque anni fa, la giungla della Nuova Guinea era piena di cadaveri di soldati giapponesi unti di pomata contro gli insetti, mentre adesso nei gabinetti di ogni casa si trovano solventi idraulici con lo stesso marchio.

È cosí che il padre del Sorcio è diventato ricco.


Naturalmente tra i miei amici c'erano anche ragazzi di condizione modesta. Il padre di uno di loro era conducente sugli autobus urbani. Può darsi che ci siano conducenti d'autobus benestanti, ma quello li era povero. A casa del mio amico i genitori non c'erano quasi mai, quindi andavo spesso a trovarlo. Suo padre, se non stava dietro il volante di un autobus, era alle corse di cavalli, mentre la madre lavorava part-time da qualche parte.

Eravamo compagni di classe al liceo, ma c'era una ragione precisa per cui avevamo fatto amicizia.

Un giorno, mentre facevo pipí durante la pausa pranzo, venne a piazzarsi davanti all'orinatoio accanto a me e si tirò giú la cerniera dei pantaloni. Finimmo quasi contemporaneamente, e ci lavammo insieme le mani.

- Ehi, ho qualcosa di speciale, qui, - fece mentre si asciugava le mani sui pantaloni.

- Eh?

- Vuoi vedere?

Tirò fuori dal portafoglio una fotografia e me la porse. Vidi una donna nuda a gambe divaricate, con una lattina di birra infilata lí.

- Pazzesco, no?

- Be', sí.

- A casa ne ho di piú toste.

Fu cosí che diventammo amici.


In questa città ci sono persone di ogni genere. Nei diciotto anni in cui ci ho vissuto, ho imparato tante cose. Ha salde radici nel mio cuore, e tutti i miei ricordi vi sono legati. Ma quando me ne sono distaccato, nell'anno in cui sono entrato all'università, ho provato un profondo senso di sollievo.

Durante le vacanze estive e primaverili comunque ci torno, ma passo quasi tutto il mio tempo a bere birra.

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Pagina 84

32.


Derek Heartfield non era uno scrittore molto prolifico, ma era uno dei pochi capaci di parlare direttamente della vita, dei sogni e dell'amore. Nel suo libro Cento e una volta intorno all'arcobaleno, del 1937, un'opera semiautobiografica relativamente seria (nel senso che non vi compaiono extraterrestri o mostri), Heartfield ci rivela la sua vera natura in poche parole paradossali, cariche di ironia, cinismo e derisione.

Sul piú sacro fra i piú sacri libri di casa mia, l'elenco del telefono in ordine alfabetico, giuro di dire la verità. La vita è vuota. Naturalmente però c'è una possibilità di salvezza. Perché all'inizio non lo è del tutto. Siamo noi che facciamo ogni sforzo possibile e immaginabile per renderla vuota. Non è questo il luogo in cui descrivere in che modo cerchiamo di ridurla al nulla. Vi annoierei. Chi desidera saperlo, ha solo da leggere Jean-Christophe di Romain Rolland. E tutto raccontato lí.

La ragione per cui Heartfield adorava Jean-Christophe è perché vi è narrata con abbondanza di dettagli, in ordine cronologico, la vita di una persona dalla nascita alla morte, e il risultato è un romanzo di spaventosa lunghezza. Perché per Heartfield un romanzo doveva essere un mezzo di informazione, come un grafico o una tavola cronologica, il cui valore era direttamente proporzionale alla quantità dei dati forniti.

Nei confronti di Guerra e pace di Tolstoj, era piuttosto critico. Non riguardo alla lunghezza, naturalmente, come ammetteva lui stesso. Sosteneva che il libro gli aveva lasciato un'impressione di incoerenza, a causa delle troppe concezioni dell'universo che conteneva. Con l'espressione «concezione dell'universo» di solito voleva dire «aridità».

Il suo libro preferito era Il cane delle Fiandre. «Credi veramente che un cane morirebbe per un quadro?», domandava spesso.

Una volta, durante un'intervista, un giornalista gli chiese:

- Il suo protagonista muore due volte su Marte e una su Venere. Non c'è una contraddizione in questo?

- Lei lo sa come scorre il tempo, nel cosmo? - gli domandò in risposta Heartfield.

- No, - disse il giornalista, - ma nessuno lo sa.

- E che senso avrebbe scrivere un romanzo su qualcosa che sanno tutti?


Fra le opere di Heartfield c'è un racconto intitolato I pozzi di Marte. È un testo inusuale per lui, che prelude in qualche modo ai romanzi di Ray Bradbury. L'ho letto molto tempo fa e ho dimenticato i dettagli, ma nelle linee generali ne ricordo la trama.

C'è un ragazzo che scende in uno degli innumerevoli pozzi senza fondo sulla superficie di Marte. I pozzi erano stati scavati dai marziani decine di migliaia di anni prima, ma stranamente in ognuno di essi si era attentamente evitato di incrociare le vene d'acqua. Nessuno sapeva cosa li avessero scavati a fare. In realtà, a parte i pozzi, i marziani non avevano lasciato nient'altro. Niente documenti scritti, abitazioni, vasellame, utensili in ferro, tombe, astronavi, città, distributori automatici, nemmeno conchiglie. Solo pozzi. Poteva veramente definirsi una civiltà? Gli studiosi terrestri avevano molta difficoltà a stabilirlo. Dovevano però ammettere che i pozzi erano stati costruiti con grande abilità: dopo migliaia di anni, non c'era un solo mattone fuori posto.

Piú di un avventuriero e piú di un esploratore vi si erano calati, naturalmente. La loro profondità e la lunghezza dei corridoi laterali erano tali che tutti coloro che vi erano scesi legati a una corda avevano dovuto fare marcia indietro. Di quelli che non avevano preso la precauzione di legarsi, non ne era tornato nessuno.

Un giorno, questo ragazzo che vagabonda per il cosmo salta giú. È stanco della vastità dell'universo e vuole solo morire in un posto dove non lo trovi nessuno. Piú scende, tuttavia, meglio si sente, portato da una meravigliosa energia. Dopo un chilometro, si introduce in un corridoio laterale e ne segue senza motivo il percorso sinuoso. Va avanti per un tempo che non riesce a calcolare nemmeno lui. Il suo orologio si è fermato già da un bel po'. Possono essere trascorse due ore come due giorni. Non prova né fame né fatica, solo questa inspiegabile energia che lo pervade.

Ed ecco che a un certo punto intravede un raggio di luce. Il corridoio laterale sbuca in un altro pozzo. Riesce ad arrampicarsi su per il tunnel e a riemergere sulla superficie del pianeta. Seduto sul bordo del pozzo, contempla la vasta distesa deserta di Marte, poi alza lo sguardo. C'è qualcosa di diverso. L'odore del vento, il sole... è ancora alto nel cielo, però è diventato arancione come al tramonto, si è trasformato in una gigantesca massa arancione.

- Tra duecentocinquantamila anni il sole esploderà, - gli sussurra il vento. - Bang... OFF! Duecentocinquantamila anni! Non molto tempo, no?... Non far caso a me, sono solo il vento. Se vuoi, puoi chiamarmi marziano. Non suona male. Inoltre, sai, per me le parole non hanno significato.

- Sí, però stai parlando.

- Io? Sei tu che parli. Io do solo dei suggerimenti alla tua mente.

- Ma cosa è successo al sole?

- Sta invecchiando. Sta morendo. Non possiamo farci nulla né tu né io.

- Perché all'improvviso...?

- No, non all'improvviso. Per passare attraverso i pozzi ti ci sono voluti un miliardo e mezzo di anni. Sono volati in un attimo... non dite cosí voi umani? I corridoi che hai percorso sono stati scavati lungo la curva del tempo. Insomma, noi siamo vagabondi del tempo, dalla nascita dell'universo fino alla sua estinzione. Per questo per noi non c'è né vita né morte.

- Posso farti una domanda?

- Ti ascolto con gioia.

- C'è qualcosa che hai imparato?

L'aria vibrò leggermente, il vento rise. E di nuovo una tranquillità eterna calò sulla superficie di Marte. Il ragazzo prese di tasca la sua pistola, se la puntò contro la tempia e premette il grilletto.

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Pagina 109

Flipper, 1973





Adoravo ascoltare storie di posti lontani, era quasi patologico.

C'è stato un periodo, una decina di anni fa, in cui attaccavo bottone con tutti quelli che mi capitavano a tiro e chiedevo loro di parlarmi dei posti dov'erano nati e cresciuti. Le persone disposte a prestare orecchio ai fatti altrui devono essere veramente poche, perché la gente reagiva in modo davvero gentile e accettava con entusiasmo di dirmi quel che volevo. Tipi mai visti né conosciuti, venuti a sapere di me, si presentavano alla mia porta.

Mi raccontavano di tutto, come se gettassero pietre dentro un pozzo prosciugato, e una volta terminato se ne andavano via soddisfatti. Mentre parlavano, alcuni sembravano contenti di farlo, altri si infuriavano. C'era gente che andava dritto al punto, altra che mi confidava in modo sconclusionato vicende senza capo né coda. C'erano storie noiose, storie tristi che mi facevano venire le lacrime agli occhi, storie strampalate al limite del verosimile. Cionondimeno io ascoltavo attentamente, con tutta la serietà di cui ero capace.

Per qualche ignota ragione, ognuno aveva qualcosa che non vedeva l'ora di dire a qualcun altro, o di gridare al mondo intero. Mi facevano l'effetto di un branco di scimmie ammassate in uno scatolone. Una alla volta le tiravo fuori, le spazzolavo bene, davo loro una pacca sul sedere e le mandavo libere a scorrazzare nei campi. Dove andassero dopo, non ne avevo la minima idea. Probabilmente a rosicchiare ghiande fino alla fine dei loro giorni. Era il loro destino, dopotutto.

A essere sincero, era un lavoro faticoso che in cambio non dava quasi nulla. Quando ci ripenso, mi dico che se quell'anno avessero indetto un concorso mondiale per «chi sa ascoltare gli altri con piú attenzione», lo avrei vinto alla grande, senza contestazioni di sorta. E in premio avrei ricevuto forse una scatola di fiammiferi.

Tra i miei interlocutori, c'era un tipo venuto da Saturno, e uno da Venere. Le loro storie erano davvero straordinarie. Comincerò da quello di Saturno.

- Be', laggiú fa... fa un freddo tremendo, - mugolò. - Mi sento male solo a pensarci.

Apparteneva a non so quale gruppo politico che aveva occupato l'edificio 9 all'università. Il loro motto era «L'azione determina l'ideologia, non il contrario!» Cosa determini l'azione, nessuno gliel'aveva spiegato. Comunque fosse, nell'edificio 9 c'erano un refrigeratore d'acqua, il telefono e un impianto di riscaldamento, piú una bella sala per la musica al secondo piano, con una collezione di duemila dischi e casse A5 della Altec. In confronto all'edificio 8, ad esempio, dove stagnava un odore di latrine pubbliche, era un paradiso. Il mattino gli studenti si facevano la barba con l'acqua calda, il pomeriggio telefonavano a chi volevano, anche in capo al mondo, e quando calava la sera si riunivano per ascoltare dischi. Ragion per cui alla fine dell'autunno erano diventati tutti degli appassionati di musica classica.

Finché in un soleggiato pomeriggio di novembre, al suono dell' Estro armonico di Vivaldi sparato dalle casse a tutto volume, la terza divisione della polizia antisommossa fece irruzione nei locali. Non so quanto ci sia di vero in questa storia, ma rimane una delle leggende piú rincuoranti del '69.

Passando con circospezione accanto alle barricate di banchi accatastati, sentivo arrivare le note della Sonata in fa minore per pianoforte di Haydn. Era un suono familiare che mi metteva nostalgia, avevo l'impressione di andare a trovare la mia ragazza lungo un sentiero bordato di fiori sul fianco della collina. Il tipo di Saturno mi offri la sedia migliore e versò della birra tiepida in boccali presi alla facoltà di Scienze.

- In piú, la forza di gravità è t-tremenda, - fece riprendendo il discorso su Saturno. - C'è gente che s'è rotta la pianta del piede sputando una gomma da masticare. Un inferno, ti dico!

- Ma guarda... - commentai dopo qualche secondo. In quei giorni avevo a mia disposizione forse un trecento risposte irrilevanti da intercalare in una conversazione.

- E poi il so-sole è troppo piccolo. Come un mandarino posato in mezzo a un campo da baseball. Per questo fa sempre buio, - concluse lui con un sospiro.

- Ma perché non se ne vanno via tutti? - chiesi. - Ci sono molte stelle su cui è piú facile vivere.

- Non lo so. Forse perché sono nati lí. Sí, dev'essere questa la ragione. Anche io, appena mi laureo torno su Marte. E co-costruisco un paese fantastico! Sí, fa-faccio la rivoluzione.


In ogni caso, a me piaceva sentir parlare di posti lontani. Mi ero fatto una bella scorta di questo genere di descrizioni, come un orso prima di andare in letargo. Mi bastava chiudere gli occhi, per veder sorgere strade e formarsi file di case, per sentire la gente parlare. Percepivo le ondulazioni lente e costanti delle voci di persone lontane, persone che probabilmente non avrei mai incontrato.




Anche Naoko mi raccontava spesso di lei. Ricordo ogni parola che mi ha detto.

- Non saprei proprio come chiamare quel posto, - esordí con un sorriso imbarazzato. In un angolo soleggiato nel lounge dell'università, teneva i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani. Attesi che proseguisse. Lei parlava sempre lentamente, cercando le parole giuste.

Eravamo seduti a un tavolo in plastica rossa, uno di fronte all'altra, un bicchiere di carta pieno di mozziconi di sigaretta fra noi. I raggi del sole che entravano da un'alta finestra dividevano il ripiano del tavolo in due zone nettamente separate, una buia e una illuminata, come in un quadro di Rubens. La mia mano destra era nell'ombra, la sinistra nella luce.

Avevamo vent'anni, nella primavera del '69. Nel lounge, affollato al punto che non si riusciva quasi a camminare, c'era un andirivieni di matricole che calzavano scarpe nuove di zecca, portavano sotto il braccio guide ai corsi nuove di zecca, nella testa avevano cervelli nuovi di zecca. Studenti che si urtavano di continuo gli uni con gli altri, scambiandosi saluti o insulti, ci passavano accanto.

- In ogni caso, non la si può nemmeno definire una città, - proseguí lei. - C'è una lunga via tutta dritta, e la stazione. Una stazioncina che nei giorni di pioggia il capotreno rischia di non vedere.

Annuii. Poi restammo entrambi in silenzio per una trentina di secondi, a guardare distrattamente il fumo delle sigarette che faceva giravolte nei raggi di sole.

- E c'è sempre un cane che va su e giú per il marciapiede, da un'estremità all'altra. Quel genere di stazione insomma. Hai presente?

Feci cenno di sí.

- Appena esci c'è una piccola rotatoria, e la fermata degli autobus. Alcuni negozi, piccole botteghe polverose. Di fronte ci sono dei giardinetti, con solo uno scivolo e tre altalene.

- E il quadrato di sabbia?

- Il quadrato di sabbia? - ripeté lei. Cercò bene nella memoria, poi annui: - Sí, c'è.

Tacemmo di nuovo. Spensi scrupolosamente il mozzicone della mia sigaretta nel bicchiere di carta.

- Una città di una noia mortale. Non riesco a immaginare per quale motivo abbiano costruito un posto cosí noioso.

- Dio si rivela sotto forme diverse, - le dissi.

Naoko scosse la testa e sorrise. Era il genere di sorriso che hanno spesso le studentesse brave a scuola, ma per qualche strana ragione mi rimase a lungo impresso nella mente. Come quello del Gatto del Cheshire in Alice nel Paese delle Meraviglie.

Oltretutto, avevo una voglia tremenda di incontrare quel cane che camminava lungo il marciapiede della stazione.


Quattro anni dopo, nel maggio del '73, andai in quella stazione da solo. Unicamente per vedere quel cane. Per l'occasione mi feci la barba, misi una cravatta per la prima volta in sei mesi e tirai fuori le mie scarpe in cordovan.


Scendendo dal treno locale - due tristi vagoni che sembravano sul punto di sfasciarsi da un momento all'altro -, la prima cosa che mi colpi fu l'odore familiare dell'erba nei campi. L'odore di antichi picnic. Il vento di maggio mi portava piú di un ricordo... Se alzavo il viso e tendevo le orecchie, potevo persino sentire il verso delle allodole.

Feci un lungo sbadiglio, mi sedetti su una panchina della stazione a fumare una sigaretta, annoiato. L'energia provata quel mattino presto uscendo di casa era già svanita. Tutto era un'eterna ripetizione di qualcos'altro, o perlomeno cosí mi sembrava. Una sensazione di déjà vu ogni volta piú sgradevole.

C'era stato un tempo in cui vivevo con alcuni amici e dormivamo tutti insieme. All'alba, qualcuno mi camminava sempre sulla faccia. E invariabilmente diceva: «Oh, scusa tanto!» Poi lo sentivo orinare. Sempre la stessa cosa.

Allentai la cravatta, e con la sigaretta fra le labbra strofinai sul cemento del marciapiede le suole delle scarpe, cui non avevo ancora fatto l'abitudine. Per lenire il male ai piedi. Non era un dolore insopportabile, ma mi dava la spiacevole sensazione che il mio corpo fosse smembrato.

Il cane non si vedeva.

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