Copertina
Autore Robert Musil
Titolo I turbamenti dell'allievo Törleß
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, Letteratura universale , pag. 400, cop.fle., dim. 120x182x25 mm , Isbn 978-88-317-8879-3
OriginaleDie Verwirrungen des Zöglings Törleß [1905]
CuratoreFabrizio Cambi
TraduttoreFabrizio Cambi
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa austriaca
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Indice

  9 Sintassi delle sensazioni e costruzione dell'io
    di Fabrizio Cambi

 31 L'autore e l'opera

 47 I TURBAMENTI DELL'ALLIEVO TÖRLEß

383 Note

391 Bibliografia

 

 

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Pagina 49 [ inizio libro ]

                        «Stranamente, non appena pronunciamo una
                        cosa, la svalutiamo. Crediamo di essere scesi
                        nel profondo degli abissi, ma quando risaliamo
                        alla superficie, la goccia rimasta sulla punta
                        delle nostre pallide dita non somiglia più al
                        mare da cui proviene. Crediamo di aver scoperto
                        una fossa piena di meravigliosi tesori e,
                        quando ritorniamo alla luce, abbiamo soltanto
                        pietre false e cocci di vetro; e tuttavia nelle
                        tenebre il tesoro risplende immutato».
                                                            MAETERLINCK
Una piccola stazione sulla linea ferroviaria che conduce in Russia.

Quattro rotaie di ferro parallele correvano diritte senza fine nelle due direzioni tra la ghiaia gialla della larga massicciata; accanto a ognuna, come un'ombra sporca, la striscia scura impressa sul terreno dal calore del vapore di scarico.

Dietro il basso edificio della stazione, verniciato a olio, un viale ampio e dissestato portava alla rampa della ferrovia. I suoi bordi si perdevano nel terreno calpestato tutto intorno e si riconoscevano solo per due filari di acacie che stavano tristemente a entrambi i lati con le foglie inaridite e soffocate dalla polvere e dalla fuliggine.

Sarà stato per quei colori tristi, per la luce del sole pomeridiano, pallida, debole, fiaccata dalla foschia: oggetti e persone avevano un che di indifferente, di inerte, di meccanico, come fossero stati tolti dalla scena di un teatro di burattini. Ogni tanto, a intervalli regolari, il capostazione usciva dal suo ufficio e con un movimento sempre uguale della testa guardava lungo la linea nella direzione della cabina da dove non arrivavano ancora le segnalazioni che annunciavano l'arrivo del diretto, in grande ritardo per la sosta alla frontiera; poi con un movimento del braccio, sempre lo stesso, prendeva l'orologio dal taschino, scuoteva il capo e spariva di nuovo così come, allo scoccare dell'ora, vanno e vengono le figure degli antichi orologi dei campanili.

Sul largo marciapiede ben battuto fra i binari e l'edificio passeggiava un allegro gruppo di giovani, muovendosi a destra e a sinistra di una coppia di coniugi abbastanza anziani immersi in un'animata conversazione. Ma anche la gaiezza di quella compagnia non era autentica; il fragore delle allegre risate pareva già svanire dopo pochi passi, come se cadesse a terra incontrando la resistenza di un corpo solido ma invisibile.

La moglie del Consigliere Törleß, una signora sulla quarantina, celava dietro una fitta veletta gli occhi tristi un po' arrossati dal pianto. Era arrivato il momento dell'addio e le riusciva difficile dover lasciare di nuovo per così lungo tempo il suo unico figlio fra gente estranea, senza poter di persona vegliare protettiva sul suo tesoro.

La cittadina era molto distante dalla capitale, nella zona orientale dell'Impero, in una terra arida e scarsamente popolata.

Il motivo per cui la signora Törleß doveva accettare l'idea di sapere il figlio in un luogo così lontano e inospitale era che in quella città si trovava un famoso convitto istituito già il secolo prima sul terreno di una congregazione religiosa e lì rimasto proprio allo scopo di preservare i giovani, nel periodo della loro formazione, dalle influenze corruttrici di una grande città.

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Pagina 103

Bozena, di famiglia contadina, era andata nella capitale, dove aveva fatto la serva e in seguito la cameriera.

All'inizio le cose le andarono molto bene. I suoi modi campagnoli, che non aveva mai del tutto abbandonato come il suo passo ampio e pesante, le garantivano la fiducia delle padrone alle quali piaceva la semplicità della sua persona che odorava di stalla, e la simpatia dei suoi padroni che ne apprezzavano il profumo. Rinunciò a quella vita comoda solo per capriccio, forse anche per insoddisfazione e per oscura bramosia di passioni. Fece la cameriera, si ammalò, trovò accoglienza in un'elegante casa di tolleranza, e poco alla volta, logorata da una vita randagia, fu di nuovo risospinta nella provincia, e sempre più lontano.

Infine qui, dove viveva già da parecchi anni, non lontana dal suo villaggio nativo, aiutava di giorno nella locanda, e la sera leggeva romanzi dozzinali, fumava sigarette e riceveva ogni tanto la visita di un uomo.

Non si poteva ancora dire che fosse diventata brutta, ma il suo volto era privo in modo vistoso di ogni grazia e lei stessa si adoperava per sottolinearlo col suo modo di comportarsi. Le piaceva far intendere che conosceva molto bene l'eleganza e il bon ton della buona società, ma che ormai era andata al di là di queste cose. Affermava volentieri di infischiarsene di se stessa e di tutto il resto. Malgrado la sua depravazione godeva di una certa considerazione nei giovani contadini della zona. È vero che, parlando di lei, sputavano in terra, e si sentivano in dovere di comportarsi con lei più rozzamente che non con le altre ragazze, ma in fondo andavano molto fieri di quella «maledetta donnaccia» che aveva la loro stessa origine e aveva visto il mondo oltre la sua superficie. Andavano da lei spesso, da soli e furtivamente, per godere della sua compagnia. In questo modo Bozena recuperava nella sua vita un resto di orgoglio e di giustificazione. Ma forse una soddisfazione più grande gliela davano i signorini dell'istituto. Nei loro confronti metteva ostentatamente in mostra le sue qualità più grossolane e ripugnanti, poiché quelli – come lei era solita esprimersi – malgrado tutto sarebbero egualmente strisciati da lei.

Quando entrarono i due amici, era come al solito a letto a leggere e a fumare.

Törleß, ancora sulla soglia, succhiò con occhi avidi la sua immagine.

«Oddio, ma che bei ragazzini arrivano qui?», esclamò con scherno osservando con un certo disprezzo i due che stavano entrando. «Sei proprio tu, barone? Ma cosa ti dirà la mamma, eh?» Questo era uno degli inizi alla sua maniera.

«Ma sta' zitta...!», brontolò Beineberg che si sedette accanto a lei sul letto. Törleß si accomodò in disparte; era arrabbiato, poiché Bozena non lo considerava e faceva finta di non conoscerlo.

Negli ultimi tempi le visite a quella donna erano diventate il suo unico e segreto piacere. Già verso la fine della settimana cresceva in lui una certa irrequietezza, impaziente di dover attendere la domenica, quando la sera si sarebbe recato da lei di soppiatto. Lo preoccupava soprattutto questo dover andare da lei furtivamente. Se ad esempio a quei giovanotti ubriachi della taverna fosse saltato in mente di dargli la caccia? Per il puro gusto di dare una lezione al signorino viziosetto? Non era un vigliacco, ma sapeva che lì non avrebbe potuto difendersi. Di fronte a quei pugni ruvidi il suo fine spadino gli sembrava uno scherzo. E poi lo scandalo e la punizione che avrebbe dovuto aspettarsi! Non gli sarebbe rimasto altro che scappare o mettersi a pregare. Oppure farsi proteggere da Bozena. Quel pensiero lo faceva rabbrividire. Ma era questo! Soltanto questo! Nient'altro! Proprio questa paura, questo senso di abbandono lo seducevano ogni volta da capo. Quell'uscire dalla sua posizione privilegiata e scendere in mezzo a persone comuni; in mezzo a loro... più in basso di loro!

Non era dedito al vizio. Mentre si svolgevano quegli incontri prevalevano sempre la repulsione per la sua impresa e i timori delle possibili conseguenze. Solo la sua fantasia lo portava in una direzione malsana. Quando i giorni della settimana si susseguivano opprimenti, uno dopo l'altro, nella sua vita, quelle brucianti eccitazioni cominciavano ad attrarlo. Dai ricordi delle sue visite si formava una singolare seduzione. Bozena gli appariva come una creatura di mostruosa volgarità e il suo rapporto con lei, le sue sensazioni che in quei momenti lo coglievano, erano come un rito crudele di immolazione.

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Pagina 185

Immerso nei suoi pensieri, Törleß era andato a passeggiare da solo nel parco. Era verso mezzogiorno e il sole del tardo autunno deponeva ricordi sbiaditi sui prati e sui sentieri. Poiché per l'inquietudine non aveva voglia di continuare la passeggiata, si limitò a girare intorno all'edificio per poi lasciarsi andare sull'erba scolorita e frusciante ai piedi del muro laterale quasi privo di finestre. Sopra di lui si dispiegava il cielo, di quell'azzurro smorto e patito proprio dell'autunno, percorso da piccole, bianche nuvolette tondeggianti.

Törleß era sdraiato sul dorso e con gli occhi socchiusi vagava trasognato con lo sguardo fra le chiome spoglie di due alberi che gli stavano davanti.

Pensava a Beineberg; ma come era strano quel tipo! Le sue parole sarebbero state opportune in un cadente tempio indiano, in compagnia di inquietanti idoli e serpenti incantatori nascosti in profondi ricettacoli; ma che scopo avevano alla luce del giorno, in un collegio, nell'Europa moderna? Eppure quelle parole, dopo essersi protratte per tanto tempo come una strada senza fine e senza traguardo in mille spirali, sembravano essere arrivate improvvisamente a una meta concreta...

E d'un tratto – ed era come se gli capitasse per la prima volta – notò quanto fosse alto il cielo.

Era come sgomento. Proprio sopra di lui riluceva fra le nuvole un piccolo foro azzurro, indicibilmente profondo.

Gli parve che sarebbe stato possibile salirvi con una lunghissima scala. Ma quanto più vi si addentrava e alzava lo sguardo, tanto più il rilucente fondo azzurro si ritraeva. Eppure gli pareva che avrebbe potuto raggiungerlo e trattenerlo con lo sguardo. Questo desiderio divenne un tormento acutissimo.

Era come se la sua forza visiva dilatata all'estremo lanciasse sguardi come frecce tra le nuvole e, per quanto puntasse più lontano, era come se il tiro risultasse un po' troppo breve.

Törleß si mise a rifletterci sopra; si sforzava di essere il più possibile calmo e ragionevole. «È evidente che non c'è una fine», si diceva, «va sempre avanti, senza interruzione, verso l'infinito». Teneva gli occhi puntati al cielo e se lo ripeteva ad alta voce come se si fosse trattato di sperimentare la potenza di una formula di scongiuro. Ma senza successo; le parole non dicevano niente, o piuttosto dicevano qualcosa di completamente diverso, come se parlassero sì dello stesso oggetto, ma affrontandolo da un altro versante, estraneo e indifferente.

«L'infinito!», Törleß conosceva il termine dalle lezioni di matematica. Con quella parola non si era mai immaginato qualcosa di particolare. Ricorreva in ogni momento; qualcuno l'aveva inventato un tempo e da allora era possibile fare sicuro assegnamento su di esso come su qualcosa di solido. Era ciò che propriamente aveva valore nei calcoli; Törleß non era andato mai oltre nelle sue ricerche.

E adesso gli balenò di colpo il pensiero che quella parola conteneva qualcosa di tremendamente inquietante. Gli pareva un concetto addomesticato di cui si era servito ogni giorno per fare i suoi piccoli giochi di prestigio e che ora si era liberato all'improvviso dai suoi vincoli. Con l'opera di qualche inventore sembrava essersi assopita in lui una dimensione selvaggia e distruttrice che andava oltre la ragione, e adesso si era improvvisamente ridestata, facendosi di nuovo terribile. Era lassù, viva sopra di lui in quel cielo e lo minacciava e lo derideva.

Alla fine chiuse gli occhi, tanto lo tormentava quella vista.

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Pagina 251

Törleß si era comprato un quaderno e sistemò con cura penna e inchiostro. Poi, dopo qualche esitazione scrisse sulla prima pagina: De natura hominum; riteneva il titolo latino confacente al tema filosofico. Dopo tracciò intorno all'intestazione un grande svolazzo artistico e si appoggiò allo schienale della sedia aspettando che asciugasse.

Ma questo era avvenuto da un pezzo ed egli non aveva ancora ripreso la penna. Qualcosa lo faceva rimanere immobile. Era l'atmosfera ipnotica delle grandi lampade roventi, del calore animale che proveniva da quella massa di persone. Era sempre stato sensibile a quella situazione, che poteva crescere in lui fino a fargli provare una sensazione di febbre che era sempre collegata a una straordinaria reattività dello spirito. Così accadeva anche oggi. Già da parecchio, durante la giornata, si era fatto un'idea di ciò che veramente intendeva registrare sul quaderno: tutta la serie di quelle certe esperienze dalla sera trascorsa da Bozena fino a quella sensualità indistinta che si era insinuata in lui le ultime volte. Se fosse stato messo tutto in ordine, se fossero stati riportati i fatti uno dopo l'altro, sperava che ne sarebbe emersa anche quella forma corretta e razionale come il tratto di una linea che, uscendo dall'immagine confusa di curve che si incrociano centinaia di volte, le racchiude tutte. Di più lui non voleva. Ma finora gli era successo come a un pescatore che dagli strappi dati alla rete sente sì che vi è finita una grossa preda, ma nonostante tutti gli sforzi non gli riesce di farla affiorare.

E quindi Törleß si mise a scrivere, ma in fretta e senza fare attenzione alla forma. «Sento qualcosa in me stesso», annotò, «ma non so bene che cosa sia». Ma cancellò prontamente quella riga e al suo posto scrisse: «Devo essere malato... pazzo!» A questo punto lo percorse un fremito, perché quella parola suona piacevolmente patetica. «Pazzo, altrimenti da che cosa dipende che mi sorprendano cose che agli altri appaiono normali? Che questa sorpresa mi tormenti? Che questa sorpresa susciti in me sentimenti lussuriosi?», scegliendo di proposito questa parola carica di unzione biblica, poiché gli pareva più oscura ed efficace. «Di fronte a tutto questo prima mi sono comportato come qualsiasi altro giovane, come tutti i miei compagni...» Ma qui si fermò. «Ma è poi vero?», pensò; «già da Bozena ad esempio è stato tutto così singolare; allora quando è iniziato veramente?... Non ha importanza», pensò, «una prima volta ci sarà stata». Lasciò tuttavia la frase incompiuta.

«Quali sono le cose che mi sorprendono? Le meno appariscenti. Per lo più le cose prive di vita. Che cosa mi sorprende in esse? Un qualcosa che non conosco. Ma il punto sta proprio qui! Da dove attingo questo "qualcosa"! Sento la sua esistenza: agisce su di me, come se volesse parlare. Provo la medesima agitazione di chi dalla bocca deformata di un paralitico vuole leggere le parole e non ci riesce. È come se io avessi un senso in più degli altri, ma non pienamente sviluppato, un senso che esiste, si rende percettibile, ma non funziona. Il mondo per me è pieno di voci prive di suono: sono quindi un veggente o un allucinato?

Ma non soltanto le cose inanimate esercitano su di me questo effetto; no, quel che più mi getta nel dubbio sono gli esseri umani. Fino a un certo momento li vedevo come loro vedono se stessi. Beineberg e Reiting, ad esempio, hanno la loro stanza, una stanza segreta in soffitta del tutto normale, perché li diverte avere un rifugio simile. Fanno una cosa perché ce l'hanno con quello, un'altra perché vogliono prevenire che un altro possa avere un'influenza sui compagni. Tuttti motivi chiari e comprensibili. Ma oggi mi appaiono, a volte, come se vivessi un sogno e loro ne fossero i personaggi. Non soltanto le loro parole, le loro azioni, no, tutto in loro, legato alla loro vicinanza fisica, agisce talvolta su di me come fanno le cose inanimate. Eppure inoltre li sento parlare sempre proprio come prima, vedo che le loro azioni e le loro parole continuano ad allinearsi di nuovo secondo le stesse modalità... questo mi fa credere di continuo che non accade nulla di straordinario e che però altrettanto di continuo qualcosa in me si ribella a crederlo. Se ricordo con precisione, questo mutamento cominciò con Basini...»

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