Copertina
Autore Anna Nacci
Titolo Neotarantismo
SottotitoloPizzica, transe e riti dalle campagne alle metropoli
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2004, eretica speciale , pag. 208, cop.fle., dim. 150x210x15 mm , Isbn 978-88-7226-819-3
LettoreFlo Bertelli, 2004
Classe musica , etnografia , sociologia , regioni: Puglia
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Indice


Tarantismo e Neotarantismo                                 3

Una ricerca sul campo                                      8

Musiche, culture e tradizioni del Centro Sud Italia       77

Anna Nacci
Mass media e Neotarantismo                                81

Giovanni Vacca
Testo, contesto e senso nello studio e nella riproposta
della cultura popolare                                    96

Anna Nacci
Luigi di Gianni                                          103
Foto di L. Di Gianni                                     106

Alessandro Romano
Brigantaggio e cultura                                   113
Foto di A. Romano                                        116

Luigi Maria Lombardi Satriani
Le parole cantate                                        127

Alessandro Melis
Il corpo nel Mediterraneo - Sguardi verso nuove identità:
una ricerca in corso                                     135
Foto di A. Melis                                         144

Roberto De Angelis
Ghetto Pride - Graffi, corpi e suoni dai margini della
metropoli diffusa                                        149

Piero Fumarola
Della danza delle identità                               161

Pizzica la Tarantula 2

Testi del CD                                             193

 

 

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Pagina 5

Da alcuni anni si rileva alta affluenza a manifestazioni che propongono musica popolare. Gli episodi che più hanno dato luogo a quesiti e spunti per momenti di riflessione sono quelli riguardanti la copiosa partecipazione a concerti di musica che oseremmo chiamare 'attarantata', includendo in questa categoria musicale pizziche, pizziche tarantate, tarantelle di vario tipo, tammurriate; per meglio intenderci: i ritmi del 12/8, del 4/4, del 2/4 accompagnati da tamburello, tammorra, organetto, castagnette, violino, chitarra ed altri strumenti della tradizione tipici dell'Italia del Centro-Sud.

Le riflessioni e le domande sono tante: si potrebbe partire dal considerare il fatto che questa musica, dopo l'oscurantismo musicale di buona parte degli '80/'90 e fino a poco tempo fa, era destinata solo ad esibizioni in piazze circoscritte nell'area dell'Italia meridionale facendo da corollario a qualche festa patronale, oppure in qualche teatro qualora ad esibirsi fossero nomi già famosi negli anni Settanta.

Ultimamente invece la ritroviamo in centri sociali, pub, locali di vario genere, finanche in discoteche, e non solo dell'Italia meridionale, ma anche nel Nord oltre che all'estero. Fra i tanti, Antonio Infantino è uno dei più acclamati esecutori di tarantelle lucane oltre confine, ed oggi è fra i più accaniti amanti della techno transe che realizza miscelando la sua voce infaticabile e la sua verve di sempreverde interprete con le tecnologie dei computer, volte a provocare frequenze da lui ritenute basilari per la catarsi.

Particolarmente rilevante è il grado di attenzione rivolto a questo tipo di musica che viene da paesi come Francia e Germania.

Testimonianze preziose potranno essere fornite da chi organizza concerti anche e soprattutto in una metropoli come Roma, dove si sono verificate forme di ballo attarantato di massa.

Si potrebbe pensare ad un forte bisogno di musica altra, di musica etnica, di musica che in qualche modo ci ricolleghi all'antico bisogno di transe, di ritmi tribali. Le case discografiche oggi ne danno un evidente segnale, ma qui potrebbero giustamente sorgere dubbi e discussioni su quanto possa incidere il mero fine commerciale sulla fruizione del genere musicale in questione e quanto sia ancora oggi difficile incidere senza subire contratti capestro (è alto, infatti, il numero di autoproduzioni). Si potrebbe continuare col riflettere su quante nuove realtà musicali siano sorte, risorte o riscoperte negli ultimi pochi anni passati.

Interessante sarà chiedersi perché, ad esempio, alcuni musicisti romani si siano ritrovati ed abbiano deciso di suonare tarantelle, pizziche e tammurriate. Ma interessante sarà anche constatare che nella sola terra di Salento riusciamo a contare circa un centinaio di realtà musicali, tutte impegnate a effettuare ricerca, riproposizione, rielaborazione, contaminazione, creazione; gruppi musicali quasi tutti con una proposta discografica, spesso autoprodotta.

Da ricordare la grande manifestazione estiva de "La notte della Taranta" che itinera per la Grecìa Salentina chiamando a raccolta decine di migliaia di spettatori e partecipanti da ogni dove per assistere a concerti, stages, corsi di musica. La portata di questa manifestazione è stata tale da richiamare anche nomi internazionalmente famosi e musicalmente grandiosi.

Come ulteriore esperienza dell'alto gradimento del genere musicale in questione si potrebbe addurre la personale esperienza di ideatrice e conduttrice di un programma radiofonico chiamato "Tarantula Rubra" che da oltre quattro anni continua a rilevare forti consensi e l'attenzione di sempre nuovi ascoltatori con richieste di informazioni tanto sulla musica che su quello che era il tarantismo.

[...]

Il forte interesse del pubblico romano a tale argomentazioni socio/antropo/musicologiche e i flussi di gente che affollavano il Salento nei periodi estivi ricchi di concerti ha così rimesso in moto la mai sedata curiosità sociologica di chi scrive, sollecitando indagini su un fenomeno che coinvolgeva e 'muoveva' oramai decine di migliaia di persone. Fenomeno che si pensò di chiamare Neotarantismo, cercando di esprimere con tale neologismo gli atteggiamenti di un foltissimo pubblico che dal nord al sud cerca, ascolta, fruisce, compra, ma soprattutto balla, la cosiddetta musica 'attarantata', pur spesso non conoscendo storia, cultura modelli ritmici e coreutici ad essa connessi.

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Pagina 81

Mass media e Neotarantismo

Anna Nacci


Vorrei cominciare con una modesta e breve analisi dei mass media in quanto componenti fondamentali dei processi sociali e culturali, nonché elementi che oggi inducono una sempre più larga fetta di pubblico alla ricerca di valori e di strumenti comunicativi della tradizione.

Nell'antica teoria liberale il concetto di 'massa' viene stigmatizzato come "l'insieme di individui senza individualità", distinti da coloro che hanno coscienza e orgoglio della propria libertà.

Il concetto di comunicazione di massa esprime tanto il comando dello Stato che dell'impresa, persegue la socializzazione di queste forme di autorità, e si propone ad una audience in differenziata e generica, astratta e passiva, anonima e priva di legami solidali, che crede così di essere partecipe, ma che in realtà è alienata.

Fino a qualche tempo fa si affermava che i media fossero dipendenti dal potere politico; oggi sarebbe più corretto parlare di potere economico e politico che riscuotono consenso grazie alla manipolazione dei media.

L'informazione acquista sempre più valore quanta più gente riesce a raggiungere, anche a rischio di creare maggior confusione; attorno all'informazione si è sviluppato un forte processo di mercificazione, ma soprattutto si sono formate cordate editoriali in mano a pochi grandi imprenditori che assoggettano sempre più i media ai 'legittimi' proprietari. Essendo la concentrazione del capitale un fattore congenito all'esistenza del capitalismo stesso, il settore dei mass media può fare sicuramente eccezione.

[...]

Con l'allargamento di valori comunitari oltre che della dimensione comunitaria - quindi annullando il termine 'extracomunitario' e vanificandone il senso - , e integrando le culture in un processo di allargamento della comunità e della massa 'antiglobalizzata', il pubblico potrà meglio contrapporre istanze culturali e sociali al processo di omologazione culturale proprio dei mass media. Il tutto avverrà tramite l'irrobustimento delle opinioni, la riscoperta e la rigenerazione di valori, di atteggiamenti e modelli comportamentali già condivisi e presenti in strutture sociali ove la collettivizzazione di riti ed emozioni creavano una solidarietà e una rete di comunicazione garante della sopravvivenza di fronte alle difficoltà quotidiane, in primis la solitudine, tamponando le influenze dei mass media, finanche ad essi contrapponendosi con stoica resistenza.

E se iterazione deve essere, che sia quella del ritmo catartico della pizzica piuttosto che delle ridondanti notizie di guerra, di catastrofi e stragi; che sia il prevalere della capacità di ascolto della musica, della musica altra e dell'altro, del diverso e, conseguenzialmente, lo svilupparsi del potere creativo e di crescita in risposta all'overdose di assordanti immagini di morte della tv globalizzata e necrofila del terzo millennio. Che sia il recupero di valori certamente utili alla solidarietà e allo scambio, per l'allargamento della comunità e non il restaurarsi dell' ancien régime, coi valori forti del patriottismo, del nazionalismo, del fanatismo.

I media generano così un effetto boomerang: quanto più si cercherà di ottenere consenso/assenso/silenzio, tanto più emergerà un bisogno di diversità, di crescita e di confronto. Ecco il perché di un movimento già battezzato Neotarantismo, trasversale, senza limiti di età, estrazione sociale, barriere geografiche e culturali; un movimento che, come il 'Neognawismo', così definito da Georges Lapassade, si riappropria di nuove forme di catarsi e di liberazione rifacendosi a musiche e danze millenarie senza ripassare dalle forme rituali di un tempo, ma ricreandone di nuove, per soddisfare la richiesta di relazioni 'altre' e la costruzione di reali rapporti comunicativi.

Il movimento del Neotarantismo può essere l'espressione di un tentativo di rompere col modello alienato della comunicazione di massa attraverso l'utilizzazione spontanea di canti, danze e musiche in luoghi dove ognuno possa essere autore e fruitore; proprio come nei passati anni '70 quando si riusciva a proporre nuovi modi di comunicare, di fare informazione pubblica affidata alla spontaneità delle iniziative individuali e di gruppo.

E forse non è un caso che questa volta il movimento nasca dal Sud, proprio quel Sud tanto spesso e per tanto tempo ritenuto zavorra nei processi di sviluppo industriale e produttivo, lo stesso Sud che potrebbe oggi fornire al Nord una chiave di lettura per liberarsi dalla prigionia del gap produttivo "produci, consuma, riproduci, muori" (sempre da solo).

Non è sicuramente un caso che oggi i Sud del mondo, come anche i Sud insiti negli stessi Nord, reclamino il diritto ad una vita dignitosa, contro la mercificazione della vista stessa.

Probabilmente il recupero di quelle musiche, danze e storie del passato potrebbe far fronte alla perdita di memoria storica, a quell'oblio che consentirebbe un facile adattamento alla realtà che i mass media di oggi cercano di spacciare per unica.

Gli spacciatori di cattivi stupefacenti prima o poi vengono evitati, e la gente ascolterà sempre più musica, e affollerà nuovamente le piazze, non rimarrà sola e indifesa di fronte allo schermo televisivo. Ci si reincontrerà nella grande piazza della vita, contro qualsivoglia progetto di morte.

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Pagina 96

Testo, contesto e senso nello studio e nella riproposta della cultura popolare

Giovanni Vacca


Ripenso spesso alle parole di Lévi Strauss, che de Martino utilizzò nelle prime pagine di La terra del rimorso, tratte dall'opera Tristi tropici, il racconto di un viaggio che Lévi Strauss fece in Brasile (è l'opera più letteraria di Lévi Strauss), il quale ad un certo punto diceva più o meno: "Che siamo venuti a fare qui? È questo l'esercizio di una normale professione o è qualcosa di più? La conseguenza di una scelta di vita più radicale, che implica la messa in causa del sistema in cui viviamo?".

Quando Lévi Strauss scrisse queste parole, e quando de Martino le riportò anni dopo, c'era sicuramente anche una tensione politica che li spingeva. Ovviamente oggi, alla luce di tante sconfitte e di tante delusioni, parole del genere possono sembrare distanti ma, a ripensarle criticamente, esse possono assumere un valore forse ancora più radicale, che è quello della messa in causa di un sistema che è la nostra stessa civilizzazione, e cioè di quel modo in cui noi interagiamo come esseri parlanti, come individui, e il modo in cui ci relazioniamo alla nostra storia umana e alla storia delle varie culture. Vorrei però, intanto, spiegare il titolo del mio intervento.

[...]

Ma è necessario estendere il concetto di tradizione, e vedere la tradizione come qualcosa di più capillare, di più diffuso; ed io in questo senso credo che una delle città dove ancora sia possibile fare un'esperienza antropologica profonda sulle tradizioni popolari sia Napoli. Chiunque si aggiri per i vicoli di Napoli può, con attenzione e pazienza, cercare di scorgere una serie di segnali che sicuramente appartengono ad una tradizione. Il fatto di chiamare le persone in un certo modo dai balconi, per esempio. Se voi girate per i vicoli di Napoli ovviamente non capite subito, ma, dopo una lunga frequentazione degli ambienti popolari, è possibile riscontrare una serie di segnali che colpiscono per la loro estrema formalizzazione. Cioè la cultura popolare è un linguaggio estremamente formalizzato! Quando noi giriamo per la vecchia Napoli e sentiamo chiamare le persone, avvertiamo che questo avviene con una melodia molto precisa: questa melodia con cui vengono chiamate le persone si può quasi trascrivere: è una sorta di melodia cromatica discendente di tre semitoni; si può riprodurre facilmente sul pianoforte (anche se l'originale non ha ovviamente un'intonazione precisa), e vedere che, anche se si presta maggiormente a nomi di tre sillabe, i nomi più brevi o più lunghi vengono adattati a questa melodia.

Il problema della cultura popolare secondo me è proprio questo: è molto facile che oggi la straordinaria formalizzazione di questi linguaggi ci sfugga proprio perché essi si stanno disintegrando sotto la spinta e l'invasione della cultura di massa.

Possiamo prendere ad esempio il caso della musica o quello della danza.

[...]

Quello che ci colpisce, dicevo, se riusciamo a vedere una tarantella o una tammurriata tradizionale, è che il corpo del danzatore non tende a una liberazione estrema, come se fosse una persona che si scatena e si dimena. Il suo linguaggio in realtà è fortemente codificato e definito: il corpo del danzatore, nella danza tradizionale, diventa una sorta di prisma attraverso il quale tutta una serie di simboli che costituiscono parti fondanti della ideologia comunitaria vengono resi pubblici. Non è importante che non ci sia consapevolezza da parte degli esecutori o dei fruitori della danza, che poi finiscono spesso per coincidere, perché il simbolo parla all'inconscio, come ben sappiamo. Quindi nella danza tradizionale noi vedremo un modo diverso di usare il corpo rispetto a quello del danzatore di città.

Il ballo del danzatore 'cittadino' che va alla festa della Madonna dell'Arco, per esempio, e si dimena spesso con un eterno sorriso stampato in faccia, è molto diverso da quello di chi invece vive quella danza come autentico momento rituale (e quindi lo vive con un modo di gestire il corpo completamente diverso). I gesti di quest'ultimo, infatti, saranno molto più ritmici, molto più essenziali, e soprattutto si potrà osservare che il movimento della danza è un movimento che rinvia a qualcosa che non è umano, qualcosa di mostruoso.

Nell'abolizione temporanea della sfera profana, della quotidianità, il rito sottrae il soggetto alla sua condizione 'umana' attraverso la possessione. La possessione, che è il tratto più autenticamente arcaico del rito tradizionale, configura una condizione 'mostruosa' in cui il corpo, trasformato in animale, in maschera, in morto che ritorna, diventa macchina 'significante' per rammentare alla comunità il travaglio che esso subisce nei momenti cruciali dell'esistenza (nascita, vita sessuale, agonia e morte). Il corpo ritualizzato offre dunque allo sguardo della collettività una vera e propria 'educazione' alla gestione delle pulsioni e della sfera emotiva.

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Pagina 139

Tra passi e sassi

Omaggio alla danza sarda


Tra passi e sassi è una versione teatrale della ricerca antropologica sui balli etnici della Sardegna.

Lo spettacolo si propone come una delle risposte possibili all'interrogativo sui rapporti culturali ed estetici tra contemporaneità e tradizione, evitando soluzioni folkloristiche.

La composizione musicale, a cura di Luca Nulchis, è impregnata di voci di testimonianza, canti, musiche, suoni d'ambiente, documenti audio di ricerca sulle tradizioni rituali di Villaputzu, Oliena, Ovodda, Suelli, Giave, Tortolì, Orosei... utilizzati con la competenza e gli strumenti della 'musica colta' contemporanea per valorizzare le peculiarità del mondo sonoro sardo, preservandone l'autenticità.

La danza, come in un sogno, gioca caleidoscopicamente combinando i diversi linguaggi artistici, lasciando che sia lo spettatore a ritrovare e ricomporre i sensi delle storie narrate. Le immagini audiovisive riportano al pubblico, senza interpretazioni, le testimonianze degli anziani ballerini che raccontano e mostrano il ballo; tra di esse le più suggestive fra quelle raccolte durante la ricerca, come l'intervista al famoso e anziano suonatore di Launeddas di Villaputzu Aurelio Porcu.

Il senso di questo spettacolo non è tanto quello di ispirarsi ai balli sardi tradizionali elaborandone una forma contemporanea, ma piuttosto di suscitare interesse per una forma che rischia di estinguersi senza essere stata sufficientemente compresa e documentata: una forma di ballo di alto valore artistico.

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Pagina 161

Della danza delle identità

Piero Fumarola


                                   Il tuo Cristo è un ebreo.
                                 La tua macchina giapponese.
                                      La tua pizza italiana.
                                    La tua democrazia greca.
                                    Il tuo caffè brasiliano.
                                       La tua vacanza turca.
                                        I tuoi numeri arabi.
                                     Il tuo alfabeto latino.
                         Solo il tuo vicino è uno straniero.

    (da un manifesto attaccato sui muri di Berlino nel 1994,
               cit. in Z. Bauman, Intervista sull'idendità).



I primi passi oltre Ernesto De Martino

Verso la fine del 2003 il Centro Sociale Leoncavallo organizzò una giornata salentina, un evento in cui c'era tutto: film, orecchiette, libri, tamburelli, teatro, fotografia, dance hall di salentini con dj e rapper, la pizzica pizzica con Mascarimirì ed anch'io e Tarantula Rubra, per un colloquio sull'identità salentina e la transe del tarantismo.

Sono molto curioso e, quando posso, partecipo volentieri a questa 'salentinità', per così dire, in trasferta.

[...]

Antropologia e antropologi della Terra del Rimorso

L'illusione di un tarantismo e/o di un'identità locale 'in sé', come 'cosa' oppure 'essenza culturale' perduta e da ritrovare, dovrebbe svanire definitivamente per i suoi sostenitori residui attraversando due recenti saggi: rispettivamente La taranta è pugliese? di Clara Gallini (2003) e la prima relazione pubblica di un lavoro di studio e di osservazione delle pratiche sociali nell'attuale costruzione dell'identità salentina dell'antropologo Gianni Pizza (2003).

Clara Gallini sembra quasi amareggiata per l'attuale tendenza a risignificare, commercializzando e banalizzando, sia il tarantismo che La Terra del Rimorso (1961), proprio in quanto libro-feticcio di Ernesto De Martino (da ora in poi E.d.M.). Individua nel "Commentario storico" di quel libro i modi, i segni e le forme di rappresentazione di una variazione interpretativa, di un'immagine storicamente diversificata del tarantismo.

Si mostra come la cultura alta, i ceti e i soggetti che la rappresentavano hanno interpretato e delineato tra il XVI ed il XIX secolo almeno due modi di connettere la pratica socio-culturale del tarantismo al territorio.

La prima, rilevata dall'iconografia e da altri documenti scritti (Cesare Ripa, Kircher), dice molte cose, e tra l'altro che "all'epoca (tra il Cinque e il Seicento) il ballo di cui si riferisce fosse pratica altrettanto afflittiva quanto gradevole seguita anche da persone appartenenti ai ceti sociali più alti" (2003: 212).

L'illuminismo, il positivismo, l'espansione capitalista, il dominio della cultura dell'Europa continentale su quella mediterranea, il dibattito (da Hume a Voltaire) su miracoli, guarigioni, ecc., fanno sì che si costruisca una diversa immagine del tarantismo: "Non si rappresenterà più la Puglia in quanto regione del tarantismo, ma i pugliesi in quanto soggetti malati, fanatici, ignoranti, sporchi" (Serao, Balivi) (2003: 215).

La prima conseguenza è che scompare l'aspetto 'gradevole' del tarantismo e del suo ballo, e che scompaiono dalla sua scena le classi sociali più alte che lo frequentavano.

Si può immaginare anche che i tarantati vennero progressivamente sempre più rinchiusi in casa, portati a Galatina, medicalizzati, marginalizzati. Essi stessi finirono col nascondersi, vergognarsi, vivere sempre più il disagio psichico come malattia ed emarginazione: si istituì insomma una nuova forma di stigmatizzazione sociale, un nuovo stereotipo identitario.

Come e perché ciò accadde lo mostra e lo spiega lo stesso E.d.M. citato da Clara Gallini: "Tale coscienza (dell'interpretante) non si limita a 'riflettere' variamente un supposto tarantismo in sé, ma trascina nel suo movimento valutante lo stesso oggetto valutato e interpretato e lo viene trasformando proprio nel suo valutarlo e interpretarlo" (2003: 214).

E.d.M. è stato, insieme alla sua equipe interdisciplinare, un interpretante decisivo del tarantismo nel secolo scorso. Fu anche molto complessa la sua, la loro interpretazione; ma se la si vuol cogliere in tutta la sua portata, senza alibi e infingimenti, bisogna ricordare uno dei nodi più significativi di questa interpretazione, quello conseguentemente operativo, il progetto di intervento nel Salento, un progetto progressista e illuminato. Il progetto d'intervento si configura non solo orientato sul tarantismo che, nella sua forma di culto e di rito terapeutico era già nel 1959 quasi del tutto scomparso, quanto sulle forme di vita che lo accompagnavano, il mondo magico che dava senso e realtà a quei vissuti, a quelle rappresentazioni simboliche, ai codici che regolavano una pratica sociale dissonante, alla 'miseria psichica', che ne connotava i limiti rispetto alla modernità, alle sue promesse, speranze e prospettive di liberazione. Per tutto ciò basta rileggere l'"Allegato V" di La Terra del Rimorso.

[...]

Un passo avanti: il decostruttivismo antropologico degli anni Novanta

Il movimento decostruttivista in antropologia, soprattutto sulla questione dell'identità e dell'etnico, si sviluppa in Italia recentemente, più o meno attorno alla metà degli anni Novanta, ed ora si è fatto quasi senso comune, diffuso e non solo un discorso universitario. Questo processo decostruttivista in antropologia è stato ed è salutare, come una ventata d'aria fresca dopo lo scirocco, anche per le discipline sociologiche che stanno sempre più abbandonando 'l'intelligenza tabellare' (Hegel - Remotti) che ne ha connotato le pratiche, passando a spazi d'intelligenza qualitativa. È stato, credo, il costruttivismo etnometodologico di Garfinkel insieme all'antropologia decostruttivista la spinta maggiore ad ampliare gli spazi della sociologia critica e qualitativa e a introdurre diffusamente metodologie di ricerca di campo derivate proprio dall'antropologia (etnografia, osservazione partecipante, analisi istituzionale e socioanalisi, ricerca-azione, focus group).

Lavori come quelli di Amselle (1999), Remotti (1996), Fabietti (1995), Rivera-Gallissot (1997), hanno rappresentato un punto di svolta e di riferimento decisivo per gli studi sull'identità e la decostruzione della sua nozione essenzialista.

Dice Remotti che "da Aristotele in poi l'identità c'è, bisogna solo scoprirla (...) è una struttura ontologica preesistente al fatto che noi decidiamo di cercarla, nominarla o descriverla..(1996: 5)". Contro questa idea e questa attitudine consolidata del pensiero occidentale e della sua prassi coloniale Francesco Remotti, come gli altri autori citati, sviluppano argomentazioni stringenti offrendo numerosi esempi di costruzione coloniale di 'identità etniche' che non appartenevano in alcun modo alle popolazioni, che poi col tempo le assunsero loro malgrado, imprigionandovisi in logiche di guerra. Questo processo ebbe avvio fin dalla costituzione della polis cui si contrapponeva l' ethnos, che rappresentava il variegato e multiforme insieme di popolazioni, non solo greche, che vivevano fuori dalle mura della polis, fuori dalla sua cittadinanza (Amselle). Il processo di costruzione identitario, oltre che una pura invenzione, totalmente convenzionale, costruisce dialetticamente e contestualmente anche l'altro. L'identità/alterità si presentano in altri termini come prodotti di uno stesso processo selettivo. Da qui la deriva di alcune identità che Remotti definisce 'armate' scorgendo nelle religioni monoteiste il maggiore pericolo della loro diffusione.

[...]

L'identità umana può essere locale?

In una recente pubblicazione, Intervista sull'identità, Z. Bauman (2003) ha chiarito il suo punto di vista sull'identità e anche il suo personale percorso identitario. Mostrando i limiti e gli orrori dei processi identitari legati al nazionalismo egli sembra schierarsi contro ogni forma di identità, anche quelle più debolmente locali; e individua nella formazione di una 'identità umana', probabilmente ripresa da E. Morin (2002), l'unica via di scampo dalla peste identitaria.

[...]

L'orientamento di Z. Bauman è radicalmente contro ogni idea di produzione di identità nazionale, etnica o locale che sia; ed è verso queste ultime che si mostra radicalmente critico. Per lui identità locale è "una disperata quanto vana ricerca di soluzioni alternative locali a problemi globali, in una situazione in cui nessuno può più contare a questo riguardo sulle convenzionali istituzioni statali" (2003: 70). Per Bauman l'identità è guerra, neppure negoziazione, poiché il suo 'habitat naturale' è la battaglia; "l'identità nasce solo nel tumulto della battaglia e cade addormentata, tace non appena il rumore della battaglia si estingue" (2003: 75). Di tutto ciò e della produzione di identità locali Bauman ha sostanzialmente un giudizio negativo e i movimenti che si impegnano nella costruzione di queste identità non rappresentano forme di vita emancipative e sbagliano a partire dall'accettazione di uno slogan e di una pratica, "pensa globalmente agisci localmente". È sbagliato - dice Bauman se non addirittura dannoso (2003: 100).

Per essere agenti di identità emancipative questi movimenti, queste forme di vita dovrebbero negarsi o convertirsi poiché non c'è spazio logico, né antropologico o sociologico per loro; per esistere in qualche modo devono dimostrare di sapere innalzare la nostra identità a livello dell'umanità (2003: 101). Infatti i movimenti contro la globalizzazione, invece di lavorare per azzerarla frammentandola, disfacendola nei localismi, dovrebbero porsi questo obiettivo: "imbrigliare e controllare i processi di una globalizzazione fino a questo momento selvaggia e trasformarla da una minaccia ad una opportunità per l'umanità".

Non credo che le due identità, locale e umana, siano incompatibili. È stata già immaginata, come si è visto,

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