Copertina
Autore Leilah Nadir
Titolo I giardini di Baghdad
SottotitoloStoria della mia famiglia perduta
EdizioneCairo, Milano, 2008, Scrittori stranieri , pag. 384, ill., cop.ril.sov., dim. 15,5x21,8x2,8 cm , Isbn 978-88-6052-140-8
OriginaleThe Orange Trees of Baghdad [2007]
TraduttoreMarina Petrillo
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe narrativa irachena , paesi: Iraq , citta'
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Indice


Introduzione. La Madre Lingua                   15

 1. L'aranceto                                  31
 2. La terra di mio padre                       39
 3. La terra madre                              75
 4. «È scritto»                                 89
 5. Le tre Grazie                               105
 6. Frammenti di una civiltà                    131
 7. Una finestra sulla Baghdad occupata         143
 8. Il limbo dell'occupazione                   163
 9. I cristiani                                 175
10. Una crisi dello zucchero                    185
11. Neve nel deserto                            197
12. La morte di Lina                            227
13. Il fiore di melograno                       243
14. Ritratti dei feriti                         257
15. Min al'Sima, «venuto dal Cielo»             273
16. L'odore di un'autobomba                     289
17. La nuova Baghdad a Damasco                  301
18. L'Iraq viene da me                          309
19. Una lettera dalla città della pace          339
20. Natale a Baghdad                            367

    Bibliografia                                377

    Ringraziamenti                              379


 

 

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Pagina 17

«Ricordo il nostro giardino a Baghdad. Lungo i muri crescevano i cespugli di rose, e gli aranci sovrastavano i germogli e le foglie scure. Una palma da dattero si stagliava sopra il fogliame, intrecciata con alcune fronde delle palme di un grande giardino che confinava con il retro del nostro. Avevamo un albero di melograno carico di piccoli frutti che mia sorella minore amava mangiare. Coltivavamo menta e prezzemolo per le insalate e mia madre teneva perfino una pianta di luffa dalla quale ricavava spugne per i lavori di casa. Una vite saliva sul pergolato dietro la casa e ci dava ombra nel calore dell'estate. La vite ricordava a mio padre il suo villaggio d'origine in Siria, ma non produceva grappoli d'uva. Il clima non era adatto per farli maturare. Mia madre usava le foglie per avvolgere i dolma appena fatti.»

Questo non è un mio ricordo. È un'immagine nascosta nella memoria di mio padre. Come tutte le origini mitologiche, anche le sue hanno radici in un giardino.

Mi sento l'Iraq nelle ossa, anche se non ci sono mai stata. Non ho mai oziato all'ombra della palma da dattero in un giorno di caldo soffocante, o la sera sotto le foglie pendenti della vite. Non ho sentito il profumo del gelsomino o dei fiori d'arancio avvolgere le notti di Baghdad. Non ho mai assaggiato il mango in salamoia col masguf – la specialità di pesce della città – in un ristorante all'aperto sulle rive del Tigri. Nemmeno mio padre Ibrahim ha fatto nessuna di queste cose da quando ha lasciato l'Iraq a sedici anni, nel 1960, per andare a studiare all'università in Inghilterra. In giro per il mondo ci sono circa cinque milioni di esuli, provenienti da un paese di venticinque milioni di abitanti; circa un iracheno su cinque non vive in Iraq. La maggior parte, come mio padre, ha paura di tornarci, anche in tempo di pace. E così noi non l'abbiamo mai fatto.

Eppure il giardino esiste ancora, la casa dell'infanzia di mio padre è ancora in piedi. Gli aranci sono ancora lì. Conosco il giardino solo attraverso le storie della mia famiglia: parole e immagini sui suoi profumi, il caldo torrido, la luce, le farfalle, le cicogne e la leccornia di Baghdad, la panna di bufala. Baghdad è una città a cielo aperto, e in famiglia si mangiava spesso in giardino, o facendo un picnic sul prato, o cucinando sul barbecue in terrazza. Nella mia mente, l'immagine dell'Iraq si sprigiona dalla casa e dal giardino, formando onde concentriche. Vedo gli ultimi trent'anni che passano mentre la casa rimane là, a invecchiare con eleganza, poi vedo i componenti della famiglia che la lasciano, migrano, muoiono, e quelli rimasti che vengono lentamente messi in ginocchio dalla guerra e dalla povertà.

I miei nonni paterni Victoria e Khalil, cristiani iracheni, costruirono la casa oltre cinquant'anni fa. Avevano abitato a casa della mia bisnonna Samira da quando si erano sposati, e vi erano rimasti nonostante avessero tre bambini: mio padre e le sue sorelle, Siham e Ibtisam. Amal, la più giovane, non era ancora nata. Victoria e Khalil progettarono da soli la casa di famiglia e sovrintesero alla sua costruzione; a quell'epoca in Medio Oriente le persone non si trasferivano spesso, così loro avevano pensato di abitarci per tutta la vita e di lasciarla un giorno ai loro figli.

Quando mio padre aveva sei anni, con i suoi genitori e le sue due sorelle si trasferì nella nuova casa, che da quel giorno fu sempre piena di gente. La sorella di Victoria, Lina, e sua madre, Samira, si erano trasferite in una via vicina, e la loro casa finiva dove cominciava quella della zia di Victoria, Madeline; Lina, Samira e Madeline venivano sempre lì a prendere il caffè. La casa era anche il nucleo intorno al quale gravitavano i fratelli non sposati di Victoria. Amal, la minore delle tre sorelle di mio padre, nacque lì. Siham ricorda l'emozione di quando sentì il suo primo pianto, e di quando, vedendo la sorellina nuda, si dispiacque per lei perché non aveva vestiti.

Io ho visto la casa soltanto in alcune fotografie in bianco e nero, ma è elegante, col tetto piatto, fatta di mattoni e di stucco in stile Streamline anni Cinquanta, con un cancello di ferro all'entrata e un alto muro che circonda i due giardini, sia davanti che sul retro. Il tetto consiste in due terrazzi delimitati da muretti progettati per tutelare l'intimità e uniti fra loro da una scala; un terrazzo è per i genitori e l'altro, a un livello inferiore e col muro levigato, per i bambini. Nelle notti d'estate gli abitanti di Baghdad dormono in lettini sistemati sul tetto, perché all'interno delle abitazioni fa troppo caldo. L'estate dura un terzo dell'anno, perciò devono dormire sotto le stelle per mesi. Le fotografie mostrano la casa vista da ogni angolo, compreso il lotto vuoto adiacente, dove una famiglia contadina venuta a cercare lavoro in città aveva costruito capanne di fango e paglia e allevava bufali. La moglie cuoceva il pane in uno speciale forno di argilla, un tanour (che è come un forno tandoori) e lo vendeva. La sera mio padre e le sue sorelle guardavano dal tetto i vicini preparare i loro letti di canne. Ogni giorno mio nonno Khalil comprava direttamente da loro il pane, il latte e la panna di bufala freschi.

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Pagina 33

Sono da sola in casa, a Vancouver, e guardo Baghdad che brucia in televisione. È il 22 marzo 2003. Gli incendi infuriano in tutta la città, i roghi illuminano le tenebre. Qualche notte fa mi sono risvegliata da un sogno molto vivido: camminavo per quelle strade, lungo le mura di cinta del palazzo di Saddam, vicino a dove so che si trova la mia casa di famiglia, e toccavo la pietra color della sabbia. Nonostante avessi paura, provavo un grande sollievo nell'essere a Baghdad. Ora tutto sta bruciando: alte vampate di luce gialla che distruggono la città. Per la prima volta vedo in diretta la Baghdad dell'infanzia di mio padre, la città che lui non vede da più di quarant'anni. Prendo il telefono e lo chiamo. Le sue parole soffocate mi risuonano nella mente: «Pensa che in tutti quegli edifici ci sono delle persone. Non sono vuoti».

Immagino tutte le persone che conosco laggiù, intrappolate e rannicchiate sotto la minaccia di quelle bombe che potrebbero piombare sulle loro case: la mia prozia Lina, i miei cugini Karim e Maha, i loro figli Reeta e Samir, gli altri zii e zie dalla parte di mio padre che non ho mai conosciuto. Penso alle loro grandi famiglie e alla mia amica Farah Nosh, una fotoreporter iracheno-canadese che sta raccontando la guerra per il New York Times e altre testate internazionali.

Tre giorni fa, sulla prima pagina del quotidiano Globe and Mail c'era una fotografia di Baghdad al tramonto. Nella foto, la città era pacifica, di un meraviglioso color sabbia dorata; palme da dattero verde chiaro fiancheggiavano il fiume Tigri. Guardando quella foto mi sono sentita tradita. Finalmente vedevo Baghdad, ma la città stava per essere distrutta.

Il giorno dopo, la prima pagina del Globe and Mail titolava: «Il primo attacco su Baghdad ha come obiettivo la leadership irachena». La guerra era cominciata. All'alba, missili Cruise e caccia invisibili F-117 lanciavano quelli che sarebbero stati conosciuti come «decapitation strikes»: attacchi che miravano a uccidere Saddam.

In tutti quei mesi di preparazione alla guerra non avevo creduto possibile che gli Stati Uniti attaccassero di nuovo l'Iraq. Una settimana prima che la guerra venisse dichiarata, quando ormai l'invasione era imminente e inevitabile, telefonai a Londra alle mie zie, Amai, Siham e Ibtisam, chiedendo se pensavano che Saddam Hussein avesse delle armi di distruzione di massa.

«Come fa ad avere delle armi?» disse Amai con il suo melodioso accento iracheno. «Nel paese non c'è niente, non ci sono medicine, non c'è cibo, non c'è denaro, figuriamoci armi! Come si fa a credere a una cosa del genere?»

Amai aveva assistito a tutta la guerra Iran-Iraq fino al 1988, e nell'agosto del 1990, quando l'Iraq aveva invaso il Kuwait, si trovava in vacanza a Londra. Cinque mesi dopo era cominciata la guerra del Golfo, e da allora lei e le due sorelle abitavano insieme a Londra.

«Ho appena parlato al telefono con zia Lina, a Baghdad. Quel che è certo è che abbiamo più paura noi di quanta ne abbiano loro» confessò.

«Abbiamo già vissuto in tempi di guerra» aveva detto Lina ad Amal. Lina, che non si era mai sposata e aveva settant'anni, era stata come una madre per le mie zie: quando erano bambine andava a trovarle tutti i giorni e si era trasferita da loro all'epoca in cui Amal era adolescente. «Sappiamo cosa significa essere bombardati. In un certo senso i bombardamenti non si sono mai interrotti.»

Lina aveva detto che là erano spaventati. Comunque non avevano la tv via satellite e quindi non sapevano quante armi fossero puntate sul loro paese. La televisione di stato stava cercando di galvanizzare la popolazione indebolita per convincerla che la guerra sarebbe stata vinta dall'Iraq. Amai non si era sentita di contraddire quel messaggio. Non le aveva detto che sui giornali, da noi, si ipotizzava che il piano angloamericano fosse di lanciare già nel primo giorno più missili di quelli che avevano bombardato Baghdad nei primi due mesi della guerra del Golfo, e che già nelle prime quarantott'ore di attacco il Pentagono aveva intenzione di colpire la città con tremila fra bombe e missili di precisione teleguidati.

I miei parenti di Baghdad, relativamente benestanti, si erano ridotti ad accumulare le razioni annuali di farina, zucchero e riso: un sacco per ciascun alimento e una piccola quantità di tè.

«Abbiamo già cominciato la dieta» aveva scherzato la mia prozia.

Naturalmente non c'erano alimenti deperibili, perché il frigo e i fornelli avevano smesso di funzionare appena erano state bombardate le centrali elettriche. I vicini stavano scavando un pozzo. Durante la guerra del Golfo la fornitura d'acqua era stata interrotta immediatamente («Ma perché?» aveva chiesto la mia prozia). Senonché l'acqua del pozzo era contaminata, e lei doveva bollirla prima che potessero berla. Ora stava pensando di cucinare su un fornello portatile finché non si fosse esaurita la sua unica bombola del gas.

Amai aveva chiesto a Lina cos'avrebbe fatto quando fosse finita la bombola.

«Ricorrerò agli alberi del giardino, quelli delle arance di Siviglia» era stata la risposta.

Lina aveva in mente di restare nella nostra casa di famiglia per tutta la durata della guerra, anche se fosse stata lunga. Se ne sarebbe presa cura, proprio come aveva fatto durante la guerra del Golfo e anche dopo, visto che la sua era affittata ad altri. Non voleva lasciar vuota la nostra per paura dello sciacallaggio. Si sentiva la guardiana della nostra casa e del giardino finché la nostra famiglia non fosse tornata a riprenderne possesso. Perché lei si aspettava che un giorno saremmo tornati.

Quando mio padre, da ragazzo, viveva in Iraq, tra febbraio e marzo gli alberi di narinj producevano piccole arance succose, aspre come limoni. È una qualità di arancia diversa da quella che conosciamo e che siamo abituati a mangiare. In Spagna questa varietà è considerata puramente ornamentale, ma in Iraq la si usa per cucinare. Quando le arance erano mature, mio nonno Khalil le staccava dall'albero.

«Il succo era ottimo per condire diversi piatti deliziosi e insalate» aveva detto ad Amal la mia prozia. «Ti ricordi? Tuo fratello e i tuoi cugini andavano a raccoglierle, tua madre le spremeva e scaldava il succo, che poi conservavamo per l'inverno: un centinaio di barattoli di succo d'arancia» aveva precisato «e con le bucce facevamo la marmellata.»

Durante la guerra del Golfo gli alberi avevano perso tutte le foglie.

«Forse era stata la mancanza d'acqua» aveva ipotizzato Lina. «O forse erano stati avvelenati.»

Dopo la guerra gli alberi avevano prodotto frutti deformi, non commestibili.

«Gli aranci stanno morendo un'altra volta» aveva aggiunto Lina.

Se questa guerra fosse durata troppo e il gas si fosse esaurito, aveva preannunciato la mia prozia, li avrebbero tagliati e bruciati.

«Cos'altro possiamo fare?» aveva concluso, alzando la voce.

Ma né io né Amal sapevamo con certezza se Lina lo dicesse sul serio.

Durante quella breve telefonata, alla vigilia dell'invasione del 2003, per me fu come se la mia prozia tornasse in vita. Negli anni dell'embargo, dalla fine della guerra del Golfo all'attacco del 2003, nessuno aveva parlato molto di lei. Da quando avevo lasciato Londra, poi, lei era come sparita. E ora invece mi immaginavo la sua vita quotidiana, le sue preoccupazioni concrete e la sua sollecitudine nel custodire la nostra casa di famiglia mentre si preparava a un altro assedio, a un altro bombardamento. L'avevo appena ritrovata e l'avrei perduta di nuovo.

Non potevamo sganciare bombe sulla mia zia settantenne. Pensavo che chiunque avesse sentito la sua storia se ne sarebbe reso conto. In una corsa disperata contro il tempo, scrissi un articolo intitolato «Vivere a Baghdad in tempo di guerra» e lo inviai al Globe and Mail, pregando la redazione di pubblicarlo. Ma quando l'articolo andò in stampa era ormai il 20 di marzo: gli Stati Uniti e l'Inghilterra stavano già sganciando le loro bombe «intelligenti» su Saddam Hussein e «collateralmente» sulla popolazione irachena.

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Pagina 41

Con la guerra che infuriava non riuscivo a dormire, e facevo fatica ad affrontare i consueti rituali della mia vita quotidiana. Mi rendevo conto che la cultura di mia madre stava terrorizzando quella di mio padre. Il presente stava invadendo il passato. Nella mia vita era già accaduto, durante la guerra del Golfo del 1991, ma allora l'accordo internazionale sulla necessità della guerra e il silenzio complice dei media occidentali ci avevano tenuto al riparo dalla reale devastazione che veniva inflitta alla società irachena. Questa volta avevo trentadue anni, dodici in più di allora, e sapevo che in quello che stava succedendo c'era qualcosa di profondamente sbagliato.

I miei fratelli e io non esisteremmo se gli inglesi non avessero creato l'Iraq ricavandolo dalla spartizione dell'Impero ottomano sconfitto dopo la Prima guerra mondiale. Le battaglie e l'impero hanno dato origine alla nostra famiglia: siamo i frutti della guerra. Quando mi guardo allo specchio, cerco di indovinare quali tratti ho ereditato dal mio padre iracheno e quali dalla mia madre inglese. Ma proprio lo scontro fra culture che mi ha creato è una componente della ragione che mi impedisce di andare nella terra dei miei avi. Ora, mentre assisto a questa guerra, è come se una parte di me stesse invadendo l'altra. Mi sento come se questa guerra si combattesse fra le due culture che mi scorrono nelle vene, e questo rende la mia esperienza completamente diversa. Guardare me vuol dire guardare l'aggressore e la vittima. Io sono il nemico e l'alleato.

Mio padre ancora una volta si è trovato a essere il nemico. Eravamo molto uniti, eppure sapevo poco del suo rapporto con l'Iraq o con la sua grande famiglia. Il suo passato era rimasto sommerso dentro di lui, e ce lo aveva tenuto nascosto per ragioni che non capivamo.

La sua storia è semplice. Il governo iracheno gli aveva concesso una borsa di studio per andare in Inghilterra, con l'intesa che lui tornasse nel suo paese a trasmettere le conoscenze acquisite. Invece, mio padre si innamorò di mia madre, una donna inglese, e il nonno restituì al governo l'ammontare della borsa di studio. Il regime iracheno era così spietato che mio padre non sapeva quel che sarebbe accaduto se fosse rientrato, e così non volle mai rischiare. Poteva essere costretto a restare per un arbitrio del regime, arruolato nell'esercito oppure obbligato a lavorare nella Compagnia Petrolifera Irachena come ingegnere o a fare chissà quale altro mestiere sgradito.

Vista retrospettivamente, la storia sembra strana, come se mancassero dei dettagli, anche se io non l'ho mai messa in dubbio. Mio padre non è loquace, specialmente quando l'argomento della conversazione è lui, il suo passato o le sue emozioni. Ottimo ascoltatore, è un osservatore riflessivo, che raramente dice qualcosa di superfluo e che, quando parla, lo fa per dire qualcosa d'insolito, ironico o sorprendente. Perciò non era strano per noi figli che non parlasse mai molto della sua patria.

A cinquantanove anni ha i capelli ancora neri con poche ciocche argentate, le folte sopracciglia lo fanno sembrare molto serio, ma i suoi occhi scuri sono mansueti. Ha l'aspetto di un arabo ma, avendo vissuto per tanti anni nel Nord del mondo, la sua pelle olivastra è pallida e si scotta al primo sole estivo.

Ingegnere e imprenditore di successo, mio padre ha un approccio scientifico e razionale alla vita. Pienamente affidabile, ama la matematica e notoriamente, come dicono i suoi colleghi prendendolo in giro, «non fa mai errori». Non è superstizioso, non è complottista ed è uno che pensa con la propria testa; gli piacciono i giochi di strategia come il bridge e gli scacchi, mentre il misticismo e i miracoli lo imbarazzano. Forse per il fatto che ha sposato un'inglese, in Canada non ha socializzato molto con altri iracheni e non ha condotto una vita da arabo. Si è integrato volentieri e con facilità, e in Occidente è sempre stato felice.

Dopo l'11 settembre, il dibattito sul tema «gli Stati Uniti devono invadere l'Iraq?» si era fatto particolarmente rovente. Nella confusione di tutte le argomentazioni pro o contro avevo chiesto a mio padre se pensava che gli iracheni sarebbero stati felici di veder deposto Saddam. Lui aveva scosso la testa. Allora avevo detto: «Sarai felice se non ci sarà più? Voglio dire, tu non puoi nemmeno andare in Iraq per colpa sua». Poi avevo balbettato – era una cosa difficile da dire –: «Per colpa del suo regime non sei nemmeno potuto andare al funerale dei tuoi genitori, non hai nemmeno potuto vederli prima che morissero. Devi per forza volere che se ne vada». Lui si era stretto nelle spalle; non voleva ancora rivelare i propri sentimenti. Non era mai andato a pregare sulle loro tombe. Pensavo che non mi avrebbe risposto. invece parlò.

«Nessuno odia Saddam Hussein quanto lo odio io, nessuno sarebbe più felice di me se non ci fosse più» aveva ribattuto con rabbia. «Ma questa guerra è illegale, immorale! Non sarebbe giustificata, è una guerra preventiva. In Medio Oriente verrebbe vista come un'invasione occidentale che va contro le leggi internazionali, e confermerebbe i peggiori pregiudizi sull'imperialismo occidentale. Non sarebbe accettabile. Non puoi semplicemente decidere che il tuo vicino non ti piace e andare a casa sua ad ammazzarlo. Non puoi ergerti a giudice e farti giustizia da solo. Moriranno degli innocenti, e allora come ci si può rivolgere a un popolo oppresso da un despota dicendogli che non deve accettare azioni simili? Sarebbe un'ipocrisia.»

Mio padre pensava che dopo l'11 settembre 2001 il mondo fosse ben disposto verso gli Stati Uniti e che questa fosse un'opportunità per mostrare una certa moderazione e avere tutti dalla propria parte cominciando il nuovo millennio nel segno della pace.

La prima manifestazione a cui mio padre avesse mai partecipato era stata proprio contro l'invasione americana dell'Iraq. Era scettico.

«Non posso credere che sto protestando contro la rimozione di Saddam: questo dimostra quanto sia dissennata la politica di Bush! È ridicolo» aveva detto scuotendo la testa. «Se George Bush non riesce a vincere una gara di popolarità contro Saddam Hussein, dev'essere messo proprio male.» E poi aveva aggiunto sardonico: «Sono sicuro che Bush sarà davvero spaventato da tutte queste proteste pacifiche». Ma era andato a manifestare lo stesso.

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Pagina 165

Quando il 13 dicembre 2003 Saddam Hussein, odiato dalla maggior parte degli iracheni, viene catturato dalle forze americane, molti di loro non reagiscono con il grido della dolce vendetta che ci si aspetterebbe. Vedere una figura così potente, che aveva tiranneggiato il suo popolo per tanto tempo, improvvisamente ridotta alla condizione di un vecchio barbuto che si nasconde disperato in un buco della misura e della forma della sua futura tomba, e poi messa in mostra dalle emittenti internazionali mentre qualcuno gli esamina i denti come a un animale, è una cosa che li inquieta. Si sentono stranamente avviliti; non necessariamente per riguardo nei confronti di Saddam come persona, visto che era temuto e odiato, ma per ciò che la sua cattura rappresenta. Anche se era stata una dittatura corrotta e meschina, si trattava comunque di un governo iracheno. L'umiliazione di Saddam simboleggia l'umiliazione dell'Iraq. Gli iracheni non hanno più il controllo del paese: ce l'hanno gli americani. È un ritorno a settant'anni prima, all'occupazione inglese, preludio alla vera indipendenza conseguita nel 1958. Adesso l'hanno perduta di nuovo. Se qualcuno che sembrava potente e stabile come Saddam è potuto cadere così in basso, allora nessuno è al sicuro.

Nell' Inferno di Dante, il Limbo è il primo cerchio, un luogo in cui le anime persistono in desideri senza speranza, vivendo sull'orlo della profonda valle dolorosa. Nel marzo del 2004, un anno dopo l'invasione, l'Iraq si trova in un limbo terribile e sta rapidamente diventando un luogo infernale, invivibile. Ma l'amministrazione americana sostiene che ora che Saddam è stato catturato, la violenza si spegnerà, anche se magari non immediatamente, e che tutti gli «avanzi» del suo regime smetteranno di combattere dal momento che il loro leader è prigioniero.

Quando Karim alla fine va a cercare lavoro dietro i bastioni di cemento della Zona Verde, resta traumatizzato nel vedere gli americani che circolano in macchina e mangiano allegramente nei caffè, mentre la sua famiglia sta ancora lottando con la mancanza di elettricità, di acqua e di sicurezza. Nel cortile imponenti bandiere americane e inglesi ne affiancano una irachena molto piccola. Da allora Karim ha cercato disperatamente di procurarsi un lavoro, ma senza i contatti giusti nell'Autorità Provvisoria della Coalizione ha poche possibilità. Si sente dire che molte imprese occidentali avrebbero stipulato contratti con l'esercito americano promettendo di non assumere iracheni per «ragioni di sicurezza».

Karim non riesce a capire come il paese più potente del mondo non sia ancora in grado di fornire luce, telefoni, petrolio e, soprattutto, sicurezza. La «libertà» significa che lui può esprimere la propria opinione e contattare liberamente noi che siamo in esilio. Ma lui e la sua famiglia non hanno assaggiato la libertà quotidiana perché, senza sicurezza, la libertà è priva di significato. Lo humour nero di Karim maschera la sua profonda delusione. Dopo aver sentito alla radio l'ottimistico discorso settimanale di Paul Bremer, il quale proclamava che scuole e ospedali erano aperti e che la vita stava migliorando, era scoppiato a ridere: «Il signor Bremer pensa che stiamo vivendo nel miglior paese del mondo».

Dopo venticinque anni di guerra e di embargo, Karim, come i suoi compatrioti, è esausto. La disoccupazione viaggia al sessanta per cento, e si fa sentire specialmente se non si è abbastanza «fortunati» da lavorare con le forze di occupazione. Se ci si arrischia a cercare lavoro, si corre il pericolo di saltare in aria per mano di coloro che mirano a smantellare l'occupazione. Il mondo è ancora lì a preoccuparsi del fatto che George W. Bush venga o meno rieletto, ma intanto gli iracheni sono consumati dall'ansia per la loro vita quotidiana. Prima della guerra, durante l'embargo, le donne uscivano di rado perché erano troppo occupate ad assicurarsi la sopravvivenza in condizioni durissime. Potevano però vestirsi come volevano, e la moglie e la figlia di Karim andavano al mercato o a scuola senza alcun timore. Ora accade spesso che le donne non escano di casa per giorni, preferendo che siano i loro uomini a fare la spesa, per paura dei rapimenti, delle bombe, dei criminali nelle strade o degli omicidi casuali.

Mentre le autobomba e gli attacchi suicidi aumentano in modo esponenziale, i nostri parenti in Canada e in Inghilterra mi chiedono delle mie conversazioni con Karim per capire quello che sta succedendo in Iraq. I media occidentali e la CPA sembrano ignorare chi c'è dietro gli attentati; le teorie sono tante, almeno quanti gli attentatori. Gli americani sostengono che i colpevoli sono gli ex baathisti o i «combattenti stranieri» (senza cogliere l'ironia del fatto che anche i loro soldati erano combattenti stranieri) o coloro che definiscono col termine comodamente vago di «insorti». All'inizio Karim pensava che a commettere gli attentati dovessero essere persone venute da fuori, ma a volte propende per l'ipotesi che siano gli americani a provocare l'instabilità, visto che le vittime degli attentati sono soprattutto irachene. È convinto che gli iracheni non sottoporrebbero i propri compatrioti a una simile violenza indiscriminata. Gli chiedo se pensa che ci sarà una guerra civile.

«Chi trarrebbe beneficio da un simile caos?» s'interroga.

Certamente non gli iracheni, la maggior parte dei quali sono sconcertati dai continui riferimenti occidentali alle discordie fra sunniti, sciiti, cristiani e curdi, visto che quasi tutte le famiglie irachene sono un miscuglio di etnie, e in Iraq non c'è mai stata una guerra civile.

Si risente quando il Consiglio di Governo, nominato dalla CPA, presenta una nuova bandiera nazionale. Karim osserva che la CPA è molto efficiente nel coniare nuovo denaro, istituire nuove ambasciate, introdurre nuove festività e adesso anche la nuova bandiera per un nuovo paese, mentre al di fuori della Zona Verde non c'è alcuna sicurezza. Il giorno prima a Baghdad aveva sentito tredici esplosioni, e di una aveva visto le conseguenze vicino a casa sua, alla chiesa del quartiere e alla scuola di suo figlio. Di queste esplosioni i notiziari internazionali non avevano parlato, come di tanti altri simili incidenti, perché erano molto frequenti.

Mi racconta anche che in Iraq ci sono sempre più attentatori suicidi che si fanno saltare in aria. La frequenza di questi episodi è agghiacciante. Il primo attentato suicida è avvenuto due giorni dopo la caduta di Baghdad: un soldato è stato ucciso nei pressi di piazza Firdous, dov'era stata abbattuta la statua di Saddam. Karim è rimasto scioccato.

«Sotto Saddam non c'erano attentatori suicidi» dice.

Ha un tono molto stanco e depresso. Mi sento impotente. Continuo ad assicurargli che vorrei poter fare qualcosa e che nessuno dovrebbe trovarsi costretto a vivere come tocca a lui, ma so che quando avremo riappeso, lui dovrà mettere a rischio la vita camminando per le strade di Baghdad, mentre io sono al sicuro nella mia Vancouver.

«Per favore» riprende «trova un modo per farci uscire di qui, andremo da qualunque parte, anche su un'isola deserta, qui è l'anarchia totale».

Uno dei suoi vicini gli ha detto: «Vorrei che gli americani si sbrigassero a processare Saddam, a dichiararlo innocente e a riportarlo al potere per risolvere questo caos».

È umorismo iracheno, certo, ma maschera a malapena la disperazione e il disincanto che prova la gente. Dire scherzosamente di voler reintegrare Saddam è come affermare di voler tornare in prigione perché, nonostante la perdita della libertà, perlomeno in prigione la vita è prevedibile.

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