Copertina
Autore Loretta Napoleoni
Titolo Maonomics
SottotitoloL'amara medicina cinese contro gli scandali della nostra economia
EdizioneRizzoli, Milano, 2010, , pag. 376, cop.ril.sov., dim. 14x22,3x2,8 cm , Isbn 978-88-17-03993-2
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe paesi: Cina , globalizzazione , economia finanziaria , economia politica , storia contemporanea , paesi: USA
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Indice


Introduzione                                             7

Prologo. Depressioni in corso                           21


    Parte prima: globalizzazione e comunismo

 1. Le fabbriche dello sfruttamento:
    Charles Dickens a Shenzhen                          31

 2. La corsa dei salari verso il basso                  45

 3. La nouvelle cuisine cinese:
    marxismo in salsa neoliberista                      57

 4. Oltre la Grande Muraglia                            72

 5. Il sogno neoliberista di modernizzazione            86


    Parte seconda: globalizzazione e capitalismo

 6. Il mondo è piatto                                  109

 7. Neoliberismo finanziario predatore                 124

 8. L'unione fa la forza                               137

 9. Da Maometto a Confucio                             149

10. La Grande Muraglia dell'energia rinnovabile        163


    Parte terza: globalizzazione e democrazia,
                 un matrimonio riparatore

11. Guardare Washington e Pechino
    con gli occhi a mandorla                           183
12. Spinning di fine impero:
    Osama bin Laden il moderno Attila                  197
13. I picconatori dello Stato-nazione                  206
14, La supply-side economics                           218
15. The Full Monty                                     228
16. Mediacrazia                                        239
17. Le mille Evite di Berlusconi                       251


    Parte quarta: immagini dal futuro

18. Scene da un matrimonio                             269
19. L'ultima frontiera                                 283
20. Globalizzazione e crimine                          296
21. Rousseau in ideogrammi cinesi                      310

Epilogo. Spie internazionali                           327
Note                                                   335
Bibliografia                                           355
Glossario                                              363
Ringraziamenti                                         371


 

 

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Pagina 7

Introduzione



A vent'anni dalla fine della Guerra fredda, le democrazie occidentali faticano ad arginare la prima vera crisi economica della globalizzazione. La Cina comunista, al contrario, non solo ne contiene l'impatto, ma sfrutta la contrazione della domanda estera per avviare riforme sociali ed economiche rivoluzionarie. Tra queste: maggiori garanzie per i lavoratori e un nuovo sistema monetario internazionale, possibilmente ancorato alla moneta nazionale.

Il nord della bussola della stabilità economica si sta inesorabilmente spostando in Cina grazie a una serie di cataclismi economici che ridisegnano l'assetto macroeconomico del pianeta. L'ultimo, la crisi del credito e la recessione, ha catapultato Pechino tra le nazioni più potenti al mondo. Nessuno oggi può negare che il New Deal cinese sia stato l'ancora di salvezza della recessione e abbia evitato che questa degenerasse in una nuova Grande depressione. E molti sono convinti che i cambiamenti in atto finiranno per spodestare il primato economico statunitense.

Le metamorfosi cinesi non sono però circoscritte all'economia. La crescita del Pil va a braccetto con riforme sociali e politiche impensabili ai tempi del maoismo, una strana coppia in un Paese ancora comunista. Dalla difesa dei diritti umani al potenziamento dell'energia rinnovabile, fino al rispetto delle regole del World Trade Organization e all'esperimento della democrazia partecipativa, questa nazione è impegnata nella creazione di un nuovo modello di società. E sebbene per ora la democrazia di stampo occidentale non rientri tra i traguardi che si prefigge, è pur vero che da almeno un decennio ha preso definitivamente le distanze dal totalitarismo post-bellico e guarda solo al futuro. Possiamo parlare di capi-comunismo? Potrebbe essere proprio questo il modello del Ventunesimo secolo.

Chi visita città come Shanghai o Pechino ha infatti un'anteprima delle metropoli del domani. Il loro dinamismo è una droga che intossica tutti, specialmente gli stranieri. Migliaia di giovani occidentali scelgono di vivere a Shanghai perché intuiscono che questa è la piattaforma di lancio del nuovo mondo, e non solo per via dell'Expo del 2010. Chi vive in Cina da tempo ne è cosciente, sa di far parte del laboratorio del futuro, una fucina socio-economica, ma anche politica, dove si lavora giorno e notte per dar forma alla modernità.

Un'immagine totalmente diversa emanano le metropoli occidentali. Qui ancora non si riesce a uscire dal pantano del post-moderno. Un senso di decadenza impregna le istituzioni socio-economiche e la macchina politica è arrugginita dal tempo e dalle intemperie finanziarie. Siamo vecchi, si legge negli sguardi dei pendolari che ogni mattina salgono sui mezzi di trasporto sempre più pieni e sempre meno efficienti. Siamo vecchi, ci dicono i nostri giovani destinati al precariato o alla disoccupazione. Siamo vecchi e la ricchezza futura dell'Europa potrebbe ridursi al patrimonio storico e culturale del continente, trasformato nel più grande museo del mondo.

Anche l'economia è vecchia, e persino la nostra democrazia risente dell'età avanzata. I giovani occidentali che trovano occupazione percepiscono salari troppo bassi rispetto al costo della vita; le discriminazioni nei confronti degli immigrati, che svolgono i lavori più umili, sono all'ordine del giorno; ce la prendiamo con loro per gli errori commessi dalla nostra classe politica, un'élite che non rispecchia più la volontà della popolazione e lavora esclusivamente per rimanere al potere. E la stampa sembra impossibilitata a esercitare quella libertà che è costata tante lotte e tante vite umane.

Osservando con attenzione, è evidente che la genesi della senilità dell'Occidente è la stessa del rinascimento socioeconomico cinese: la caduta del Muro di Berlino.

Ma allora chi ha vinto la Guerra fredda?


La vittoria di Pirro dell'Occidente

Torniamo indietro a quel fatidico anno 1989, segnato da due eventi in apparenza diametralmente opposti: la repressione di piazza Tiananmen e la caduta del Muro di Berlino. Entrambi danno il «la» al processo di globalizzazione e influenzano le future politiche economiche del pianeta. La sinistra occidentale va in frantumi e il neoliberismo si impone come unico modello trionfante. Nell'euforia della vittoria pochi intuiscono che la globalizzazione rappresenta per l'Occidente la fine del primato economico. A vent'anni di distanza è facile considerarla una vittoria di Pirro, poiché le riforme e i riassestamenti epocali prodotti da questi due eventi ridisegnano la mappa geopolitica del pianeta a favore della Cina comunista. Ma vent'anni fa l'interpretazione ufficiale e le aspettative erano ben diverse.

Ancora oggi l'Occidente vede nella risposta armata di Pechino in piazza Tiananmen la repressione violenta della democrazia di stampo occidentale e nell'abbattimento del Muro di Berlino il segno del suo trionfo sul mondo comunista. E ritiene conclusa la Guerra fredda con una vittoria netta del sistema democratico, considera fortunati i sovietici che l'hanno abbracciato, e sventurati i cinesi rimasti comunisti. In un certo senso, la Cina finisce così per rimpiazzare nell'immaginario collettivo occidentale il nemico sovietico: un regime dittatoriale dove non si rispettano i diritti umani, un Paese ipocrita che falsa i dati economici e sfrutta biecamente i lavoratori, una nazione ben lontana dal poter aspirare al ruolo di prima super potenza del mondo globalizzato. Il tutto, naturalmente, a causa dell'assenza di democrazia, senza la quale non c'è né benessere né progresso.

Peccato che questo ragionamento poggi su alcune inesattezze, o vere e proprie leggende.

In termini di obiettivi economici raggiunti negli ultimi vent'anni, la Cina ha gestito il processo di globalizzazione meglio delle democrazie occidentali. Da quel lontano 1989 le condizioni di vita medie dei cinesi sono migliorate radicalmente, mentre nell'Est europeo e nei territori della vecchia Unione Sovietica, dove la democrazia di stampo occidentale ha attecchito, povertà e analfabetismo sono tornati alla ribalta. Per non parlare poi dell'Iraq e dell'Afghanistan dove l'esportazione della democrazia con le armi è sfociata nella guerra civile.

Chi in quel lontano 1989 sarebbe uscito «sconfitto» dalla Guerra fredda oggi si candida alla guida dell'economia globalizzata. Un paradosso? No. Piuttosto, un errore di lettura che nasce dalla miopia politica e dall'arroganza di un Occidente abituato da sempre a vedere in ogni manifestazione di dissenso proveniente dal mondo comunista, un sistema percepito come antitetico a sé, il desiderio di replicare il proprio modello di società. Un errore che, vent'anni dopo, bisogna correggere.


I significati indiscreti della democrazia

A Tiananmen come a Berlino, al grido di «democrazia» la gente non domandava un regime identico al nostro. Piuttosto chiedeva il nostro stesso benessere. Nel 1989 cinesi e abitanti dell'Est europeo sapevano ben poco della democrazia occidentale, di cui possedevano solo una visione romanzata, sicuramente falsata dalla propaganda occidentale e da quella comunista. Ciò che desideravano era un netto miglioramento delle condizioni economiche che, vista la ricchezza dell'Occidente democratico, confondevano con un cambio di paradigma politico. L'idea che bastasse abbracciare la democrazia per diventare ricchi era molto diffusa.

«La gente non sogna le elezioni politiche ma la libertà economica» ripeteva spesso nel 1981 il governatore della banca nazionale d'Ungheria quando lavoravo per lui. «Sulla bilancia dei desideri comunisti, la proprietà privata pesa più del diritto di voto.» E in nome di queste conquiste il popolo era disposto a tutto. Nei Paesi socialisti non mancavano tanto le urne quanto la molla del profitto, quella stessa che Marx definisce il fulcro dell'intero sistema capitalista e che come tutti sanno funziona bene nei regimi democratici. Ma nessuno Stato comunista ha capito la forza e l'importanza di questi bisogni, tranne la Cina.

Il Muro di Berlino non è crollato perché la forma di governo prediletta dall'Occidente ha vinto la Guerra fredda, ma perché il cosiddetto socialismo reale non ha compreso la teoria marxista, questa una delle verità sconcertanti emerse negli ultimi vent'anni. L'errore dei sovietici è stato rimuovere il profitto dall'equazione economica, pensando che bastasse quell'amputazione per dar vita alla dittatura del proletariato — l'unica parte dell'analisi marxista che non poggia sull'osservazione dei fatti ma su una serie d'ipotesi. Si tratta di un errore d'interpretazione paradossale perché la migliore analisi del profitto capitalista è proprio quella marxista. Chiunque lo abbia studiato a fondo sa bene che Marx non si sarebbe mai sognato di asportare il fulcro del sistema produttivo, al contrario il suo obiettivo era far sì che la classe operaia se ne impossessasse e ne godesse in proporzione al proprio contributo, in funzione del plusvalore.

La teoria marxista è fondamentalmente una dottrina economica, non una forma di governo. Travisato prima dall'ideologia politica leninista e poi dallo stalinismo, privato del senso delle proporzioni dall'antagonismo della Guerra fredda, il marxismo in Urss è diventato qualcos'altro: un regime totalitario. E questo a sua volta, con un movimento circolare, è assurto a sinonimo di comunismo. Il suo fallimento ha poi ridotto quella fetta di mondo dove era applicato a un deserto economico rimuovendo, assieme al profitto, la motivazione alla crescita.

Anche se a vent'anni di distanza continuiamo a festeggiare la vittoria dell'Ovest libero sull'Est totalitario, la verità è che l'avventura economica sovietica si è frantumata da sola. Come vedremo, la retorica ideologica di Reagan e della signora Thatcher, come pure i cardini del neoliberismo e l'impalcatura democratica che l'Occidente ci ha costruito intorno, non c'entrano proprio nulla con la caduta del Muro di Berlino. È stata la propaganda occidentale a costruire quella che ancora oggi è l'opinione prevalente: l'equazione che lega la disintegrazione dell'Urss al trionfo della democrazia.

Ancora oggi, questa certezza è fonte inestinguibile di sicurezza politica per tutti noi, ci porta a credere che la «nostra democrazia» sia superiore al marxismo inteso come sinonimo del totalitarismo sovietico, ma anche e soprattutto al modello del comunismo cinese. Mentre la Cina è proprio la riprova che non è Marx lo sconfitto dalla storia. A differenza dei russi, i cinesi sono riusciti a creare una forma di dittatura del proletariato che funziona, che si evolve. E che garantisce progresso e benessere meglio di altri sistemi, come confermano dati economici sconcertanti quali l'aumento del reddito reale medio pro capite cinese e la crescita del Pil al 9 per cento nel 2009, mentre quella delle democrazie occidentali era ancora sotto zero.

A questi dati di fatto viene spesso opposta un'obiezione ideologica: la Cina è una dittatura corrotta in cui non si rispettano i diritti umani. Una critica vecchia, che si riferisce a una nazione diversa da quella attuale e quindi solo in parte fondata. Anche sul piano dei diritti umani la Cina ha fatto passi da gigante, muovendosi lungo una traiettoria di rispetto dell'individuo. Siamo ancora lontani dal traguardo, ma nessuno può negare che i cinesi siano in pista. L'Occidente invece sembra muoversi in direzione opposta su un percorso fatto d'ipocrisia. Siamo gli incorruttibili paladini della giustizia internazionale, anche se esportiamo le nostre idee politiche con i B52 e quotidianamente facciamo affari con il crimine organizzato. Come definire l'intervento armato in Iraq sulla base d'informazioni false che ha portato a centinaia di migliaia di morti? O l'uso della tortura, le extraordinary renditions sancite dall'amministrazione Bush e praticate anche dagli inglesi, la prigione di Guantánamo? Si tratta di istituzioni in netto contrasto con la Dichiarazione dei diritti umani e la Convenzione di Ginevra.

Tristemente gli esempi di come anche l'Occidente infranga i diritti umani sono tanti e all'ordine del giorno. E lo stesso vale per la corruzione e la frode che dilagano ovunque, da Madoff a Wall Street, alla Cia in Afghanistan che paga il fratello di Karzai per tenere rapporti con i signori della guerra, a Blackstone, la società di mercenari statunitense implicata in una vicenda di corruzione in Iraq. Come vecchi che si aggrappano ai ricordi mentre la capacità di gestire il presente si sfilaccia, stiamo andando indietro, perdendo per strada valori che ci siamo conquistati attraverso secoli di lotte sociali.

La Cina invece va avanti e migliora giorno dopo giorno. Ma secondo i nostri parametri non è democratica. Ecco il nocciolo del problema. Ebbene, questa valutazione della «mancanza di libertà» politica della popolazione è frutto ancora una volta di un equivoco concettuale. Per i cinesi che nel 1989 occupavano piazza Tiananmen, davanti alla gigantografia di Mao, democrazia era sinonimo di uguaglianza economica, e cioè pari opportunità di crescita, qualcosa che negli ultimi vent'anni una grossa fetta della popolazione cinese ha ottenuto.

A differenza dei compagni sovietici, per loro «democrazia» non era una parola nuova, né un concetto politico «d'importazione» come le elezioni. Mao l'aveva pronunciata centinaia di migliaia di volte nei suoi discorsi, quando spiegava che il governo esiste per promuovere l'interesse del popolo, contrapponendosi volutamente a quello degli «altri» che invece il popolo l'opprimono — per esempio gli stranieri, presenti in Cina in qualità di colonizzatori fino alla rivoluzione del 1949. Ora, l'idea che lo Stato «serva il popolo» è ancora oggi profondamente radicata nella società cinese. Possiamo dire lo stesso delle nostre democrazie, scosse quasi quotidianamente da scandali politici?

C'è poi un altro elemento chiave: l'origine della democrazia per i cinesi è rivoluzionaria, non elettiva. Zhou Youguang, che a 103 anni ha vissuto una grossa fetta dell'epopea cinese, ricorda che Zhou Enlai sosteneva che il Partito comunista cinese era un partito democratico. Nel loro immaginario collettivo non c'è nulla di più democratico di una rivoluzione che spodesti chi mal governa. E i parametri su cui giudicano la negligenza dei governanti sono quasi tutti economici.

Oggi come vent'anni fa, la democrazia rientra nella sfera del Partito, non esiste al di fuori di esso e sicuramente non in contrapposizione. Nel libro Out of Mao's Shadow, che rivisita i fatti di Tiananmen nel 1989, uno dei partecipanti alle proteste, l'avvocato Pu Ziquiang, così descrive le motivazioni degli studenti: «Volevamo aiutare il governo e il Partito a correggere gli errori commessi». Non rovesciarlo o sostituirlo con un altro sistema politico. Studenti e operai cinesi in quella piazza chiedevano un'apertura dell'intero sistema che offrisse un miglioramento delle condizioni di vita. «Democrazia» era solo il nome di questa liberalizzazione, uno strumento per garantire opportunità che spettavano di diritto al popolo cinese.

Possibile che il significato del crollo del Muro e dei fatti di Tiananmen si sia totalmente perso nella traduzione politica da Oriente a Occidente? Niente di più facile. Sovietici e cinesi infatti sapevano poco o nulla della nostra forma di governo, ma allo stesso modo noi eravamo del tutto all'oscuro del significato che le attribuivano loro. Per noi la democrazia è un animale politico che si nutre di alternanza governativa, e se dovessimo scegliere un termine che la definisca, opteremmo per «suffragio universale». Ebbene, i cinesi selezionerebbero «capitalismo».

Qui occorre fare un passo indietro per ricordare che nella cultura politica occidentale economia e benessere non c'entrano nulla con il sistema di governo. Nata in una società dove l'economia era gestita dagli schiavi, la democrazia ateniese apparteneva agli uomini liberi, che la costruirono intorno alla libera discussione dei valori politici e filosofici, lontano mille miglia dalle esigenze del commercio e dell'agricoltura. E quando queste diventavano impellenti al punto da giustificare l'aggressione bellica, si ricorreva all'ideologia - si veda per esempio la colonizzazione della Magna Grecia fatta passare come il gesto generoso di Atene che esporta nel mondo il suo modello di libertà e giustizia. Una mossa retorica che utilizziamo ancora oggi.

Democrazia e benessere sono così scollegati nel nostro mondo che in un sistema scosso da crisi rovinose nessuno si sogna non solo di rovesciare la classe politica, ma persino di ammettere che fa parte del problema. Tutti sanno che le condizioni di vita in Occidente negli ultimi vent'anni sono peggiorate, ma invece di rivolgersi ai governanti con richieste di politiche concrete chiediamo loro che eccellano nell'arte del convincere. Non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti d'America, patria della democrazia, dove è il libero commercio che ha portato la ricchezza, non il Congresso. I Padri fondatori stessi erano profondamente liberisti, parlavano di libertà di mercato e di non ingerenza da parte dello Stato.

Non a caso in Europa il legame tra benessere e politica si fissa indelebilmente nell'immaginario collettivo nel secondo dopoguerra, quando il continente si ristruttura secondo il modello democratico in concomitanza con il Piano Marshall, che crea il miracolo economico. Ancora una volta sono il libero commercio e la ristrutturazione a dare vita al benessere, ma le logiche della Guerra fredda ci portano a credere che sia la democrazia la fonte della crescita economica.

È facile perdere nella traduzione politica il significato della democrazia ai due poli opposti del mondo: a Ovest è automaticamente sinonimo di buon governo, anche quando le cose stanno diversamente, mentre a Est il buon governo è quello che crea benessere, sottoposto di continuo alla prova dei fatti.


Coppie felici e infelici

Nel villaggio globale la coppia democrazia-benessere è dunque infelice. Ecco il più grande limite della forma di governo che Churchill definiva «la peggiore, a parte tutte le altre sperimentate nella storia». E questa massima, che poteva essere vera nell'Europa preda di regimi dittatoriali, dilaniata dalla Seconda guerra mondiale e poi dalla Guerra fredda, oggi suona fuori luogo proprio a causa dell'economia globalizzata e dell'ascesa della Cina. In un sistema in cui l'élite finanziaria decide i destini del mondo e si spartisce gran parte della ricchezza prodotta, mentre la politica arranca dietro di essa, che senso ha la parola democrazia?

La svolta conservatrice dell'Europa, la corruzione che dilaga e gli scandali che coinvolgono i nostri politici sono dovuti esattamente a questo: all'anacronismo della versione odierna della nostra forma di governo. Negli ultimi vent'anni non ha saputo evolversi, ha mantenuto quella distanza di sicurezza dall'economia, tanto cara agli ateniesi e che Platone critica duramente nella Repubblica. Dalla caduta del Muro di Berlino l'ha fatto utilizzando la teoria neoliberista secondo la quale il mercato regola l'economia meglio dei governi. E non dobbiamo meravigliarci se la globalizzazione si è rivelata vincente per la Cina, un Paese dove lo Stato ancora oggi guida le metamorfosi economiche, e perdente per noi occidentali dove la gestione dell'economia è stata invece delegata al mercato, spesso corruttore. L'ultima crisi del capitalismo globale sembra dirci che, almeno in questa fase di evoluzione, c'è bisogno di uno Stato ben presente, e l'esperienza cinese dimostra che l'economia funziona meglio se la guida rimane nelle mani di chi rappresenta il più possibile gli interessi del popolo e non delle élite. La parola «comunista» non è sinonimo di politburo ma della presenza dello Stato nell'economia quale garante degli interessi della popolazione.

Quella che per noi è un'assurdità, ovvero il binomio capitalismo-comunismo, o capi-comunismo, per i cinesi è un dato di fatto. Ed è una coppia felice, benedetta da Karl Marx. I leader cinesi hanno letto Il Capitale e capito che si tratta semplicemente dell'analisi sullo sviluppo del capitalismo. Marx non ha mai scritto di distruggere il sistema di produzione per rimpiazzarlo con un altro, non predicava di bruciare le fabbriche e tornare a un'economia agraria, non ha parlato di protezionismo né della fine del commercio internazionale, piuttosto ha spiegato la necessità storica di sostituirne la guida con la dittatura del proletariato per poi arrivare al capolinea di questa evoluzione: la società senza classi. E questa è la direzione in cui si muovono i cinesi.

Nel 1989 Deng Xiaoping intuisce le vere motivazioni dietro i fatti di Tiananmen, sa bene che la popolazione confonde il capitalismo con la democrazia. La sua risposta è quindi l'apertura economica: rende accessibile il profitto al popolo e ne incoraggia la produzione. «Arricchitevi» è il mantra che riecheggia nella Cina ancora scossa dal sangue della repressione. Come vedremo, ai contadini che a stento sopravvivono nelle campagne vengono concesse la proprietà dei prodotti e la mobilità; a chi vive nelle campagne si dà la possibilità di diventare lavoratori migranti e guadagnare in pochi anni quanto necessario per tornare a casa e avviare una propria attività commerciale. Si tratta di dinamiche politiche e sociali rivoluzionarie, avviate già alla fine degli anni Settanta, un paio d'anni dopo la morte di Mao, per le quali il 1989 ha rappresentato una battuta d'arresto che si protrae fino al 1992, quando l'esperimento riparte con successo e maggior impeto.

La storia ci dice che il capitalismo si evolve naturalmente verso la globalizzazione, perché il motore della crescita è il progressivo sfruttamento di nuove risorse. Anche la democrazia tende a globalizzarsi. Ma le numerose catastrofi economiche degli ultimi secoli sono lì a ricordarci che il binomio capitalismo-democrazia non funziona in questa fase di espansione, mentre il capi-comunismo potrebbe essere meglio equipaggiato per sfruttare sia le fasi ascendenti che quelle discendenti dell'economia globalizzata.

Dietro la crisi del credito e la recessione c'è dunque una profonda rivoluzione che sta facendo crollare gran parte dei postulati del passato, incluso il primato sociale, economico e politico delle democrazie occidentali: un rivolgimento epocale che ridefinisce anche e soprattutto il concetto di modernità.

Allora: ha vinto Marx?

Quel che è certo è che per comprendere i cambiamenti in atto c'è bisogno di una rilettura della teoria marxista a Pechino. La via cinese si rivela infatti una lente potentissima per analizzare la società e il capitalismo occidentale, che potrebbe aiutarci a correggere gli errori commessi a casa nostra negli ultimi vent'anni.

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Mentre gli psicoanalisti hanno evitato, soprattutto grazie al contributo di Carl Gustav Jung, di rimanere cristallizzati nella gabbia della teoria freudiana dell'inconscio, gli economisti sono tuttora ancorati ad Adam Smith, il padre della dottrina economica classica. Eppure il modello da lui descritto proviene da una realtà che non esiste più. Pochi ormai credono che i comportamenti egoistici della moltitudine producano il benessere delle nazioni. È difficile trovare un legame tra i bonus miliardari dell'alta finanza e la crescita del Pil, piuttosto è vero il contrario. Eppure, dal 1989 fino allo scoppio della crisi, tutte le democrazie occidentali, e gran parte dei nuovi regimi democratici, hanno applicato, abbracciandola in toto, l'ideologia del mercato. Nessuno ha messo in dubbio i poteri straordinari della sua «mano magica», anche quando questa creava profonde disparità di reddito, ingiustizie sociali, abusi e perfino frodi gigantesche.

Oggi la maggior parte dei politici ci incoraggia a spendere soldi che non abbiamo perché per far muovere l'economia nessuno ha sottomano un modello alternativo a quello consumistico, ormai obsoleto. Dalla caduta del Muro di Berlino l'economia è diventata monotematica. E l'Occidente affronta la più grande rivoluzione economica dai tempi di Adam Smith, e cioè il processo di globalizzazione, ingessato nel neoliberismo.

Invece di renderla più flessibile e adatta alle esigenze di un presente in costante movimento, la deregulation finanziaria ha facilitato gli abusi nell'economia capitalista. Per vent'anni nessuno si è preoccupato di studiare o creare un nuovo modello e nessuno ha criticato quello esistente. Perché l'euforia della vittoria sul comunismo ha accecato l'Occidente al punto da convincerlo che quello che possiede è già perfetto? Dato che il neoliberismo ha vinto la Guerra fredda, tutti hanno pensato che fosse una soluzione valida per sempre. Invece proprio in quel momento, per dirla alla Fukuyama, la scienza economica arrivava al capolinea e gli abusi si moltiplicavano.

E così siamo rimasti fermi alla teoria economica nata dalla Rivoluzione industriale, prigionieri di un sogno, di un trucco dell'inconscio, di una rimozione psicologica. Anche l'economia occidentale, come la psiche, è ingabbiata dalle aspettative per il futuro e dai dogmi del passato. Per vent'anni la politica deflazionista della Federal Reserve ha agito come il Prozac finanziario, ovvero ha fatto sì che l'Occidente ignorasse la crisi economica poiché ne cancellava i sintomi. Recessione e depressione sono state tenute sotto controllo dagli antidepressivi, che agiscono sulle manifestazioni senza rimuovere e curare le cause del malessere. Ora però non funzionano più.

Ma qual è l'alternativa? È mai esistito uno Jung dell'economia capace di ribaltare i dogmi del liberismo alla Adam Smith ed emancipare questa scienza dalla sua gabbia?

Sì, è esistito, e si chiamava Karl Marx.

Il marxismo, come la teoria di Jung, nasce dall'osservazione empirica. Oggetto di studio sono il sistema di produzione, i comportamenti della forza lavoro e la concentrazione del capitale nelle mani delle élite, una deleteria degenerazione per la società civile. Marx, come Jung, si discosta dall'interpretazione prevalente del tempo, e l'impostazione del suo approccio critico è talmente simile a quella dello psichiatra svizzero da poterlo definire lo «Jung dell'economia». I suoi studi, muovendosi completamente controcorrente, offrono una chiave di lettura diversa, di rottura rispetto a quella tradizionale; ma allo stesso tempo si riferiscono alla migliore possibilità di sviluppo del capitalismo, non alla sua distruzione.

Ora, la modernità della psicoanalisi sta proprio nella dicotomia tra i due padri fondatori, Freud e Jung; una tensione che non si è affievolita nel tempo. Nella scienza economica, invece, questa dialettica ha conosciuto una deriva storica. Marx, come Smith, fa parte della rosa dei padri fondatori, ma la teoria marxista, considerata come un'alternativa radicale e non come una critica costruttiva al modello di capitalismo liberista, ha cessato di influenzare il pensiero economico occidentale.

Per questo oggi il mondo non ha a disposizione un economista come John Maynard Keynes , il cui pensiero si è formato all'interno di una dialettica vivace e costruttiva. L'interscambio con i marxisti della scuola di Cambridge è stato fondamentale nella formulazione della Teoria generale , il capolavoro keynesiano. Così gli Accordi di Bretton Woods e il sistema economico e monetario che hanno fatto da cornice al miracolo economico post-bellico devono tanto a Marx e alla critica del capitalismo, quanto alla «mano magica» di Adam Smith. Ma dopo la caduta del Muro di Berlino Marx è stato spazzato via insieme al regime sovietico e al socialismo reale, ed è finito a raccogliere polvere nelle biblioteche. La dinamica relazione che esisteva tra liberismo e marxismo è venuta meno e con lei anche la modernità dell'economia. Ecco spiegato perché questa disciplina in Occidente è diventata monotematica, celebrativa di un modello unico.

Ma quella orientale no.

Dopo il 1989, solo in Cina si è continuato a studiare il marxismo insieme a tutte le altre teorie economiche. Ebbene, questo lavoro ha portato alla creazione di un modello nuovo, moderno, improntato al più severo pragmatismo. Come la psicoanalisi, anche il capitalismo Made in China usa tutto ciò che funziona (dall'impresa privata al controllo sui capitali) ed è quindi più flessibile e più attuale di quello occidentale. Il modello cinese sa adattare l'economia a cambiamenti epocali e repentini, quali il processo di globalizzazione, e questa flessibilità aiuta la Cina a diventare la superpotenza del villaggio globale e a ridefinire i parametri della modernità.

Questo libro spiega come è potuto accadere che dagli scarti teorici del capitalismo occidentale sia sorto il miracolo cinese. Un racconto accentrato sulla prodigiosa ascesa di un Paese che per ideologia o ignoranza continuiamo a fraintendere, un Paese che ci fa paura perché diverso da noi. Descrive, in parallelo, l'altrettanto prodigioso tracollo che aspetta il nostro sistema se ci ostiniamo a celebrare un modello economico e politico ormai usurato. La cura però esiste e potrebbe funzionare per la depressione e economica e psicologica che affligge l'Occidente. È una medicina cinese; tutto sta a volerla adattare alla fisiologia delle nostre democrazie.

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Le fabbriche dello sfruttamento:
Charles Dickens a Shenzhen



I cadaveri ustionati degli operai sono sparsi dovunque: davanti alle quattro uscite di sicurezza sbarrate dai chiavistelli, in cima alle scale di metallo scioltesi nel rogo, lungo la catena di montaggio e perfino nel bagno al primo piano, dove alcuni disperati hanno cercato inutilmente rifugio. In pochi minuti le fiamme trasformano la fabbrica in una fornace. E quel pomeriggio del 19 novembre del 1993, la maggior parte dei 135 operai che assemblano con frenesia gli ordini natalizi ci muoiono bruciati vivi dentro.

L'incendio distrugge tutto: dai macchinari ai materiali, accumulati contro le uscite di sicurezza perché l'impianto non possiede magazzini. Proprio da qui sono partite le fiamme, un corto circuito ha incendiato una pila di materie prime, che sono esplose lanciando schegge infuocate un po' ovunque. Nel giro di pochi minuti tutta la catena di montaggio è avvolta dal fuoco. Chi si trova al piano terra fugge verso l'unica uscita ma per gli altri, quelli che lavorano al primo piano, non c'è via di scampo, muoiono nel rogo.

Solo le inferriate di metallo alle finestre rimangono intatte, sotto di esse si accatastano i corpi dei disgraziati che hanno tentato invano di forzarle.


Il capitalismo occidentale incontra il socialismo cinese

Iniziamo dunque il nostro viaggio con una tragedia degli anni Novanta a Shenzhen, la più importante Zona economica speciale (Zes). Non lontana da Hong Kong, nel Guangdong, questa è un'area ribattezzata «il laboratorio capitalista della Cina comunista», una definizione che ben ne riassume il carattere sperimentale. Gli anni Novanta sono un periodo eccezionale in Cina, quando la politica della «porta aperta», l'apertura verso il capitalismo promossa da Deng Xiaoping, comincia a dare i suoi frutti e a forgiare una nuova nazione. Anni dunque di cambiamenti radicali, di grandi sacrifici e incredibile crescita economica, durante i quali il Paese tesse pazientemente la tela della sua futura modernità.

Ma torniamo all'impianto industriale incendiato. Si tratta della Zhili, una fabbrica di giocattoli di proprietà di un industriale di Hong Kong. Uno spettacolo apocalittico attende ispettori e giornalisti cinesi che vi arrivano poche ore dopo. Tutti hanno la sensazione di essere di fronte a una tragedia che poteva essere evitata. Il management, anch'esso di Hong Kong, ha infatti infranto ogni misura di sicurezza imposta dalla legislazione cinese: dal montacarichi senza porte antincendio, che avrebbero potuto salvare la vita a decine di operai bloccati dalle fiamme al primo piano, all'unico ingresso, un corridoio strettissimo, un cunicolo lungo otto metri e largo appena 80 centimetri che gli operai erano costretti a percorrere uno alla volta. Per non parlare poi delle inferriate di metallo alle finestre e dell'assenza di un piano di evacuazione in caso d'incendio. La direzione, che risiedeva in un edificio separato dalla catena di montaggio, non è neppure corsa in aiuto dei poveretti che bruciavano vivi, restando a osservare il rogo a debita distanza.

Ispettori e giornalisti sanno bene che la Zhili non è la sola fabbrica straniera che a Shenzhen economizza sulla pelle degli operai. La pratica è tristemente diffusa nella regione. Pochi mesi prima di questo incendio, un gruppo d'ispettori aveva denunciato ben 85 impianti industriali, inclusi quelli della Zhili, e 14 società ubicate nello stesso distretto. Nel rapporto si legge che sono tutti a rischio d'incendio perché non rispettano i sistemi di sicurezza richiesti dalla normativa che regola il lavoro cinese.

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Per funzionare, la delocalizzazione deve azzerare tutte le conquiste dei lavoratori occidentali dai tempi della Rivoluzione industriale e riprodurre le condizioni di sfruttamento di due secoli prima. Solo così si possono consumare le nozze, autenticamente d'oro, tra capitale straniero e comunismo cinese, con le griffe occidentali come damigelle d'onore.

Un anno dopo la tragedia della Zhili, sei dirigenti e membri del governo locale sono condannati per l'incendio dell'impianto. Il proprietario di Hong Kong finisce in carcere per due anni, ma esce dopo pochi mesi e se ne torna nel suo Paese mentre è ancora in libertà vigilata. Alle famiglie delle vittime e ai feriti la Zhili deve pagare 5000 dollari ciascuno: ecco il prezzo di una vita nella Cina che si affaccia al capitalismo. Ma i soldi non arrivano. Alcuni sopravvissuti si rivolgono a un'organizzazione non governativa di Hong Kong specializzata in cause del lavoro, che avvia una campagna diretta a coinvolgere anche le multinazionali per le quali la Zhili produceva giocattoli, tra cui l'italiana Artsana Spa/Chicco.

Nel suo libro, China's Workers under Assault, Anita Chan racconta che nel 1997 la Chicco accetta di pagare 180.000 dollari per compensare le vittime, circa 1000 dollari a testa, una miseria anche secondo gli standard cinesi. Nel 1999 si scopre che questi soldi non sono mai arrivati a destinazione; a quanto pare dovevano essere inviati alla Caritas di Hong Kong che li avrebbe distribuiti alle vittime, ma sono misteriosamente finiti nei forzieri di altre organizzazioni filantropiche cinesi.

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La corsa dei salari verso il basso



Nel Ventesimo secolo la Cina è invasa dai replicanti di una società descritta da Marx cento anni prima: gli industriali stranieri. Ciò spiega perché quando nel 1994 Pechino approva un decreto che obbliga le aziende a stipulare contratti individuali e collettivi, pochissimi stranieri lo rispettano. È pur vero che, intenzionate ad attirare quanti più capitali stranieri possibile, le autorità cinesi locali fanno ben poco contro chi infrange quotidianamente tali leggi.

Pochi mesi prima della tragedia della Zhili un'impresa d'abbigliamento a Guangzhou, sempre di proprietà di una società di Hong Kong, prende fuoco e 72 persone perdono la vita. Mentre sono in corso le indagini sull'incendio della Zhili, 60 operai bruciano nella sede di un'azienda di Taiwan a Fuzhou. E le autorità? Non battono ciglio. Un misto di corruzione, ignoranza e laissez faire fa sì che gli industriali stranieri siano al di sopra della legge. Così, durante tutti gli anni Novanta, gli incendi sul lavoro diventano tristemente frequenti.

Nel frattempo la corruzione degli ufficiali pubblici dilaga. Pochi mesi prima che prendesse fuoco la Zhili il sindaco di Kuichong aveva difeso i proprietari dalle critiche degli ispettori di Shenzhen. In una lettera a questi ultimi, dove ricordava l'importanza del capitale di Hong Kong per lo sviluppo della zona, assicurava che alla prossima ispezione il sistema di sicurezza sarebbe migliorato. Promesse da marinaio, naturalmente. Il giorno stesso in cui la lettera viene spedita, la dirigenza della Zhili accetta di aumentare il sussidio giornaliero agli ispettori, tutti impiegati comunali. In un articolo che denuncia la triste vicenda della Zhili, un giornalista cinese così descrive quest'accordo: «Una transazione d'affari a scapito dei lavoratori e condotta in nome dello sviluppo economico del Paese».

Il giornalista non usa la parola «corruzione», anche se ai nostri occhi di questo si tratta. Non è solo prudenza, la terminologia a cui ricorre riassume alla perfezione il rapporto di reciproca convenienza che agli albori dell'apertura economica cinese lega il sistema comunista al capitale straniero. Lo sfruttamento, a volte barbaro, della manodopera è il prezzo che la società cinese accetta di pagare per crescere economicamente e che i politici incoraggiano per salvare il socialismo.

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Insomma, lo sfruttamento della forza lavoro orientale da parte degli occidentali è una costante in qualunque parte del pianeta. Eppure, l'opinione pubblica mondiale è convinta dell'esatto contrario, che gli sfruttatori abbiano la pelle gialla. Nell'immaginario collettivo occidentale la Cina è un Paese comunista il cui popolo è schiavo di un regime dittatoriale crudele, che sfrutta la sua gente. Pochi, per esempio, distinguono tra il sistema cinese e quello nord-coreano, il comunismo continua ad avere una sola faccia e non è piacevole guardarla.

Negli anni della Guerra fredda a promuovere questa mitologia, poiché di questo si tratta, è quella parte della stampa e della politica occidentale che ha interesse a mantenere in vita la dicotomia tra bene e male, un'immagine che celebra la democrazia occidentale e infanga tutto il resto. Così gli sfruttatori sono gli industriali comunisti cinesi, e non i nostri connazionali.

Ora che la Guerra fredda è finita da vent'anni, questa visione semplicistica, nella generale ignoranza riguardo a quella remota parte del mondo, gode ancora di ampio seguito,

«Nell'Occidente da una parte c'è gente che ancora vede i cinesi come un popolo che indossa una divisa e sventola libretti rossi e dall'altra come un Paese di super ricchi sfruttatori» riassume in un'intervista Arthur Kroeber, direttore generale di Dragonomics, un centro di ricerca di Pechino.

La generazione di politici che sale al potere in Occidente dopo la caduta del Muro di Berlino non fa nulla per smantellare questa visione della Cina, e anzi, contribuisce alla creazione di nuovi miti che la avallano. Appena nominato dall'amministrazione Obama, il segretario al Tesoro americano Timothy Geithner denuncia la Cina perché non rivaluta la moneta nazionale, una politica che, secondo lui, mira a mantenere alta la competitività del Made in China. E questa propaganda svia l'attenzione dell'opinione pubblica dalla crisi del credito e dalla recessione creata da Wall Street, i cui attori pricipali adesso sono i consiglieri del nuovo presidente americana. Domandiamoci chi in questi anni ha guadagnato maggiormente se i prodotti cinesi hanno dominato il mercato internazionale. Le imprese straniere che li hanno prodotti in Cina, non certo i cinesi che lavorano alla catena di montaggio.


Una verità molto scomoda

Per noi occidentali la verità è durissima da digerire. Per modernizzare la Cina, Deng ha gettato le fondamenta di un sistema di sfruttamento della manodopera, è vero, ma chi ha ricreato nel Paese le condizioni inumane della Rivoluzione industriale sono stati i nostri democratici imprenditori. La conferma la troviamo dietro l'angolo di casa nostra, nelle fabbriche europee, per esempio nell'alta moda, dove a detta dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro i clandestini cinesi sgobbano notte e giorno per salari da fame.

La verità è anche pericolosa, perché ci farebbe riflettere sul ruolo che le grandi imprese occidentali giocano nel villaggio globale, e su quello riservato a noi consumatori. Il boicottaggio dei prodotti di chi si rende responsabile di tali sofferenze non è uno scenario così improbabile. Ma abbiamo il coraggio di farlo? L' establishment pensa di sì, ecco perché nessun giornale è disposto a denunciare nei propri articoli imprese che tra l'altro pagano lautamente annunci pubblicitari sulle sue pagine.

La verità è anche molto complessa. Lo sfruttamento della manodopera cinese è crudele, ma porta benessere in Cina. È vero che negli anni Ottanta e Novanta sono gli industriali stranieri a godere dei vantaggi maggiori della delocalizzazione, ma è pur vero che negli ultimi trent'anni le condizioni di vita del popolo cinese sono migliorate grazie a questa.

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Dickens non era il solo a non vedere nella Rivoluzione industriale alcun aspetto positivo per chi ne era sfruttato. Celeberrima la frase dell'economista Thomas Malthus: «L'aumento della ricchezza delle nazioni ha contribuito poco o nulla a migliorare le condizioni di vita dei poveri». Dal lato opposto della barricata ideologica troviamo Adam Smith, che, come già ricordato, vede nell'egoismo del nascente capitalismo il potere divino dell'economia attraverso la «mano magica» del mercato. E a debita distanza dalle due posizioni? Lì c'è appunto Marx.

Karl Marx condanna i modi di produzione ma non ne rifiuta in toto il processo. È consapevole che l'industrializzazione, di cui vede bene tutte le miserie, fa parte del progresso ed è una fase necessaria del materialismo storico. Ritiene che lo sfruttamento della manodopera sia una tappa indispensabile per giungere alla dittatura del proletariato. È un ragionamento del tutto simile a quello che ha portato Deng Xiaoping a lanciare la politica della «porta aperta». Deng ha modernizzato Marx per applicarlo alla Cina della fine del Ventesimo secolo.

Fuori della mitologia passata e presente, la Rivoluzione industriale è allo stesso tempo il trionfo e la vergogna della borghesia occidentale. Per la prima volta nella storia il controllo dell'economia non ha nulla a che vedere con il diritto di nascita. E questa è una grande conquista. Allo stesso modo il capitalismo cinese è il trionfo e la vergogna del marxismo. La sua più importante conquista è aver reso la ricchezza accessibile a tutti, senza distruggere il socialismo.

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Alla fine degli anni Ottanta le riforme di Deng Xiaoping stanno funzionando, prova che un po' di capitalismo non fa male. Ma l'economia è cresciuta troppo rapidamente e il Paese ne risente. La modesta liberalizzazione dei prezzi ha portato all'inflazione e a squilibri come quello del prezzo della birra che fanno arricchire qualche furbetto imprenditore a scapito dei consumatori, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Si tratta di problemi di crescita che tutti i Paesi in via di sviluppo prima o poi devono affrontare ma nel contesto del crollo del comunismo sovietico assumono un'altra gravità. Il pericolo è che la situazione sfugga di mano a chi guida la transizione verso un'economia aperta, e cioè al Partito, e che in Cina come in Unione Sovietica il sistema crolli in un battibaleno. Proviamo a immaginare per un attimo le conseguenze di questo scenario.

Aprire la Cina nell'89, come è avvenuto in Urss, avrebbe portato fame e caos nel Paese. La prima a crollare sarebbe stata l'agricoltura, seguita a ruota dall'industria, e 900 milioni di persone si sarebbero trovate da un giorno all'altro allo sbando. È proprio ciò che è successo all'Islanda alla fine del 2008, dopo la bancarotta, ma fortunatamente si trattava «solo» di 320.000 abitanti.

Riusciamo a immaginare 900 milioni di profughi affamati che vogliono a tutti i costi raggiungere il ricco Occidente? Poco meno del doppio della somma della popolazione americana ed europea. Questo sarebbe stato il prezzo dell'introduzione della democrazia nella terra che ci ha dato la seta, la polvere da sparo e gli spaghetti. Dopo l'89 l'offerta di lavoro in Occidente invece che raddoppiare si sarebbe quintuplicata, il costo del lavoro sarebbe crollato e i sindacati occidentali non ce l'avrebbero fatta a garantire ai lavoratori i minimi salariali. E la sproporzione tra capitale e forza lavoro sarebbe stata tale da spazzare via secoli di lotte operaie. Con molta probabilità, una Cina democratica nel 1989, con la popolazione libera di spostarsi in Occidente, avrebbe decimato la nostra classe media.

Guardando la decisione di reprimere i moti di Tiananmen attraverso questa lente, è soltanto onesto fare un'ammissione dolorosissima: forse quel sacrificio ci ha salvato tutti dalla catastrofe e chi ha preso quella terribile decisione l'ha fatto nell'interesse della nazione. Della Cina che si è modernizzata seguendo la sua strada e non quella tracciata dall'Occidente, della Cina che oggi si prepara a essere una super potenza alla stregua degli Stati Uniti. Lavare con l'acqua dell'utilità e del «bene comune» il sangue di Tiananmen non è possibile, ma bisogna concedere che con molta probabilità si è trattato di uno di quei mali della storia che evitano tragedie più grandi. Noi che abbiamo più che giustamente condannato quella decisione siamo ancora in piedi anche grazie a essa.

È pero importante precisare che sia la repressione di Tiananmen, sia la terapia d'urto neoliberista applicata all'ex blocco sovietico, sono frutto di una gestione sbagliata dei grandi cambiamenti della storia. Il sangue di Tiananmen rappresenta una grossa battuta d'arresto nel processo d'apertura degli anni Ottanta e pone fine a riforme importanti anche nel campo sindacale. Se i disordini dell'89 fossero stati affrontati in modo differente, oggi con molta probabilità ci troveremmo di fronte una Cina diversa e allo stesso tempo simile a quella attuale. Forse alcuni traguardi economici avrebbero potuto essere raggiunti prima, forse il prezzo ambientale e sociale delle riforme non sarebbe stato così elevato, e forse saremmo in presenza di una società civile e di una stampa più libera di quanto lo sia oggi.

Fortunatamente Tiananmen non ha bloccato per sempre il meccanismo di apertura. Quel sangue è servito a convincere Deng Xiaoping che continuare lungo il cammino delle riforme economiche a un passo sostenuto era l'unica via per salvare il Paese dal destino sovietico. E per quasi tre anni Deng si batte all'interno del Partito proprio in difesa di ciò che chiedevano i giovani di Tiananmen, contro l'ala maoista del Pcc che spinge per tornare a un'economia pianificata. Alla fine la spunta e il suo viaggio nel sud della Cina, dove lancia il motto «Arricchitevi», simboleggia questa vittoria. Un trionfo della modernizzazione che poteva sembrare impossibile in una civiltà-nazione vecchia di 5000 anni.

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È evidente che c'è un'altra verità dietro la «crisi». Il summit che dovrebbe salvare la Lehman in realtà si riunisce per ridisegnare l'assetto finanziario dell'Occidente e a farlo non sono le potenze mondiali, ma la punta di diamante della finanza globalizzata: le grandi banche americane. Il G8 e il G20 sono solo uno specchietto per le allodole, posizionato lì per abbagliare noi e la stampa internazionale e farci credere che siano i nostri politici a reggere le fila del mondo. Ma i potenti veri sono ben altri.

Le purghe dell'Olimpo del denaro, dunque, ristrutturano i mercati finanziari e lo fanno grazie ai poteri straordinari che il Congresso e la Casa Bianca concedono al Tesoro e alla Federal Reserve. A gestirli è un ristretto gruppo di persone con uffici da favola a Wall Street, gente che sa come sussurrare le parole giuste nell'orecchio dei presidenti. In pochi mesi questa élite trasforma l'alta finanza occidentale in una piccola e potentissima oligarchia, che oggi opera su piazze affari sempre meno competitive. E a dettare le nuove regole del gioco non sono più le istituzioni dello Stato, ma una manciata di banche, per le quali però l'accesso al credito a tassi privilegiati, e cioè vicinissimi allo zero, diventa una fonte aggiuntiva di guadagni piuttosto che un incentivo a concedere crediti alla popolazione vessata dalla recessione, come invece vorrebbe lo Stato.

Per capire l'enormità di questo dettaglio apparentemente tecnico, bastano un paio di numeri. Dal settembre del 2008 fino ad agosto dell'anno dopo è aumentato lo spread (la differenza tra il tasso interbancario, e cioè il costo dell'approvvigionamento delle banche, e il tasso d'interesse, che queste impongono ai clienti). Per l'impresa è dunque più caro accedere al credito in un momento in cui ha particolare bisogno di liquidità: proprio quello che tutti i governi hanno cercato disperatamente di evitare. Prima del crollo della Lehman lo spread era intorno allo 0,8 per cento, un anno dopo oscillava tra il 2,8 per cento e il 3,5 per cento, a seconda dell'attività da finanziare e della clientela.

Lo spread è l'anima del moltiplicatore bancario, quel meccanismo che fa sì che raccogliendo il risparmio e ridistribuendolo, le banche creino denaro e quindi profitti. Questi utili vanno a ricapitalizzare le banche e a gonfiare la speculazione in Borsa. Dunque in questa crisi non solo noi, i contribuenti, abbiamo salvato le banche ritrovandoci più poveri, ma queste si stanno arricchendo a nostre spese.

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La fiducia cieca nel mercato nasce dalla sua presunta razionalità. Nel 2005, durante un discorso commemorativo in onore di Adam Smith, Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve americana e uno dei maggiori teorici della deregulation, afferma:

La stragrande maggioranza delle decisioni economiche oggi riflette quelle prime ipotesi secondo le quali gli individui agiscono più o meno razionalmente nel proprio interesse. Senza questo postulato le curve della domanda e dell'offerta dell'economia classica potrebbero non intersecarsi, impedendo al mercato di determinare i prezzi. Per fare un esempio si può a malapena immaginare che l'alto numero di transazioni internazionali odierne produrrebbero la relativa stabilità economica che sperimentiamo quotidianamente se non fossero guidate da qualche versione internazionale della mano invisibile di Smith.

In realtà la stabilità economica di cui parla Greenspan è solo quella dei giganti della finanza occidentale, i pesci piccoli sono regolarmente travolti dalle crisi finanziarie, ne sanno qualcosa le banche asiatiche, quelle argentine e islandesi. La «magia del mercato» ha molto a che fare con la politica monetaria deflazionista perseguita dalla Federal Reserve americana e poco o nulla con la mano invisibile del mercato descritta da Adam Smith.

Abbiamo visto come vengono affrontate le crisi: tagliando i tassi per evitare che le banche e le finanziarie che le hanno prodotte ne siano travolte. Questo non è uno Stato passivo «che lascia fare» al mercato, ma un'istituzione attiva al servizio del capitale occidentale. La politica monetaria perseguita dopo il crollo del Muro di Berlino è dunque interventista al puntò da condizionare il funzionamento dei principali segmenti del mercato, quelli controllati dall'alta finanza europea e statunitense. È una ricetta pericolosissima, applicata per far trionfare a tutti i costi una versione irreparabilmente contaminata del modello neoliberista. I tagli dei tassi sostengono le banche anche quando assumono rischi eccessivi, vanno contro la logica del mercato, e ne fanno le spese i Paesi in cui l'alta finanza crea le bolle: la Russia, l'Asia, l'Argentina, che va in bancarotta nel 2001, e l'Islanda, vittima dello stesso destino nel 2008.

Ci troviamo in un territorio sconosciuto della teoria economica poiché questa pratica non solo non è prevista da nessuna dottrina economica, ma è anche profondamente discriminante. Non è questo il comportamento descritto dal modello neoliberista, che al contrario punisce con durezza chi si accolla rischi eccessivi. È sbagliato quindi sostenere che negli ultimi vent'anni le economie occidentali e quelle a esse agganciate abbiano seguito gli insegnamenti di Smith; le cose stanno esattamente al contrario. Appiattire il mondo, abbattere tutti i muri ha facilitato l'esportazione di un modello economico neoliberista solo di nome, in realtà è elitario e predatore.

L'interscambio tra politica e finanza facilita dunque la tendenza della seconda a strutturarsi come un'oligarchia. Ma è una metamorfosi resa possibile solo dall'erosione dei poteri dello Stato nel Ventunesimo secolo, un fenomeno che si è già verificato in passato e che ci ha portato alla crisi del '29. Con l'avvento della globalizzazione è semplicemente tornato alla ribalta.

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L'ottimismo di Confucio nasce anche dall'assenza di uno dei capisaldi del pensiero occidentale: l'egoismo individuale. Fuori della comunità l'individuo non ha nessun motivo di esistere. Così l'imperativo filosofico occidentale «conosci te stesso», diventa «conosci gli uomini». Il senso di unità sociale, come nel caso dell' Umma, è fortissimo e l'uomo ha il dovere di agire per trasformare e migliorare il contesto in cui vive, con l'aiuto dei suoi simili. Qui non c'è spazio per il perseguimento della realizzazione del sé, neppure in funzione della salvezza eterna: il pensiero di Confucio non è metafisico né trascendentale, ma pragmatico. Il «paradiso» è la convivenza, qualcosa da costruire in questo mondo, non nell'altro.

Molti ignorano che il pensiero confuciano ha poi una regola aurea, che è quella di «non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te». Una massima che tanto ricorda gli insegnamenti di Cristo. E quest'esortazione, che costituisce il nucleo della filosofia sociale del confucianesimo, precede di ben cinque secoli la nascita di Gesù.


Da Confucio a Machiavelli

Confucio vive durante un periodo di grande instabilità politica. La sua filosofia offre a un popolo dilaniato da guerre fratricide e stanco della violenza un codice etico che va ben oltre la mera sopravvivenza. L'opera più famosa in cui esprime questo pensiero sono i Dialoghi, scritti dai suoi discepoli, dove la saggezza di Confucio viene messa al servizio dell'imperatore. Si tratta di un manuale politico che diventa un'alternativa irresistibile alle lotte che infuriano nel Paese e che propone l'armonia della vita in comune. E dato che verte su temi universali, quali il buon governo, 2500 anni dopo è ancora attualissimo.

Anche Niccolò Machiavelli viveva in un periodo tumultuoso analogo e anche la sua opera più famosa, Il Principe, ci parla ancora oggi. Machiavelli la scrive per Lorenzo de' Medici con l'intento di riconquistare la posizione di consigliere che aveva perduto. Come i Dialoghi, Il Principe è un manuale per chi tiene in mano le redini del potere. Ma Lorenzo de' Medici non apprezza l'opera e Machiavelli non torna più a corte. Tuttavia generazioni di politici saranno affascinati dalla sua teoria.

Confucio e Machiavelli vivono entrambi in regimi aristocratici caratterizzati dal disordine, dove le relazioni sono gestite sulla base della convenienza personale. Eppure arrivano a conclusioni diametralmente opposte. Il primo deplora il caos politico e la mancanza di moralità nella gestione dello Stato, il secondo incoraggia l'uso della menzogna per scopi politici. Possibile che questa discrepanza affondi le sue radici in una concezione diversa del mondo? Un divario culturale che ancora oggi separa l'Occidente dall'Oriente? Il fine giustifica i mezzi, è il mantra degli uni, mentre la parola chiave del pensiero degli altri è l'armonia. E questi principi diventano gli emblemi di due scuole di pensiero che perdurano fino ai nostri giorni, Machiavelli a Ovest e Confucio a Est.

«Confucio ci dice che l'armonia è un bene da venerare» afferma nel febbraio del 2005 il presidente cinese Hu Jintao. Allo stesso tempo la fabbricazione di prove contro Saddam Hussein per giustificare l'attacco preventivo in Iraq rientra nella massima di Machiavelli: «Il fine giustifica i mezzi».

È però sbagliato giudicare Machiavelli come il teorico della corruzione o vedere nel Principe l'espressione di una civiltà barbara, in cui la forza e l'astuzia trionfano sull'etica quali componenti primari dello Stato. Allo stesso modo è fuori luogo considerare Confucio il teorico della pace solo perché sostiene che i governanti devono essere d'esempio alla popolazione e opporsi all'uso della forza per promuovere i costumi morali.

Sia Machiavelli sia Confucio hanno a cuore il bene della comunità – rispettivamente la città-Stato di Firenze e la Cina – un fine talmente importante da far passare in secondo piano, agli occhi di Machiavelli, morale e valori etici, e da giustificare, per Confucio, anche l'intervento armato. Le loro principali divergenze sono insite nelle società stesse, di cui i due intellettuali offrono un commento: l'uno vive in una nazione egualitaria, e celebra infatti la meritocrazia; l'altro opera all'interno degli schemi oligarchici del suo tempo e quindi incoraggia le relazioni «speciali».

Confucio può liberamente ammettere che quando un regnante diventa tiranno perda la regalità e torni a essere un uomo comune e in quanto tale possa essere giustiziato. È questa in fondo la mentalità del popolo cinese. Machiavelli non può accettare il tirannicidio, glielo impedisce il diritto divino. In termini moderni si potrebbe dire che il primo è un compagno e il secondo è un suddito.

Questa potrebbe essere una chiave di lettura per spiegare il successo che il comunismo ha avuto in Cina e l'idea che per i cinesi la Rivoluzione è un fenomeno democratico, che rimuove un governo tiranno. E guarda caso i principi del comunismo che i cinesi hanno facilmente assimilato sono proprio quelli che il marxismo condivide con Confucio: la meritocrazia, il benessere della popolazione e l'avversione verso le élite. Dove il maoismo ha fallito è nell'imposizione di comportamenti che vanno contro questa filosofia, come la Rivoluzione culturale. Il tentativo di sostituire i valori della famiglia con quelli del Partito non ha avuto successo, anzi ha creato una forte opposizione. Ancora oggi il rispetto per i genitori, predicato da Confucio, è profondamente radicato nella famiglia cinese.

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Perché la nostra democrazia ha fallito? Perché sembra così sorda ai bisogni della collettività? Per un equivoco che viene da lontano: la voce della società civile viene confusa, o nel peggiore dei casi ridotta, alla mera voce del mercato. E questa confusione perdura anche se la crisi del credito e la recessione ci hanno fatto capire che aver abbandonato completamente l'economia alle forze di mercato, pensando che queste fossero uno dei canali principali attraverso i quali la società civile si manifesta, è stata una pazzia.

Questa strategia ha lasciato il cittadino nudo di fronte agli abusi del potere. Basta gettare l'occhio sul debito pubblico dei Paesi occidentali, ingigantitosi per salvare le grandi banche d'affari, o rileggere le voci della nostra busta paga dove il salario sociale è pressoché scomparso, o fare due chiacchiere con i nostri figli, condannati al precariato a vita. Questi segni indicano sicuramente che sono le élite, non certo la società civile, a controllare il mercato, le stesse che ormai gestiscono partiti e sindacati. Gruppi di potere che non hanno nessun interesse ad attuare il rinnovamento richiesto dalla base della piramide politica, e anzi spesso ci lavorano contro.

Facciamo un esempio italiano. Uno sguardo alla penisola mette in mostra alleanze politiche a macchia di leopardo dove gli stessi partiti in una zona sono uniti e nell'altra si contendono le poltrone. Come interpretare questa strategia? Con il classico do ut des romano? Forse. Ma soprattutto come un sintomo che la partita politica si gioca fuori dalle urne, tra le élite al potere e spesso indipendentemente dal marchio politico che le contraddistingue. È questa la democrazia che vogliamo?

Dall'altra parte del mondo, il successo economico della Cina, un Paese comunista, ci ricorda che lo Stato esiste prima di tutto per promuovere il benessere dei cittadini, non quello delle élite, e che la sua presenza è necessaria in economia come in politica estera. È dovere dello Stato salvaguardare la sicurezza economica esattamente come quella nazionale. Affidereste la difesa del Paese alla «mano invisibile»? Vi fidereste di mercenari per difendere i confini nazionali? Allora perché abbiamo messo nelle loro mani il nostro benessere? Il picconatore Deng ha spianato la strada per una serie di riforme graduali, sotto lo sguardo attento di un governo vigile. E finora l'esperimento è riuscito. I cinesi sono più liberi e benestanti che vent'anni fa. E noi?

Anche se non siamo d'accordo con questo tipo di governo, anche se condanniamo la repressione sociale avvenuta in Cina in nome del progresso, non possiamo non accorgerci che anche la nostra democrazia lascia al potere politico ed economico margini — sempre più ampi — di arbitrio. E dovremmo augurarci che anche il nostro Stato si prenda cura di noi piuttosto che lasciarci una «libertà» che si traduce in schiavitù del mercato. È questo ciò che può insegnarci la Cina. Da qualche parte la formula giusta per la nuova modernità esiste. Dai tempi di Deng i cinesi si danno da fare per trovarla sperimentando politiche alternative, noi neppure la cerchiamo più: i successori della Thatcher e di Reagan hanno continuato a picconare lo Stato-nazione con l'obiettivo demenziale di rimpiazzarlo con il mercato. Il triste destino dell'Islanda ci ricorda i pericoli nascosti in questo modello.

Ma per comprendere come l'esperienza cinese possa aiutarci a capire dove abbiamo sbagliato e visualizzare ciò che ci aspetta se perseveriamo lungo la scarpata della negligenza politica, dobbiamo avventurarci nell'ultimo viaggio a ritroso nella storia contemporanea: l'ascesa di Magaret Thatcher e Ronald Reagan. Soprattutto per riflettere sulla necessità impellente di strategie nuove per riprenderci ciò che è nostro: la politica.

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Angola Mode

La storia dell'Angola e di tanti altri Paesi africani è emblematica dell'abilità della Cina di tessere nuovi rapporti commerciali con il Sud del mondo fuori degli schemi del colonialismo. È difficile per gli occidentali comprendere la natura di questo rapporto perché, ingabbiati nei nostri preconcetti, concepiamo solo relazioni di forza. L'Occidente si ostina a vedere la presenza cinese in quel continente come l'ultimo capitolo della storia di una dominazione commerciale. Il che spiega perché nel nostro immaginario collettivo l'Africa sia allo stesso tempo il teatro delle lotte per il controllo delle risorse mondiali e il territorio dove poter espiare le nostre colpe colonialiste passate.

L'immagine dei divi di Hollywood e dei cantanti pop che si autoeleggono paladini dei poveri africani è modellata su questa dicotomia spicciola: la Cina depreda le risorse e noi ricchi e famosi occidentali salviamo la popolazione dalla fame con i nostri aiuti, per farci perdonare i massacri delle popolazioni locali, la tratta degli schiavi, la rapina delle risorse. Il mantra hollywoodiano «oggi sono loro i cattivi e noi siamo î buoni» tappezza i rotocalchi. Ma dietro la nostra «bontà» c'è una macchina commerciale nascosta che ancora oggi ripropone schemi fin troppo noti. Così un diplomatico occidentale riassume il complesso rapporto di sudditanza ancora esistente:

Quando parlo con i miei amici dell'Angola gli dico sempre: la passeggiatina che state facendo con i cinesi è vantaggiosa per voi ma se volete essere seri, se volete entrare nella serie A, dovete tornare da noi.

Ma più che una passeggiata le relazioni tra Cina e Angola rappresentano un piano di modernizzazione su larga scala. Nel 2006 il tasso di crescita del Pil reale del Paese raggiunge il 18,6 per cento. Il Fondo monetario, che ormai ha a disposizione una serie di statistiche positive, pubblica le proiezioni per il 2007 e il 2008 e parla di tassi di crescita superiori al 20 per cento. E in effetti è quello che succede. Il Prodotto interno lordo cresce da 42 miliardi di dollari nel 2002 a 113 nel 2009, praticamente triplica. Sul fronte dell'inflazione, dal 300 per cento dell'inizio del secolo si scende al 12 per cento nel 2006 e sotto il 10 per cento l'anno dopo. Persino la bilancia dei pagamenti è invidiabile, le entrate del petrolio hanno prodotto un avanzo del gettito fiscale e della bilancia commerciale.

Nel 2008 la Banca mondiale si vede costretta a prendere atto del miracolo dell'Angola ed elogia il modello di sviluppo applicato in questo Paese, il cosiddetto Angola Mode. A disegnarlo è stata naturalmente la Cina che dal 2002 alla fine del 2009 ha stanziato e facilitato prestiti per circa 19 miliardi di dollari. Ma non è l'interscambio che distingue l' Angola Mode dagli altri modelli di modernizzazione applicati in Africa. Come abbiamo visto con la Libia, tutti i rapporti commerciali tra le nazioni africane e i Paesi occidentali, e specialmente quelli che hanno come oggetto il petrolio, sono bilaterali e di scambio. Piuttosto, l'aspetto rivoluzionario è la relazione di reciproco vantaggio menzionata da Serge Michel, e che Ian Taylor spiega così:

Pechino si rende conto che gli africani non vogliono essere trattati con carità e benevolenza, ma vogliono trovare partner commerciali con cui instaurare rapporti economici che siano vantaggiosi per la propria economia e il proprio sviluppo. Da qui nasce l'idea di creare un modello di relazioni economiche e commerciali basato su di una winwin situation: una situazione di reciproco vantaggio.

La formula cinese è anche un misto di diplomazia e mercato. Pechino instaura relazioni diplomatiche ad alto livello offrendo ai governi africani quel rispetto che gli occidentali riservano solo a chi è come loro. Spiana insomma la strada per le sue società. Nel caso dell'Angola il capo di Stato visita la Cina regolarmente e lo stesso vale per il primo ministro cinese. Anche la diplomazia occidentale si comporta così. Ma Pechino può fare un passo in più rispetto alle strette di mano e ai pranzi ufficiali: mette a disposizione delle proprie società le banche, che in Cina sono ancora tutte statali.

Nel 2004 in Angola la Cina stanzia la prima linea di credito di due miliardi, soldi che vengono distribuiti da istituti di credito cinesi. I finanziamenti vanno naturalmente alle imprese cinesi che hanno vinto gli appalti, e non potrebbe essere altrimenti dal momento che dopo 27 anni di guerra civile non esiste nel Paese il know-how per la ricostruzione. Ma queste assumono anche manodopera locale e i contratti bilaterali finanziano grandi opere pubbliche come la ricostruzione dei 371 chilometri di autostrada tra Luanda e Uíge, un'arteria logistica essenziale per il commercio. La popolazione applaude il governo nazionale per aver garantito una ricostruzione celere e di grande successo.

A quei paesi dove la cooperazione funziona Pechino non lesina neppure gli aiuti finanziari tradizionali. E l'Angola, dove la modernizzazione ha bisogno di infrastrutture socio-economiche, ne diventa il maggior beneficiario. Con questi soldi si costruiscono scuole, centri sociali, strade, case popolari e porti. Il pacchetto di sviluppo è completo e il modello è, com'è ovvio, quello economico cinese.

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