Autore Irène Némirovsky
Titolo Tutti i racconti (1921-1934)
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2013, Asce 35 , pag. 350, cop.fle., dim. 13,5x19,5x2,5 cm , Isbn 978-88-359-9285-1
PrefazioneRoberto Deidier
TraduttoreMassimo De Pascale, Maurizio Mei
LettoreSara Allodi, 2014
Classe narrativa ucraina , narrativa russa












 

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Indice


     Prefazione di Roberto Deidier         7

     Nonoche dalla chiaroveggente         25

     Nonoche al Louvre                    33

     Nonoche in vacanza                   39

     Nonoche al cinema                    47

     La Njanja                            57

     Un pranzo in settembre               69

     Natività                             91

     Domenica                            113

     Eco                                 135

     Rive felici                         141

     I fumi del vino                     169

     Film parlato                        205

     Ida                                 261

     La commedia borghese                303
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Pagina 135

Eco



«Ero un bambino» disse lo scrittore «e come tutti i bambini, l'essere più infelice e più indifeso al mondo. Immaginate (dovrei dire: «Ricordate?», ma chi non è irriconoscente nei riguardi della propria infanzia?), immaginate a quale intensità di cieca sofferenza possa giungere un bambino innocente gravato fin dalla più tenera età dal fardello della conoscenza, poiché io credo che certe creature nascano vecchie, lucide e tristi... Voi avrete dimenticato, ma io, io mi ricordo, è il mio mestiere» disse con quel sorriso che le donne adoravano.

Lasciò che gli fluttuasse per un po' sulle labbra e voltò la testa in maniera tale da mostrarlo al quintetto di donne sedutegli intorno e riuscire anche lui ad ammirarlo, riflesso nel vetro scuro. (Se amava a tal punto quel sorriso leggermente contratto, infelice e malizioso, che implorava pietà e si scherniva, è perché gli rammentava, più di ogni altra cosa al mondo, più di un ritratto stesso, il bambino che era stato...).

Una donna sospirò, e le testoline di volpe accoccolate sui suoi seni si sollevarono lentamente. Un'altra scosse leggermente la cenere della sigaretta, su cui le labbra avevano lasciato una traccia di rossetto, e cercò il tavolino accosto per posarvi la tazza di caffè vuota. La moglie dello scrittore gliela tolse di mano, facendo involontariamente un cenno per raccomandare il silenzio, come quando in sala preludiano i violini. Aveva assunto naturalmente l'aspetto remissivo e un po' spento che è proprio delle donne maritate a uomini celebri; si truccava poco, tirava indietro i capelli ingrigiti, sapeva stare in silenzio e camminare per casa senza far rumore.

«È ammirevole» pensò l'amante dello scrittore, guardandoli entrambi teneramente.

Il salone era illuminato dalla luce del fuoco e da una lampada blu. Di nascosto una delle donne si toccò inquieta con la punta delle dita infilate nei guanti le guance su cui il calore del focolare faceva avvampare il sangue.

«Questa poi, proprio no, ho il viso rosso, ma che caldo che fa» pensò.

Perciò decise di prendere la borsetta di moire, lì a portata di mano, che conteneva il piumino e la cipria, ma lo scrittore sorprese quel movimento e la guardò, suo malgrado, severamente. Questa incrociò le mani sulle ginocchia e restò immobile. Lui amava le donne remissive e silenziose. Era davvero bello, pensò lei contemplando quel viso così pallido, devastato, della bianchezza opalina di coloro che, da mane a sera, sono chini su una pagina bianca di cui il loro volto pare conservarne il riflesso. Per la prima volta era stata ammessa fra le altre, lei, un'indegna. Le tornò in mente una confidenza: «È un amante impareggiabile...».

«Non l'ho mai raccontato a nessuno» diceva lui. «Del resto è un'inezia».

Un fruscio leggero, come il soffio del vento fra le foglie, passò sulle labbra delle donne, le quali si chinarono tutte simultaneamente, inclinate dalle parole di lui.

Questi, con un'espressione turbata e raccolta al contempo, maneggiava con la sua lunga e bianca mano un coltellino d'avorio e lo abbandonava, come se ritmasse un canto interiore. Parlava sottovoce, gli occhi socchiusi:

«Non ero bello. Ero un bambino gracile, con due grandi orecchie trasparenti, nato e cresciuto in città».

Tacque, non tanto perché cercasse le parole, quanto perché gli venivano in tal copia e ciascuna gli era così preziosa che era obbligato suo malgrado a fermarsi e a farne uno spoglio, mentalmente, come quando si spartiscono delle pietre preziose. (Quelle che avrebbe conservato per il romanzo, quelle che avrebbe dispensato loro adesso, le più grezze, «gli zirconi», come le chiamava lui, altre per le sue amanti, altre ancora, le più preziose, che riservava a se stesso, ai sogni reconditi che inseguiva di notte in notte...).

«Ero entrato in camera di mia madre, in campagna...».

Parlando, rivedeva con straordinaria intensità la camera buia dalle pesanti persiane blu su cui era stata ritagliata un'apertura a forma di cuore, raggiante di sole. L'aveva descritta così spesso, sua madre, nei libri, che non riusciva più a ritrovarla dietro le immagini deformate. Ma si ricordava della sua vestaglia di percalle, dei mobili, di un piccolo specchio appeso al muro, delle assi gialle del vecchio parquet, dell'odore fruttato di una tappezzeria persiana, del rosicchiare dei topi nella boiserie; si ricordava soprattutto di sé, in calzoncini di tela e grembiule rosa. Il suo cuore era colmo d'amore e di pietà per se stesso.

«Era estate, una delle prime estati che trascorrevo sulla terra e per la prima volta vedevo realmente il cielo e il giardino. Fino a quell'istante avevo vissuto rasentando il suolo, preso dai pasticci di sabbia, dalle pietre, dai fili d'erba. Per la prima volta, quel giorno, alzata la testa, avevo visto lo splendore del cielo, delle rose, e sentito il tenero grido delle tortorelle. Il mio cuore era trafitto d'amore. Provate a immaginare quale poesia si risvegliasse in me. Camminavo ebbro, incespicando, sconvolto, l'anima inondata di luce. Su un roseto vidi delle piccole ali palpitanti. Allungai la mano e catturai una farfalla bianca e mi parve di essermi impadronito di tutta la bellezza, di tutto il radioso mistero dell'estate. Naturalmente volevo farne offerta a colei che fino a quel momento, per me, aveva personificato l'amore e la saggezza: mia madre. Entrai in camera sua... Lei si voltò verso di me e mi disse semplicemente:

«Butta via quell'orrore che tieni in mano».

«La farfalla era morta. Vedo ancora le sue piccole ali inerti. Mia madre prese un libro senza più badare oltre a me. Compresi che il mondo era cieco e crudele, e in questo, almeno, l'istinto non mi aveva tradito. Il mio cuore traboccava di buona volontà ma nessuno poteva capirlo, né tantomeno cogliere il linguaggio misterioso che tentava di scaturire da me. Mia madre non mi capiva. Credo che quel piccolo insignificante incidente sia stato all'origine di tutta la mia vita sentimentale, e della mia opera, in cui gli uomini si aggirano fra i loro simili senza esserne compresi, ciascuno murato nella sua prigione. Il germe di una vita materiale insomma, qualcosa di infinitamente piccolo».

Tacque un istante, e si avviò a concludere con un tono di voce diverso:

«Per fortuna, non tutti i bambini si somigliano... Il mio caro Dominique è decisamente incapace di provare questi sentimenti...».

Parlando guardava suo figlio, un ragazzino di cinque anni, bello e sano, dai capelli biondi, il quale stava in piedi dinnanzi alla grande vetrata dell'atelier. Il ragazzino gli dava le spalle e contemplava la strada, le luci arancioni che brillavano debolmente nelle case e il grigio cielo invernale. In quel momento passò un carro funebre. Il bambino lo seguì con lo sguardo e immaginò quanto gli era stato detto sui morti, sulla notte sottoterra.

«Papà,» disse «che cos'è?».

Lo scrittore trasalì. Il pensiero della morte gli era fisicamente insopportabile. Che potesse morire, andarsene, dissolversi... Il bambino stava toccando la ferita segreta, l'argomento tabù.

Oramai di cattivo umore, rispose:

«Innanzitutto non si indicano gli oggetti. E poi, non si interrompe il papà. Infine, non dovresti stare qui. Che ci fai qui?».

Ascoltava le sue stesse parole con uno strano piacere, come se per bocca sua il bambino dalle grandi orecchie trasparenti, in calzoncini di tela e grembiule rosa, stesse parlando e si stesse vendicando dell'offesa subita un tempo. Suo figlio lo guardava senza replicare.

Irritato pensò:

«Quando apre la bocca così, questo ragazzino ha un'aria da cretino».

E disse severamente:

«Dominique, chiudi la bocca e respira col naso. Quante volte dovrò ancora ripetertelo, eh?».

Si voltò verso sua moglie:

«Vi va di dargli un dolcino e portarlo via, cara?».

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Pagina 169

I fumi del vino



La Finlandia, in tempi travagliati. Estati brevi, inverni lunghi e rigidi. A mezzogiorno, squarciando le nubi, un raggio rosso solo incendia la neve, brilla e scompare. Subito dopo cala il crepuscolo; tutti tacciono, si chiudono in casa, al lume della lampada, e presto si addormentano. Le slitte sono rare e scivolano senza un rumore. Di tanto in tanto, si avverte da lontano il tintinnare di campanelli, nella foschia della sera, nella neve. Poi il silenzio, il silenzio profondo.

Cade la neve. Le slitte portano verso la città tronchi d'albero, tagliati nelle foreste vicine. L'odore dolce del legno si diffonde nell'aria, la resina cola ancora dal taglio recente.

Il respiro dei cavalli e quello degli uomini, addormentati sotto i teloni coperti di neve, si fondono e salgono in volute. I laghi gelano. Una corazza di ghiaccio ricopre i ruscelli, gli stagni, il golfo davanti alla città. Si cammina, e per molte leghe si vedono soltanto distese di neve, senza un'increspatura, e, di colpo, all'orizzonte, un tugurio isolato, sommerso dal ghiaccio e dal vento. Le foreste sono profonde e senza uccelli. A terra ci sono orme di animali, ma nessuno le nota; non si sentono voci umane, né suono di passi.


Quindici anni prima di tutto questo, i paesi vicini erano in preda all'agitazione e la tranquilla Finlandia aveva preso fuoco a sua volta. Ma in una giornata d'inverno fredda e calma tutto pareva triste e assopito.

Due contadini vanno di villaggio in villaggio, risalendo verso nord, si fermano in ogni stazioncina gelida, sotto la pensilina di legno, e incollano ai muri manifesti rossi su cui spiccano in nero un martello e una falce: gli appelli al saccheggio. Il vento selvaggio lacera la carta riducendola in pezzi che volteggiano nell'aria. I contadini hanno posato a terra le loro lanterne, e il vento si accanisce contro la fiammella attraverso il vetro sottile. I castelli vengono bruciati; le statue accecate, abbattute, crollano nei parchi; un pianoforte, gettato nel lago, affonda lentamente nell'acqua, spezzando il ghiaccio. Vengono saccheggiate le cantine, ma già da tempo erano mezze vuote.

«In città,» dicono con rammarico i contadini «troveranno di più!». Poi, le fiamme si estinguono, la cenere si disperde; dalle finestre spalancate soffia il vento. Le foglie morte ricoprono uno specchio rotto gettato nel prato. Le anatre attraversano il cielo con strida acute. Cade la neve; i fiocchi sono leggeri e il vento li disperde senza fatica. Nel campo, il cadavere di un soldato steso al suolo, tranquillo e con gli occhi chiusi. I corvi ghignando hanno preso il volo. Più tardi, il cadavere sprofonderà nella neve spessa e, in primavera, il crescione, l'avena selvatica, i fiori lo ricopriranno.

In città, tutto è tranquillo. L'inverno intorpidisce gli abitanti. La bandiera rossa sventola sulla sommità dei vecchi edifici di Stato, rossi anch'essi, del colore del sangue secco, sangue nerastro e corrotto. Le aquile imperiali sono divelte. I soldati fanno la ronda. Ma la vita scorre mesta e dolce come un tempo. Tuttavia, in certi tranquilli appartamentini borghesi, ammobiliati alla tedesca, la pianta verde sul tavolino laccato, tra il piano verticale e la gabbia del canarino, degli uomini restano nascosti tutto il giorno in una camera buia, dalle finestre chiuse, e quando sulla terra gelata risuona il passo dei miliziani, attendono, chiudono gli occhi, chinano il collo, come animali presi in trappola, e in cuor loro contemplano disperatamente – per l'ultima volta, pensano – un'immagine.

Ciascuno ha la sua, ma tutte si assomigliano tra loro più di quanto essi non credano. Quegli uomini sono gli ufficiali dei reggimenti russi che, rifugiati in Finlandia, sono stati presi tra due rivoluzioni, tra due fuochi e temono i soldati insorti. I miliziani chiudono gli occhi, fingono di dimenticare gli ordini di massacro che, quotidianamente, giungono loro. Questi ufficiali sono di origine finlandese, ma hanno trascorso l'esistenza in terra straniera; i miliziani non li odiano, nei loro confronti provano solo disprezzo indulgente. I mesi passano.

È sera, e la neve cade; i fiocchi bianchi, accecanti e tristi solcano il cielo, formando una massa cupa e silenziosa. Il suonatore d'organetto di Barberia corre più svelto; la cinghia taglia la spalla curva; la scimmia si nasconde sotto un lembo della vecchia pellegrina.

Il professor Krohn rientra a casa; insegna matematica alle medie. È un uomo alto e robusto, dalle spalle ricurve all'indietro, il viso incorniciato da una cascata bionda di barba, gli occhi sono chiarissimi, sbarrati dietro gli occhialetti. Indossa la redingote fin dall'alba, è soddisfatto di se stesso e della vita. Stringe sotto braccio la cartella piena di compiti degli allievi. Incrocia davanti alla porta di casa le cugine di sua moglie, le due signorine Illmanen, che vivono nello stesso stabile, al piano di sopra. Christine e Minna Illmanen sono due creature lunghe e magre, pallide, fragili, trasparenti, angeliche, in bende di lino, vestite di pastrani neri, di mantelline dal triplo bavero; sono così alte che devono chinare la testa per passare sotto il portico, così magre e diafane che sembrano ombre più che donne in carne e ossa; sono così infagottate di scialli, di lane, avvolti gli uni sugli altri e che imbottiscono a malapena i loro seni piatti. Scambiano col professor Krohn un buongiorno sussurato, appena percettibile, e passano oltre. Suonano le campane della sera, il loro tintinnio soffocato si perde nella neve. Il professor Krohn, una volta ancora, riflette meccanicamente: «Belle ragazze, un tempo, e cosa sono diventate? Una salute precaria...».

Parlano poco, arrossiscono al solo sentire il suono della loro stessa voce. La più giovane, Minna, si mantiene ancora dritta, mentre Christine comincia a incurvarsi; il petto si incava; la spina dorsale, flessibile, fragile, si piega come un giunco; un vago odore di medicine, di tintura di iodio, di tisane insipide, perennemente a riscaldare a fuoco lento sul fornello a spirito, sembra aleggiare al loro passaggio. La loro giovinezza è passata; i loro anni più belli sono trascorsi al chiuso di un appartamento, al riparo dalla vita, che scorre lontano da loro, e non penetra attraverso le doppie finestre sbarrate al primo annuncio dell'inverno.

La nevicata raddoppia di violenza. Nei templi protestanti, in una stanzetta nuda, alla crude luce dell'acetilene, alcune vecchie signore, con le bocche sdentate, cantano i salmi del Signore e, sui loro cappellini di giaietto, le uve artificiali vibrano a tempo.

Ad ogni finestra, dietro le tende felpate, ardono le lampade. Un vecchio lume a petrolio brucia anche al posto di polizia, installato in uno dei vecchi palazzi. Pesanti stivali poggiano sulle poltrone di seta; gli occhi dei ritratti sono cavi. Di ora in ora gli uomini che hanno terminato la ronda rientrano mentre altri si levano.

Hjalmar, battendo il suolo col calcio del fucile, marcia in lungo e in largo per la strada deserta. Non c'è niente da sorvegliare, sembra. I due contadini passano, in mano le lanterne e sotto braccio il pacco di manifesti rossi; cominciano ad attaccarli sulla staccionata; le loro barbe rade, gialle e ruvide come stoppa, ondeggiano al vento.

Più tardi, la moglie del professor Krohn, Aïno, passa a sua volta; ritorna dal tempio, le mani intirizzite strette nel manicotto. Affretta il passo in questo pezzo buio di strada, rischiarato solo dalla neve spessa; piantato in un mucchio di neve indurita c'è un fanale con una luce rossastra in cima, ogni singolo fiocco di neve è attraversato dalla luce e si staglia in tante stelle, fragili e perfette. Aïno tende meccanicamente le labbra per gustare il loro sapore di fiamma e di gelo; le stelle fondono sulla sua bocca. Hjalmar la scorge; fischietta malinconicamente. La donna si avvicina e, alla luce torbida che piove su di loro, il soldato vede il suo viso. Vede i suoi capelli biondi, le sue lunghe gote pallide e incavate, i suoi occhi del colore dell'acqua e dall'aria assonnata e dolce. Ma, scorgendo il soldato, la donna rallenta e, a sua volta, lo guarda.

L'uomo inclina nella sua direzione l'alto berretto, ornato di una stella; i denti bianchi splendono nel viso duro, ossuto, arrogante, ma che a poco a poco si addolcisce in un sorriso. Aïno, suo malgrado, lo guarda senza abbassare gli occhi; un lieve sorriso reticente le increspa delicatamente gli angoli della bocca; il lungo mento diafano sussulta. Tacciono entrambi. Tuttavia, a un movimento incerto del soldato verso di lei, Aïno arretra, timorosa, impallidendo. Quel contadino, quel cacciatore d'orsi, come ha potuto, anche un solo istante, fermarsi, sorridergli? La donna si gira in fretta, fugge, scompare nella notte. L'uomo sogghigna con un moto di rabbia: «Borghese, sciocca e prudente borghese!».

La città dorme. Soli, di postazione in postazione i miliziani montano la guardia, impassibili, silenziosi, mostrando le facce immobili e fredde.

A casa Krohn, i coniugi finiscono di cenare nello stretto tinello, sotto il globo di porcellana del lampadario. Poi Aïno sparecchia. Suo marito legge. Aïno sospira.

«Che c'è ancora? Sempre il pensiero di tuo fratello, di Ivar. Sempre questa sciocca idea fissa?».

Gli occhi gli si arrotondano e sembrano uscire dalle orbite, come grossi occhi di pesce; una spessa ruga gli si forma tra le sopracciglia; la collera lo scuote tutto.

«Non lo riceverò mai qui. Temo per la mia vita. Sì, non mi vergogno di confessarlo, e mi spiace che mia moglie non si preoccupi maggiormente della mia sicurezza. Peggio per lui! Bastava che se ne restasse tranquillo nella sua cittadina, come te, come me, a fare il professore o il funzionario! Sarebbe onorato, rispettato, come me! Invulnerabile, inattaccabile, come me! Gli sconvolgimenti, i disordini politici passerebbero lontani da lui, come passano lontani da me! Vivrebbe tranquillamente e comodamente. Invece, il signor ufficiale ha voluto mettersi in mostra ai balli di corte, non far niente tutto il giorno – mentre Dio ci comanda di guadagnarci il pane col sudore della fronte! – e andare a cavallo in uniforme gallonata, e io, adesso dovrei dargli rifugio! Rischiare per lui la prigione e la mia stessa vita! Questa discussione che torna sera dopo sera mi spossa, Aïno! Ti ordino di non pensare più a tuo fratello, che, d'altra parte, è senza alcun dubbio, da un pezzo, al riparo all'estero!». Tace. Aïno si volta con un sorriso triste e ironico. L'uomo frattanto riposa sprofondato in poltrona.

Aïno esce senza far rumore, si avvia verso il piccolo ripostiglio, lo stanzino buio pieno di vecchi vestiti e di bauli, dove, da settimane, suo fratello, Ivar, si nasconde. Gli porta da mangiare; se ne sta coricato sopra uno stretto sofà, dietro il paravento. È un bell'ufficiale, dai capelli lucidi, dalle labbra rosse e impazienti. L'accoglie con lamenti e recriminazioni:

«Aïno, soffoco; Aïno lasciami uscire da qui! La morte è preferibile a questa reclusione, a quest'odore dolciastro di vestiti vecchi, a questa noia!».

«La prigione sarebbe peggio, fratellino, pazienza...».

«Ma la città è tranquilla! La milizia chiude gli occhi! Che abbiamo fatto loro di male? Non ci odiano! Lasciami uscire una notte sola, sarò di ritorno al mattino, lo giuro! Un solo giro della foresta sulla slitta! Respirare l'aria gelata, ricevere in pieno volto i cristalli di neve indurita che volano dagli zoccoli dei cavalli! Dio, mi annoio! Mi annoio, soffoco!».

«Pazienza, amico mio, pazienza».

«Per te è facile a dirsi, per te che non hai mai avuto sangue nelle vene! Ti ricordi da bambini, te ne stavi col tuo ago rintanata tutto il giorno, tra le gonne di nostra madre! Mi davi ai nervi, a me, che ero sempre fuori, sempre a cavallo, a correre, sulla slitta».

«Ma,» dice Aïno con dolcezza «anche a me sarebbe piaciuto, se avessi potuto..., se papà avesse voluto prendermi».

Ivar continua senza ascoltarla:

«Mio padre ci chiamava "il fuoco e l'acqua". Tu non puoi capirmi! Tu che passi la vita accanto a Herr Professor, che il suo nome sia maledetto, che immenso idiota!».

«Taci, Ivar!».

«Come hai potuto sposarlo?».

Aïno non risponde. Ricorda la sua triste giovinezza, la minuscola rendita, unico residuo della loro fortuna dispersa dopo la morte del padre e che veniva interamente versata al brillante ufficiale perché potesse mantenere il suo posto in società. Dice soltanto:

«È un uomo onesto».

Carezza dolcemente i capelli, il viso inclinato del fratello:

«Pazienza... Cosa vuoi che ti dica? Molti dei tuoi camerati si nascondono come te. Vi annoiate tutti! E non siete i soli, te l'assicuro, a conoscere la noia».

La donna sospira e sogna. Ma lui la respinge con rabbia e si getta nuovamente sullo stretto giaciglio, i pugni stretti sul viso. Aïno ritorna a passettini dal marito che si sveglia e mugugna guardando l'ora:

«Le otto... Dove ti eri nascosta, Aïno?».

«Mettevo ordine in cucina».

L'uomo sbadiglia, si carezza il ventre prominente sotto la cintura slacciata. Fuori, il silenzio profondo è interrotto soltanto dal passo monotono dei miliziani e dal grido breve e lacerante con cui la parola d'ordine passa dall'uno all'altro nella nebbia della sera. Le rare botteghe si chiudono una dietro l'altra; si sente il rumore delle porte sbarrate e il cigolio delle imposte metalliche.

Aïno, col paniere da lavoro ai piedi, tra la gabbia del canarino addormentato e il cuscino del gatto, cuce. Al piano di sopra, le signorine Illmanen suonano il piano, come ogni sera ripetono il solito monotono studio – lo stesso da quindici anni – che solo rompe il silenzio della casa e, attraverso lo spesso soffitto, arriva fino a Aïno. La donna pensa a Ivar, a se stessa... La noia... Sospira. Povero ragazzo, folle e imprudente, com'è sempre stato. E tuttavia ha avuto una vita così brillante e felice che i soli ricordi dovrebbero adesso bastare a consolarlo. A lei non restano neanche ricordi... In immagini indistinte, rivede il professor Krohn che veniva a farle la corte, la sua faccia d'altri tempi, tonda e rosea, gli occhialetti dalla montatura d'oro, la corta barba bionda: «Che bel colore dorato» dicevano le zie, le cugine che la spingevano a quel matrimonio. Ivar dice: «Respirare solo l'aria gelata...». Ma lei capisce anche questo. Ricorda i giorni della sua infanzia, in campagna, nella neve, il vento tra i capelli, la neve sulle labbra, e i suoi compagni, dei contadinelli ormai, probabilmente simili a questo, al soldato di cui ascolta involontariamente il passo sotto la finestra.

La donna guarda la finestra bassa, mezza sepolta sotto la neve e l'ombra di Hjalmar, l'ombra proiettata dall'alto berretto ornato di una stella. Rivede il pezzo di strada buia, il respiro caldo e puro che esce dalla bocca del soldato in dense nuvole nell'aria gelata, il lampo bianco dei suoi denti aguzzi. Un bel viso duro e ardente.

Ma no, ma no, che va a pensare? È un contadino, un bruto ignorante... Dio sa quali pensieri malvagi, impuri, gli si affacciassero alla mente mentre la squadrava sorridendo? Sì... Quali pensieri?

Arrossisce leggermente, guarda di sottecchi il marito nuovamente addormentato; russerà così finché la pendola non suonerà le nove, e poi, a passi pesanti, raggiungerà il letto, si abbandonerà sotto le coperte, sotto la trapunta, chiuso nel sacco delle lenzuola, alla maniera tedesca, e russerà ancora, la bocca aperta, il respiro che solleva la barba, così fino al mattino, e, al mattino, uscirà.

Aïno cuce più svelta e abbassa la testa sul lavoro.

[...]

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