Autore Irène Némirovsky
Titolo Tutti i racconti (1935-1939)
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2013, Asce 35 , pag. 316, cop.fle., dim. 13,5x19,5x2 cm , Isbn 978-88-359-9329-2
TraduttoreMassimo De Pascale
LettoreSara Allodi, 2014
Classe narrativa ucraina , narrativa russa












 

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Indice


     Giorno d'estate                      11

     Il principio e la fine               31

     Un amore in pericolo                 53

     Legami di sangue                     65

     Fraternità                          119

     Epilogo                             135

     Magia                               149

     Siamo stati felici                  157

     Speranze                            163

     La confidenza                       189

     La moglie di Don Giovanni           213

     Notte in treno                      241

     Come dei bambini grandi             261

     A causa delle circostanze           271

     Emilia Plater                       287

     Lo spettatore                       297
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Pagina 118

Fraternità



Entrò un istante nella sala d'attesa di prima classe, deserta; i caloriferi erano accesi, ma il soffio freddo della terra saliva dalle strette lamine del parquet; uscì. La stazione era minuscola, contornata di campi spogli. Era una gelida giornata di ottobre, ancora rosata, luminosa ma breve, perché il giorno prima era entrata in vigore l'ora solare. Raggiunse una panchina riparata, sotto la pensilina, esitò, sedette. Adesso rimpiangeva di non avere ascoltato Florent, l'autista, e passato la notte in città. L'albergo non era poi così sporco... Attendere sulla banchina deserta, passare ore interminabili su qualche orrido accelerato... Sarebbe arrivato dai Sestres alle otto passate. L'auto era inutilizzabile, fracassata contro un pilone. Non doveva più guidare. Era stanco. Aveva dei pessimi riflessi. Era un miracolo esserne uscito senza un graffio. Non aveva avuto il tempo di scorgere il pericolo, la morte. Poi, per nascondere a Florent la paura, di cui si vergognava, si era talmente irrigidito da riuscire a padroneggiare ogni manifestazione esteriore dei suoi nervi. O almeno lo sperava! Al momento stava tremando... forse per il freddo. Temeva l'aria aperta, il vento. Era un ometto gracile, curvo, il viso affilato tendeva al giallo, la pelle secca, priva di nutrimento, i capelli argentati; il naso era eccessivamente lungo e appuntito; le labbra, costantemente secche, sembravano appassite per una sete millenaria, una febbre trasmessa di generazione in generazione. «Il naso, la bocca, i soli tratti specificamente giudaici che io abbia conservato». Premette con la mano le orecchie trasparenti, sottili, frementi come quelle di un gatto e particolarmente sensibili al freddo. Si strinse il colletto del soprabito di magnifica lana inglese, scura, spessa e morbida. Eppure non si mosse. La banchina ferroviaria deserta, le luci lungo i binari, ancora pallide, appena visibili sullo sfondo brillante e rossastro della sera, quella solitudine, quella tristezza, esercitavano su di lui un inesprimibile fascino. Era uno di quegli uomini che assaporano con profonda e perversa applicazione la malinconia, il rimpianto, l'amarezza, troppo lucido – «Self conscious» si disse – per credere alla felicità. Guardò l'ora con impazienza. Soltanto le cinque... Toccò il portasigarette nel taschino e subito abbassò la mano: fumava troppo; aveva le palpitazioni, l'insonnia. Sospirò. Raramente si ammalava, ma i suoi sensi acuiti, meravigliosamente tarati sul dolore, sorvegliavano il minimo malessere, un qualunque moto del corpo, il flusso del sangue. Raramente malato, ma la gola fragile, il fegato delicato, il cuore affaticato, la circolazione irregolare. Come mai? Era sempre stato sobrio, prudente, misurato in ogni cosa. Ah! tanto prudente, perfino in gioventù, perfino in quel periodo di cieca, indimenticabile follia... Non rimpiangeva la gioventù. Eppure era stata facile. Non aveva provato, allora, che i dolori naturalmente inerenti alla condizione umana, la morte dei genitori, le delusioni d'amore o per la carriera. Niente di paragonabile al dolore causato dalla morte della moglie, dieci anni prima. Sapeva che chi lo conosceva si stupiva di quella tristezza persistente. Di fatto, aveva sposato Blanche senza esserne innamorato e la loro unione era stata tiepida e tranquilla, ma lui apparteneva alla categoria degli uomini fedeli: il calore di una casa, la luce di una lampada, la sensazione di stabilità, di pace, in lui e intorno a lui, era ciò che aveva cercato, che aveva amato e che aveva perduto con la perdita di Blanche. Non ci sarebbe stata un'altra donna. Non era una preda facile per l'amore, troppo riluttante, troppo ombroso, troppo timido. «Codardo» si disse. Viveva come se tutto cospirasse per rubargli la vita, la felicità. Cuore contrito, umiliato, continuamente tremante, cuore di coniglio... Infine, un'ora prima, sulla strada, un solo attimo in più e sarebbe stata la fine, per lui, di ogni inquietudine. «L'ho sempre detto che l'auto non valeva niente. E il pranzo era stato pesante. Ero insonnolito, poco reattivo, coi nervi intorpiditi». Cos'aveva mangiato esattamente? Fagiano, un'omelette ai funghi... cos'altro? Un po' di brie... «Troppo pesante per me. Le uova mi fanno male. Ah! la vita sedentaria, alla mia età! Ho cinquant'anni. Dall'inizio alla fine dell'anno, solo un mese all'aria aperta, e il resto del tempo in banca, a casa, al circolo». Pensò ancora una volta che, appena avesse potuto, avrebbe piantato gli affari e vissuto di più in campagna. Giardinaggio, golf... Il golf? Gli sembrò di sentire sulle guance il soffio tagliente del vento, in un giorno come quello, su un campo da golf... Sapeva di detestarlo! E sapeva di detestare anche le passeggiate all'aria aperta, lo sport, l'equitazione, l'automobilismo, la caccia... Non stava bene che a casa, da solo o coi figli, al riparo di un tetto, al riparo dagli esseri umani. Non amava gli uomini. Non amava il mondo. Eppure, era stato sempre ben accolto dappertutto, ricevuto amichevolmente, cordialmente. In gioventù, era stato amato da donne affascinanti. Perché? sì, perché? Gli pareva sempre che non gli si dimostrasse abbastanza affezione, abbastanza tenerezza. Quanto aveva fatto soffrire Blanche, all'inizio del matrimonio! «Sei felice? Non solo col cuore, ma con i sensi? Ti rendo felice? in modo totale? unico?». Cuore inquieto, insoddisfatto. E la cosa più strana era che agli occhi del mondo appariva così freddo, così tranquillo. Talvolta pensava che solo una straordinaria bellezza, la gloria o il genio avrebbero potuto contentare, placare quella sete d'amore. Ma non aveva doti eccezionali. Tuttavia, era ricco, con un'ottima posizione, felice. Felice? Ma come essere felice senza la tranquillità assoluta? E chi poteva essere felice al giorno d'oggi? Il mondo era così instabile. Un giorno avrebbe potuto conoscere il disastro, la rovina, la miseria. Non era mai stato povero. Suo padre era un uomo agiato, lui stesso era ricco. Non aveva mai conosciuto il bisogno, né la paura del domani. Eppure il timore, l'angoscia, avevano sempre vissuto in lui, sempre, sempre, assumendo le forme più singolari, più... grottesche. Si svegliava nel cuore della notte, tremante, con la preoccupazione che qualcosa stesse per accadere, fosse già accaduta, che tutto gli sarebbe stato tolto, che la vita era instabile come una scenografia vacillante, pronta a crollare per rivelare chissà quale abisso.

[...]

Guardò l'ora. Si era completamente perso nei propri pensieri, ma erano trascorsi solo venti minuti. Triste autunno, triste serata... Fu solo allora che scorse, per la prima volta, un uomo seduto accanto a lui, sulla stessa panchina, un uomo vestito poveramente, magro, mal rasato, le mani sporche. Sorvegliava un bambino. Il bambino si avvicinava continuamente ai binari, affascinato. Indossava una mantellina malridotta, un berretto e, ai lati della testa, si scorgevano due enormi orecchie a sventola; dalle maniche troppo corte sporgevano i polsi e le mani arrossate. Si muoveva bruscamente. Voltava la testa verso la panchina; i suoi occhi enormi, di un nero liquido, risaltavano nel visetto minuto e sembravano saltare da un oggetto all'altro. Fece un passo in avanti e, benché non ci fossero treni in vista, l'uomo che lo sorvegliava ansiosamente si alzò di slancio dal suo posto, lo afferrò tra le braccia e tornò a sedersi, tenendolo stretto al cuore. Vide che gli occhi del suo vicino, elegantemente vestito, si posavano sul bambino, e subito fece un timido sorriso.

«Potreste dirmi l'ora?».

Parlava con un accento straniero, roco, che deformava le parole.

Rabinovitch, senza rispondere, gli indicò il quadrante sopra le loro teste.

«Ah sì. Chiedo scusa... Sono ancora le cinque e venti? Mio Dio, mio Dio! Il treno passa alle sei e trentotto. Scusate... anche voi aspettate il treno per Parigi?».

«No».

Christian si alzò; l'uomo mormorò subito:

«Signore, se poteste essere così buono... È per il bambino. È stato malato e la sala d'attesa di terza classe non è riscaldata. Permettete che vi seguiamo nella sala di prima. Se entriamo insieme a voi, ci faranno restare».

Parlava con una mimica troppo rapida, quasi scimmiesca. Non si muovevano solo le labbra, ma le mani, le pieghe del viso, le spalle. I suoi occhi neri, febbrili, scintillanti come quelli del bambino, sembravano correre da un oggetto all'altro, spostarsi rapidamente, cercare inquieti qualcosa che non vedevano, che non avrebbero mai visto.

«Se volete» si sforzò di dire Rabinovitch.

«Oh! grazie, signore, grazie... Vieni, Jasha. Prese con una mano il bambino e con l'altra il bagaglio di Christian che cercava di resistere, imbarazzato».

«Via, lasciate stare».

«Ma signore, che male c'è?».

Entrarono nella sala d'attesa di prima, dov'era stato acceso un lume a gas a tre fiammelle che spandeva una luce pallida e rarefatta. Christian si accomodò su una poltrona di velluto, e l'uomo, timoroso, sull'orlo di un sedile; teneva sempre il bambino sulle ginocchia.

Una flebile suoneria gracchiante e malinconica risuonò interminabile nel silenzio.

«Vostro figlio è stato malato?» chiese infine Christian, distrattamente.

«È mio nipote, signore» disse l'uomo guardando il bambino. Mio figlio è appena partito. L'ho accompagnato alla nave. Va a vivere in Inghilterra, a Liverpool. Gli hanno promesso un posto, ma nel frattempo mi ha lasciato il piccolo».

Fece un profondo sospiro.

«Abitava in Germania. Poi, per quattro anni ho potuto tenerlo con me, a Parigi. Ora, di nuovo, la separazione...».

«L'Inghilterra» disse Christian sorridendo «non è tanto lontana».

«Per noialtri, signore, l'Inghilterra, la Spagna o l'America, non c'è differenza. Ci vogliono i soldi del viaggio, ci vuole il passaporto, il visto, il libretto di lavoro. Sarà una lunga separazione».

Tacque, ma si vedeva che le parole alleviavano la sua pena. Subito ricominciò:

«Mi avete chiesto se il piccolo è stato malato? Oh! è robusto, ma si raffredda facilmente e, allora, tossisce, per mesi. Ma è forte. Tutti i Rabinovitch sono forti...».

Christian fece un movimento.

«Come vi chiamate?».

«Rabinovitch, signore».

«Mi chiamo come voi...».

«Ah!... Kid?» disse lentamente l'uomo.

Aggiunse altre parole in yiddish. Christian si irrigidì. Mormorò seccamente:

«Non capisco».

L'uomo alzò lievemente le spalle con un'inimitabile espressione di incredulità, di presa in giro, ma affettuosa, quasi tenera, come se pensasse: «Se vuole spararla grossa, faccia pure... Chiamarsi Rabinovitch, e non capire lo yiddish!».

«Ebreo?» ripetè in francese. «Partito da molto tempo?».

«Partito?».

«Be', sì! Dalla Russia? dalla Crimea? dall'Ucraina?».

«Sono nato qui».

«Ah! Allora, vostro padre?».

«Mio padre era francese».

«Dunque è stato prima di vostro padre. Tutti i Rabinovitch vengono da laggiù».

«È possibile» disse freddamente Christian.

La breve emozione che aveva provato nel sentire il proprio cognome pronunciato da quell'uomo si era dissolta. Provava un sentimento penoso. Cos'avevano in comune quel povero ebreo e lui?

«Conoscete l'Inghilterra, signore? Ma sì, naturalmente. E la città dove mio figlio andrà ad abitare, Liverpool?».

«Ci sono passato».

«Il clima è buono?».

«Ma sì».

L'uomo sospirò, un lungo sospiro modulato che si concluse in un oi-oi-oi... lamentoso. Strinse il bambino tra le ginocchia.

Christian lo osservò con un'attenzione più profonda. Quanti anni aveva? Tra i quaranta e i sessanta, era tutto quello che si poteva dire! Forse non più di cinquanta, come lui. Il suo petto angusto pareva compresso, incavato da un fardello pesante e invisibile che curvava le spalle e le spingeva in avanti. A ogni rumore inatteso si faceva piccolo piccolo, addossandosi al sedile; eppure, così fragile e magro, sembrava dotato di una vitalità inestinguibile. Come una candela accesa nel vento, malamente riparata dal vetro di una lanterna. La fiamma colpisce il vetro, la luce tremola, si affievolisce, sta quasi per estinguersi, poi il vento si placa, e lei torna a brillare, umile e tenace.

«Mi preoccupo tanto» disse dolcemente l'uomo. «Passiamo la vita a preoccuparci. Ho avuto sette figli, cinque sono morti. Nascono tutti robusti, ma con un punto debole, il petto. Ne ho cresciuti due. Due maschi. Li amavo come i miei stessi occhi. Avete figli, signore? Sì? Ah! guardate, vi osservo e non posso fare a meno di paragonarmi a voi. In un certo senso, è consolante. Siete ricco, dovete avere un buon commercio, ma se avete dei figli, voi mi capite! Gli diamo tutto, e non sono mai contenti. È nella natura dell'ebreo. Mio figlio minore... Ha cominciato a quindici anni: "Papà, non voglio fare il sarto... Papà, voglio studiare". Pensate se poteva essere facile a quei tempi in Russia! "Papà, voglio partire". "E che altro vuoi, sventura della mia vita?". "Papà, voglio andare in Palestina. Là soltanto, un ebreo può vivere dignitosamente. Là è la patria di chi è ebreo". "Ehi!" gli ho detto. "Salomon, io ti rispetto, tu hai studiato, sei più istruito di tuo padre. Va', ma qui puoi avere un buon lavoro, un lavoro da signore, puoi fare il dentista o il commerciante, un giorno. Laggiù, dissoderai la terra come un contadino. Per la Palestina, non potrete mai prendere tutte le aringhe che hanno solcato l'oceano, gli ho detto, e rimetterle nel ventre della loro madre. Il giorno in cui lo potrete fare, allora la Palestina potrà chiamarsi la patria degli ebrei. Fino ad allora... Ma vai, vai... Se pensi di essere felice". Alla fine, è partito. Si è sposato: "Papà, manda dei soldi per il matrimonio... Papà manda dei soldi per la nascita del bambino... Papà manda dei soldi per pagare il medico, i debiti, l'affitto". Un giorno, ha cominciato a sputare sangue. Il lavoro era troppo duro. Poi è morto. Ora mi resta il maggiore, il padre di questo. Anche lui, appena è diventato un uomo, mi ha lasciato. È andato a Costantinopoli, poi in Germania. Ha cominciato a guadagnarsi la vita. Faceva il fotografo. Arriva Hitler! Io avevo lasciato la Russia, perché all'arrivo della rivoluzione – vedete la fortuna dell'ebreo! –, per la prima volta in vita mia, avevo guadagnato un po' di denaro. Ho avuto paura. Sono partito. La vita vale più della ricchezza. Da quindici anni sto a Parigi. Durerà quanto durerà... E mio figlio è in Inghilterra, adesso! Dov'è che Dio non spinge l'ebreo? Signore, se soltanto potessimo stare tranquilli! Ma mai, mai, stiamo tranquilli! Appena guadagniamo, col sudore della fronte, un po' di pane duro, quattro mura, un tetto sopra la testa, arriva una guerra, una rivoluzione, un pogrom, o qualche altra cosa, e addio! "Raccogliete le vostre cose, e filate. Andate a vivere in un'altra città, in un altro paese. Imparate una nuova lingua – alla vostra età, non è sconfortante?". No, ma è faticoso. Qualche volta mi dico: "Ti riposerai quando sarai morto. Fino ad allora, vivi la tua vita da cane! Dopo ti riposerai". Alla fine è Dio il padrone!».

«Che lavoro fate?».

«Il mio lavoro? Un po' di tutto, naturalmente. Per il momento mi occupo della confezione di cappelli. Finché ho un libretto di lavoro, no? Quando me lo ritireranno, ricomincerò a vendere. Vendere un po' di tutto, pelletteria all'ingrosso, apparecchi automatici, quello che capiterà. Sopravvivo perché vendo con un piccolo utile. Beati quelli che sono nati qui. Si vede, a guardarvi, quale ricchezza si può raggiungere! E, forse, vostro nonno veniva da Odessa, o da Berditchev, come me. Doveva essere un pover'uomo... I ricchi, i fortunati non partivano, sapete! Sì, era un pover'uomo. E voi ora... Un giorno forse, anche lui...».

Guardò teneramente il bambino che ascoltava in silenzio, il viso attraversato da tic nervosi, gli occhi scintillanti.

Christian, a disagio, disse:

«Mi pare di sentire il mio treno».

L'uomo si alzò subito.

«Sì, signore. Permettetemi di aiutarvi. Non chiamate un facchino. Non c'è bisogno. Ma sì, signore, non è niente. Vieni Jasha. Non ti allontanare! Ha l'argento vivo questo bambino! Dobbiamo attraversare il binario».

Il treno arrivò solo dieci minuti dopo. Christian camminava in silenzio lungo la banchina, l'uomo lo seguiva, con il bagaglio in mano. Tacevano entrambi ma, loro malgrado, Christian e l'ebreo si guardavano passando sotto i lampioni, e Christian pensava, con un sentimento strano e doloroso, che era così che si capivano meglio. Sì, così... senza parole, con uno sguardo, un movimento delle spalle, una smorfia nervosa delle labbra. Infine risuonò lo sferragliare del treno.

«Salite tranquillamente signore. Non preoccupatevi del bagaglio. Ve lo passo dal finestrino» disse l'ebreo sollevando il fucile inglese dentro il suo fodero di daino.

Christian gli fece scivolare tra le mani una moneta da venti franchi, l'uomo la mise in tasca con una fretta piena di pudore, salutò, afferrò la mano del bambino; il treno si mosse. Christian si voltò, entrò nello scompartimento vuoto; con un sospiro, gettò la valigia e il fucile sulla reticella, sedette. Fuori era buio. La piccola lampada sul soffitto mandava una luce fioca che non permetteva di leggere. Il treno correva nella campagna scura; il cielo era freddo, quasi invernale. Sarebbe arrivato dai Sestres poco prima delle otto. Pensò al vecchio ebreo, in piedi, col bambino per mano sulla gelida banchina della stazione. Miserabile creatura! Era possibile che fosse, lui, dello stesso sangue di quell'uomo? Nuovamente, pensò: «Cos'abbiamo in comune io e lui? Non c'è più somiglianza tra quell'ebreo e me che tra Sestres e uno dei suoi servi! Il contrario sarebbe impossibile, grottesco! Un abisso, un baratro! Mi intenerisce perché è pittoresco, un testimone di un'epoca ormai finita. Sì, ecco perché mi intenerisce, perché è lontano, tanto lontano, da me... Nessun punto di contatto, niente».

Ripeté a mezza voce, come se volesse convincere un interlocutore invisibile:

«Niente, vero? Niente...».

[...]

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Pagina 135

Epilogo



Entrava sommessamente, un libro in mano, chinava la testa con aria timida, poi sedeva nell'angolo più remoto del bar e incominciava a leggere. A quell'ora, il bar deserto era un'oasi di pace; aveva un viso fragile e sciupato da vecchia, una pelle scolorita, lo sguardo privo di luce. Quando girava le pagine del libro aperto davanti a lei, si notava il leggero tremito che le scuoteva le mani; mani dalla forma squisita, che a volte attiravano l'attenzione degli uomini, ma... quanto al resto, si poteva a malapena definire una donna. Riferendosi a lei dicevano «la vecchia Alice Maynell». Non aveva mai compagnia. Se ne andava alle prime ore del mattino, sempre da sola.

La sua voce era dolce, velata, un po' sibilante, come lo sono le voci americane, educate e raffinate, che hanno perso ogni traccia di accento nasale. Le chiedevano: «Come state?». Rispondeva: «Oh! fine...» col tono gioioso che assumono quelli della sua razza quando si chiedono notizie della loro salute, anche quando sono malati o disperati. Talvolta, qualcuno aggiungeva:

«Cosa leggete, Mrs Maynell?».

La vecchia sorrideva:

«Oh! solo trash. Un romanzo poliziesco, sapete...».

Sorrideva spesso di un sorriso discreto che schiudeva quasi a malincuore le sue labbra esangui. Di solito esse avevano quella piccola contrazione amara, tipica di coloro che parlano poco e di rado e che vivono in profonda solitudine.

Dopo qualche tempo, la vecchia alzava la testa, ordinava dimessa:

«Whisky...».

Glielo servivano. Lo beveva d'un fiato e il tremito alle mani cessava. Riprendeva a leggere. Passava un po' di tempo. Di nuovo si sentiva:

«Whisky...».

Poi si alzava, lasciava al suo posto il libro iniziato; il titolo era Il rosso e il nero o L'idiota o Plays of Shakespeare. Al banco, beveva in silenzio, lo sguardo fisso al bicchiere. L'ombra del cappellino di traverso le nascondeva il viso. Una sola volta, una notte di Natale, bevve fino a che la testa non le ricadde in avanti e il cappello si sciolse e scivolò via. Aveva i capelli rossi, senza neanche un filo bianco, una chioma ardente e gonfia di vita sopra un viso triste e avvizzito. Ma nessuno la guardava. Era mezzanotte passata, e, a quell'ora, al bar, erano rari quelli per cui il mondo esterno esistesse ancora.

Era un piccolo bar inglese, frequentato quasi esclusivamente da una clientela inglese e americana. Il profumo di distillati vecchi e fini che si respirava dall'ingresso, la mancanza di donnine, la luce discreta, propizia alla stanchezza e all'ebbrezza, ecco ciò che piaceva agli habitué che si ritrovavano là tutte le sere da quindici anni. Alcuni di loro, sposati, stabiliti a Parigi, facevano solo un salto, bevevano un bicchiere e tornavano a casa. Altri ci vivevano, e lasciavano il loro posto solo al limite estremo della notte, per qualche albergo dei dintorni.

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