Copertina
Autore Irène Némirovsky
Titolo Tutti i racconti (1940-1942)
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2013, Asce 38 , pag. 332, cop.fle., dim. 13,5x19,5x1,8 cm , Isbn 978-88-359-9296-7
TraduttoreAlberto Gabrieli
LettoreSara Allodi, 2014
Classe narrativa ucraina , narrativa russa
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Indice


     Aino                                 11
     Il sortilegio                        27
     ... e l'amo ancora                   47
     La partenza per la festa             53
     L; altra ragazza                     71
     Il signor Rose                       79
     La paura                            101
     Le carte                            105
     Destini                             111
     La confidente                       129
     La sconosciuta                      151
     Il galantuomo                       159
     Lo sconosciuto                      183
     Gli spettri                         201
     Lorchessa                           219
     Quella sera                         237
     L'amico e la moglie                 243
     La ladra                            259
     L'incendio                          273
     Il Grande Viale                     291
     Le vergini                          301
     Un bel matrimonio                   317
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Pagina 101

La paura



La notte era così bella, così trasparente che il sonno abbandonava gli abitanti del villaggio. Dal bosco vicino veniva un profumo di fragole. I cuori erano tristi: c'era la guerra. Il villaggio tremava per i suoi figli assenti. Le notizie erano cattive. Gli uomini mormoravano: «Che cosa ci toccherà vedere ancora...».

«Non sarà domani che faremo festa» fece Léonce Péraudin.

E il suo vicino e amico, Joseph Voillot, annuì tristemente senza rispondere.

I campi che coltivavano erano confinanti. Si conoscevano dai tempi della scuola. Nel '14 avevano combattuto nella stessa compagnia. Voillot, tarchiato, taciturno, con la barba nera, le lunghe braccia nodose, si era caricato sulla schiena Péraudin ferito, sotto le granate, vicino a Poperinge. Erano sposati e le mogli non erano riuscite a turbare la loro amicizia. Il figlio di Péraudin era soldato. Al suo ritorno, avrebbe sposato la figlia maggiore di Joseph, una bionda dal seno sodo e dalle spalle larghe.

Una donna passò e gridò (le donne della zona hanno una voce acuta e penetrante che sovrasta senza sforzo le rare parole degli uomini):

«A quanto pare, si sono visti dei paracadutisti da queste parti! E che ne avrebbero anche arrestati quattro, il quinto se l'è svignata. Abbiamo pur sentito delle fucilate ieri sera».

Tacquero e ascoltarono. La notte, così tranquilla finora, sembrava a un tratto piena di una strana, indefinibile minaccia. Ma si udiva soltanto il canto dell'usignolo e, in lontananza, il pianto di un bambino.

«Forza, lasciamo perdere, bisogna tornare a casa» disse Voillot. Péraudin e Voillot si diressero verso casa. Si stavano avvicinando al fiume, quando la luna si velò. Una nebbia umida si alzava dai prati. Sull'acqua aleggiavano vapori teneri e leggeri. Più avanzavano, più s'impadroniva di loro una strana inquietudine. Péraudin si girò a più riprese e fece segno al suo compagno di tacere. Ma a volte era un cavallo addormentato nel prato, la cui sagoma emergeva, irriconoscibile, dalla nebbia, a volte un fruscio di giunchi in riva al fiume. Non scorgevano né udivano altro e, tuttavia, erano turbati, pensierosi, preoccupati. Tacevano. Si vergognavano di ammettere che avevano paura. Sulla soglia delle loro case vicine, si separarono.

Péraudin entrò in casa. Andò in camera e prese il fucile: quella notte avrebbe fatto buona guardia. Se avesse scorto un nemico, non sarebbe andato a chiamare i gendarmi. Avrebbe saputo difendersi. Scese verso il prato, bianco, vaporoso, come innevato nella nebbia tremolante, illuminato dalla luna. Si sedette nei pressi della siepe che separava la terra di Voillot dalla sua. Attese. Le ore scorrevano. Ben presto la breve notte di maggio sarebbe finita. Per un istante fu colto dal sonno e, bruscamente, sobbalzò, si svegliò di soprassalto. Aveva distintamente udito un rumore di passi, dall'altra parte della siepe. Qualcuno risaliva dal fiume verso la casa del suo amico, qualcuno che camminava con precauzione, trattenendo il respiro. Scostò i rami e guardò. La nebbia era così fitta che in un primo momento non vide niente; apparve soltanto una figura scura che poi si chinò e si acquattò dietro i giunchi. Udì il rumore di un'arma che viene caricata. Imbracciò il fucile e sparò. Un gemito nell'alba nascente, un lamento orribile che credeva di riconoscere, che gli gelava il sangue. Si avventò. Corse verso i giunchi. Li scostò. Trovò a terra il suo amico morente, colpito al ventre da un proiettile. Il suo fucile era caduto nell'erba, accanto a lui. Entrambi avevano voluto spiare i paracadutisti, colpire il nemico. Sollevò la testa di Voillot, gridò con voce roca:

«Non sarai morto? Parla, rispondimi! Sono io, sono qui! Sono io il maledetto minchione, l'imbecille che ti ha fatto questo brutto scherzo! Rispondimi, Léonce, vecchio mio, guardami!».

Ma l'uomo si portò le mani sul ventre con una smorfia dolente e supplichevole e, senza una parola, morì.

L'indomani, trovarono i due cadaveri, quello di Voillot steso nell'erba, quello di Péraudin, sospeso ai rami di un olmo.

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Pagina 243

L'amico e la moglie



Dieci anni fa, un aereo che volava dalla Francia alla Cina cappottò e prese fuoco nelle pianure della Russia asiatica. Due uomini dell'equipaggio, il meccanico Rémy e lo steward Sert, si salvarono per miracolo. L'aereo cadde in riva a un fiume gelato, le cui onde rimanevano diritte, statiche, irte — blocchi di ghiaccio che avevano l'aspetto di cavalli schiumanti, fulminati in pieno galoppo.

Una tempesta aveva fatto deviare l'aereo dalla sua rotta. Non si riusciva a rintracciarlo; gli uomini erano soli in quella vasta contrada, lugubre e spoglia. Non avevano niente per scaldarsi, niente da mangiare, e Sert era ferito. I loro sventurati compagni erano morti tra le fiamme. Quando queste si spensero, Rémy e Sert cercarono i corpi, ma non rimaneva niente. La tempesta, che si era per un istante placata, riprese e si scatenò di nuovo con forza; non c'era nessun rifugio in questo paese piatto come una mano, non una collina, non un albero. I due uomini erano trascinati in un turbine di neve.

«Bisogna camminare,» disse Rémy «se ci fermiamo, siamo fottuti».

Con coraggio, seguito da Sert che perdeva sangue in abbondanza, avanzò nella neve compatta. Il vento, a volte, li gettava a terra; si rialzavano e continuavano a camminare. Credevano di scorgere ora una casa, ora una slitta o una chiesa, ma ogni volta ammettevano di essere stati ingannati da un miraggio analogo a quelli del deserto. Attorno a loro non c'era altro che neve; di fronte a loro, il fiume gelato: più che un fiume sembrava un mare, terribile e senza limiti visibili. Avevano vagato per parecchie ore quando videro a terra una specie di casupola di neve, probabilmente una capanna. Tutti speranzosi, si trascinarono fin là. Ma non erano che i resti del loro aereo, ricoperti di neve fresca: erano tornati al punto di partenza. Sert chiese a Rémy di lasciarlo lì; la ferita gli impediva di camminare: «Senza di me andrai più veloce, vecchio mio. Tanto vale che almeno uno si salvi». Ma Rémy non gli diede retta; lo riconfortò, gli fece una medicazione di fortuna, gli diede dei pezzi di ghiaccio da succhiare, e ripartirono.

Erano due uomini giovani e coraggiosi. Per quattro giorni resistettero al freddo, alla fame e alla tempesta. All'inizio avevano tentato di seguire le rive del fiume, ma, accecati dalla neve e dal vento selvaggio, ben presto si ritrovarono in mezzo alle pianure. Lì, si erano persi; non sapevano che direzione prendere. Credevano di avanzare, ma forse non facevano che girare in tondo; l'uragano cancellava le impronte dei loro passi. Il quinto giorno erano disperati. Succhiavano la neve, masticavano pezzi di biancheria. La tentazione più rischiosa era il sonno, lasciarsi cadere su quella coltre morbida e spessa, precipitare in un voluttuoso torpore. Quando uno dei due si fermava barcollando e sembrava sul punto di cedere, l'altro a forza di spintoni e di pugni, lo rimetteva in cammino.

«Quando mi vedrai mollare,» disse Rémy «gridami nell'orecchio: "Pensa a Louise!". È mia moglie, capisci, voglio rivederla».

«Io non ho nessuno,» pensò Sert «ma voglio cavarmela. Da solo non ci sarei mai riuscito. Proprio una brava persona, questo Rémy» pensò ancora.

Poi niente più parole né pensieri. Non vedevano nient'altro al di là dello sforzo sovrumano che consisteva nel mettere un piede davanti all'altro; poi, fatto un passo, ancora uno, e ancora un altro... l'ultimo. No! Un guizzo... ancora un passo. La sera del quinto giorno, sentirono, distinto ma debole, il latrato di un cane.

«Stiamo sognando» mormorò Rémy.

Sert non diceva niente; adesso era davanti; si trascinava dietro Rémy allo stremo delle forze. Finalmente, si trovarono davanti a una recinzione; un cane infuriato si scagliò contro di loro. Poi apparve un uomo, fece allontanare il cane, e i due superstiti entrarono in una casa bassa e fumosa, illuminata da una candela; videro una donna che impastava il pane, in piedi davanti a un tavolo, accanto a una culla grezza tagliata in un tronco d'albero, poi persero conoscenza.


Dopo qualche ora, curati, riscaldati fecero finalmente capire a gesti la loro disavventura e chiesero da mangiare. Ebbero una zuppa di barbabietole e gallette. Erano seduti su una stufa con le gambe che penzolavano nel vuoto e sulle ginocchia tenevano una scodella piena di zuppa e spezzettavano del pane nero. Ascoltavano. Osservavano estasiati. Quella miserabile capanna era un luogo divino; l'odore dell'impasto fresco era l'odore stesso della vita, caldo e nutriente.

«Ah, vecchio mio!» si dicevano di tanto in tanto ridendo di cuore. «Beh, vecchio mio, beh, mio povero amico!».

Rémy era di bassa statura, con una faccia da bambino, una grande bocca sorridente, occhi chiari e naso all'insù. Sert era un bellissimo ragazzo di vent'anni, di corporatura snella, con le spalle larghe; aveva una testa piccola e allungata, i capelli neri, le tempie e le guance come aspirate verso l'interno, e il profilo netto, la fronte sfuggente, il naso arcuato e importante e una certa aria fiera e intrepida lo facevano assomigliare a un uccello di una specie nobile: aveva occhi dorati e palpebre pesanti. Era una testa calda, un avventuriero. Disoccupato da parecchi mesi, era finalmente riuscito a trovare un posto da steward a bordo dell'aereo, per potersi procurare, spiegò a Rémy, un passaggio gratuito fino a Shanghai, dove un suo amico aveva aperto un bar.

«Troverà pure il modo di sistemarmi. È un amico. Non credo in molte cose, ma credo in un buon amico. Ne ho abbastanza dell'Europa. Conto su di lui» disse e, alzando gli occhi verso Rémy, sorrise. «Anche tu hai dimostrato di essere un buon amico, vecchio mio. Senza di te...».

«Oh! Non esagerare... Hai fatto lo stesso anche tu... Se alla fine non mi avessi trascinato come un peso morto, ahi, ahi... E dire che comunque ci siamo salvati! La tua ferita non ti fa soffrire troppo?».

Sert si era fabbricato un aggeggio rudimentale che, appoggiato sulla piaga, gli dava un po' di sollievo. Quindi rispose:

«Va bene. Ma sei tu che hai una faccia strana».

Rémy, molto pallido, con le narici strette, fece uno sforzo per sorridere: era scosso da brividi e gli fischiavano le orecchie. Ma fece lo spavaldo.

«Sono solido. Non ho paura di niente. Mi sono già trovato in situazioni difficili. Fa parte del mestiere. L'uomo che hai di fronte, cinque anni fa, volando da Tolosa a Dakar, è stato fatto prigioniero dai Mori. Sette giorni a dorso di cammello, vecchio mio, e niente da mettere sotto i denti. Ma ho resistito. Mi ero appena sposato e il pensiero di mia moglie mi dava coraggio... Anche qui. Ogni passo che facevo era per lei. Mia moglie... Vecchio mio, tu non puoi sapere. Per me è come il buon Dio».

Parlava a bassa voce e in fretta, con una voce strana, spezzata, sibilante.

«Stai male» gli disse Sert preoccupato.

«Figurati!».

Si allungò sulla stufa, si coprì le gambe con stracci sporchi trovati lì e chiuse gli occhi. Quando li aprì, dopo qualche istante, guardò con un'espressione di stupore la capanna immersa nelle tenebre, con l'eccezione del rossore della candela al centro del tavolo; il bambino gridava, i contadini seduti a tavola, accostavano alle scodelle i loro nasi animaleschi.

«Questa poi,» mormorò «credevo di essere a casa!».

«Hai sognato, vecchio mio».

«A casa mia. Abitiamo in rue Monge, io e Louise... Vedevo lei che preparava la tavola, serviva la bistecca e metteva i nostri due piatti sotto la lampada. Com'è dolce avere una donna per sé, solo per sé, non puoi capire... Sentivo anche Jip, il fox-terrier... Ma lo sento ancora» esclamò, tentando di sollevarsi.

«No, è il vento».

La tempesta urlava e gemeva; colpiva i muri con una forza spaventosa. In certi momenti, la fiamma della candela si allungava orizzontalmente e si udivano colpi sordi e profondi sul tetto. Sert tentò di far capire al contadino che voleva raggiungere al più presto una città, che desiderava una slitta per recarvisi, ma l'uomo si accontentò di scuotere la testa facendogli segno di ascoltare l'uragano.

«Forse siamo bloccati qui fino allo scioglimento della neve» pensò Sert.

Il suo compagno era certamente malato; adesso era molto rosso, tossiva, vaneggiava, invocava la moglie. Poi sembrava riprendersi, riconosceva Sert. A un tratto, con un accento di terribile nostalgia, disse:

«Buon Dio! Come si starebbe bene su un marciapiede della metropolitana!».

Un po' più tardi mormorò:

«Sai che cosa mi faceva tener duro? La paura che il mio corpo non venisse ritrovato. Volevo che fosse ben visibile. A causa del premio d'assicurazione, capisci? Se mancano le prove della morte, alla vedova fanno un sacco di storie... Tu non sei sposato? Allora non puoi capire. Non si vive più per sé stessi. Oh, voglio, voglio tornare a casa, guarire. Mia moglie è troppo giovane per rimanere vedova. Verrebbero altri a ronzarle intorno. E io non lo potrei sopportare. Uscirei dalla tomba per impedirlo. Mia moglie. La mia mogliettina. Dài, Sert, dammi da bere».

Delirò per tutta la notte. Sert lo curò come meglio poté. La contadina fece inghiottire al malato un brodo di erbe, e Sert si sentì tutto speranzoso: quella gente doveva conoscere ogni sorta di rimedi. Ma il brodo ebbe un pessimo effetto. Lo sventurato Rémy fu preso dal vomito e finì per rigettare sangue scuro. La contadina indicò a Sert il pavimento, facendogli capire che presto il suo amico sarebbe finito sotto terra. Sert si disperava, inveiva contro i suoi ospiti, applicava compresse fredde sul petto di Rémy, lo sosteneva, reclamava un medico, il console francese, droghe. La donna lo lasciava dire, sbadigliava con aria indifferente e dondolava con il piede la culla dove il bambino piangeva. Quando l'uragano si placò, cominciò a nevicare. La neve ricopriva i muri della capanna quasi fino al tetto; oscurava le finestre non lasciando entrare che una luce vaga e livida.

Rémy stava sempre peggio. Il quarto giorno, al crepuscolo, sembrò svegliarsi da un sogno. Chiamò Sert.

«Sono qui, non ti abbandono».

«Grazie,» disse flebilmente Rémy «mi conosci appena e per me sei come un fratello. Ascolta, io sto per schiattare. Quando potrai, andrai a trovare Louise. Povera cara, resterà sola e infelice... Non ha più una famiglia. Più nessuno. Le darai come ricordo tutte le bazzecole che ho su di me, una medaglietta che mamma mi aveva regalato, l'orologio... Saremo stati sposati per sei anni. Quanto l'ho amata... Ho vissuto solo per lei. Glielo dirai. Il mestiere che avevo nel sangue, e poi lei...».

Chiuse gli occhi, lasciò cadere la testa di lato; ciondolò da sinistra a destra; sulle labbra comparvero sangue e bava. Invocò ancora Louise e poi si mise a piangere. Le lacrime di quel moribondo toccarono Sert nel profondo del cuore. Esclamò:

«Tu guarirai, te lo giuro!».

Ma il suo compagno non lo sentiva più. Mormorò: «Louise...», sospirò: «Che peccato...» e morì.

[...]

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Pagina 259

La ladra



Qualcuno aveva rubato il denaro nell'armadio dove la proprietaria della tenuta l'aveva riposto il giorno prima: era il prezzo di quattro maiali, due biglietti da 1.000 franchi che avevano riposato tutta la notte sotto una pila di grandi lenzuola gialle.

«Ho contato i soldi io stessa ieri, prima di andare a letto, e li ho ricontati questa mattina» disse l'anziana donna ai gendarmi che erano venuti alla fattoria per l'inchiesta. «Signori è una vergogna. Ero uscita per occuparmi delle bestie. Dovevo mandare la ragazza in paese a prendere il pane. Torno a casa: apro l'armadio. Guardo ancora. Niente».

I gendarmi erano seduti nella sala, a Le Malaret. Le Malaret è un castello in rovina; era appartenuto ai baroni du Jeu che, non potendo più abitarvi né restaurarlo per mancanza di denaro, l'avevano affittato a dei mezzadri; questi mezzadri, arricchitisi, avevano riscattato il castello e le terre, ma non facevano nessuna riparazione, per avarizia o per negligenza. I pollai e le conigliere erano stati costruiti nel grande cortile d'onore. Gli animali bevevano l'acqua dello stagno, un tempo il più bello e il più pescoso del paese, e adesso riempito a metà di melma. Sul terrazzamento, dove i castagni erano stati tagliati, il bucato era steso ad asciugare. La gente di Le Malaret era poco socievole, diffidente; aveva un'aria fiera e selvatica. D'inverno stavano da sei a otto mesi senza vedere nessuno: Le Malaret era lontano dal borgo e circondato da foreste; nella cattiva stagione, le strade diventavano piste impraticabili. Le mura lasciavano piovere pietre e nei giorni di vento le tegole cadevano dal tetto. L'antica sala delle guardie era stata trasformata in cucina. Nelle altre stanze, i pavimenti cedevano, i vetri erano rotti; all'interno dei camini pendevano pelli di pecora. Non vi si accendeva mai il fuoco; erano così vaste che in poche notti avrebbero divorato la scorta di legna per l'inverno. Nella vecchia biblioteca si allevavano gli agnelli; le mele erano immagazzinate nella sala da musica. Accanto alla cucina si trovava una cameretta deliziosa con un'alcova dipinta e una finestra rotonda. L'alcova conteneva patate e un mazzo di cipolle incorniciava la finestra. Nel borgo, sebbene "quelli di Le Malaret" non fossero amati, li si lodava perché, nonostante la loro ricchezza, continuavano a vivere come contadini e non come borghesi. «Eppure, sono ricchi, stanno bene,» si diceva di loro con rispetto «ma per la vecchia un soldo è un soldo».

La vecchia era una donna piccola, magra, dispotica, che teneva testa ai gendarmi, tutta impettita, con le mani congiunte sul ventre. Aveva una terribile bocca rientrante, quasi senza labbra, con gli angoli all'ingiù e profondamente infossati. Era vedova; nella tenuta dettava legge, le si conosceva un'unica debolezza: adorava la nipote, una ragazzina di dodici anni, una figlia illegittima del suo figlio maggiore, morto in seguito a un incidente di caccia. La gente sapeva che prima di morire il ragazzo – aveva vent'anni – si era confidato con sua madre:

«Sono stato l'amante» le aveva detto «di Marguerite, la serva. Adesso lei aspetta un figlio mio. Giurami che lo crescerai».

La madre aveva promesso. Era nata Marcelle, una bambina. Un po' alla volta, l'anziana donna si era affezionata alla nipote al punto da adottarla e di farne la sua erede. Quanto a Marguerite, aveva preso un gioiello, una spilla d'oro che apparteneva alla padrona e l'avevano messa alla porta. Marcelle aveva pochi mesi. La serva, dopo aver lasciato la fattoria, si era sistemata a Parigi e poco tempo dopo era morta; non aveva mai reclamato la propria figlia. La nonna viziava Marcelle; le faceva dare lezioni di piano nel borgo e nei giorni di festa la vestiva di bianco; diceva che non l'avrebbe mandata a lavorare, ma che le avrebbe trovato un marito e le avrebbe lasciato la tenuta. Era una bella bambina, molto alta per la sua età, la migliore alunna della scuola. Ascoltava la conversazione tra sua nonna e i gendarmi. Indossava un grembiule nero e i suoi capelli neri erano raccolti in due trecce con un nodo blu alle estremità.

Accanto a lei stava una ragazza di diciotto anni, massiccia, rossa di capelli, con un grosso mento bianco che la rendeva paffuta come una mucca. Le sue braccia nude, fresche e rosee, coperte di peli dorati, brillavano al sole. Aveva appena dato da mangiare alle galline e il polso era ancora infilato nel manico di un secchio di metallo. Due giovani in tenuta da lavoro si tolsero gli zoccoli sulla soglia, entrarono e si avviarono verso la tavola senza dire una parola. Questi ragazzi e la loro sorella erano nipoti della vecchia che li aveva presi come domestici. Non impiegava estranei nella fattoria; la famiglia bastava per tutto. Soltanto per i grossi lavori si assumevano aiutanti, ma si era in marzo. La giornata era stata bella, soleggiata. Le bestie uscivano in campagna per la prima volta dopo la fine del lungo inverno; una marea di pecore passò tra le rovine della cappella e le rive dello stagno. L'aria risuonò dei loro belati, il cielo era di un tenero colore azzurro. I gendarmi avevano voglia di assopirsi, dopo essersi bevuti il loro bicchierino di acquavite, mentre intorno a loro si alzava il dolce rumore che produce il cortile di una fattoria in primavera: il mormorio della neve che si scioglie e scorre tra due pietre; il tubare dei piccioni sul tetto; i saltelli gioiosi dei puledri nel prato vicino e il coccodè ottuso del pollame felice che becchetta i semi, mentre una piuma arruffata bianca come la neve si alza appena e poi ricade. In giorni simili non c'è niente di meglio che restare seduti sulla sedia, accanto alla porta aperta, con la testa all'ombra e i piedi al sole senza pensare a niente, ma bisognava riprendere l'interrogatorio. I gendarmi si accesero le pipe e uno chiese:

«Allora, se capisco bene, signora, il mattino del furto in casa non c'era nessuno?».

«Io mi occupavo degli animali» disse la vecchia. «I due ragazzi riparavano le recinzioni. Mia nipote Cécile era con me e Marcelle si occupava degli agnelli. Alcuni hanno perso la madre e bisogna nutrirli con il biberon. È la piccola che se ne occupa».

«Lei teneva d'occhio tutti?».

«Lo faccio piuttosto spesso» disse la donna con un sorrisino.

«Quindi nessuno qui è sospettato?».

«Qui tutti appartengono alla famiglia e sono al di sopra di ogni sospetto» rispose squadrando il gendarme. «Non è per i miei che vi ho fatto venire, ma per quelli di fuori. Quella mattina c'era gente che si recava alla fiera, nel borgo. Qualche pastore è entrato in casa nostra, come a volte fanno, per chiedere da bere. Tra i pastori c'era il figlio di Bracelet appena uscito di prigione e Ladre che è un ubriacone e venderebbe la madre per un po' di vino. A mio parere, sono entrati in casa, hanno visto che era vuota, hanno fatto il colpo, sono usciti per parlarmi, mi hanno fermata nel cortile mentre uscivo dalla scuderia».

«È possibile» disse il gendarme pensieroso. «È subito dopo la loro partenza che si è accorta del furto?».

«Sì, li ho guardati che riguadagnavano la strada, poi mi sono ricordata che mancava il pane. Ho gridato a Marcelle di lasciare gli agnelli, di prendere la bicicletta. Sono tornata in casa per darle i soldi. Ho sollevato le lenzuola e ho visto».

«Ci faccia vedere l'armadio».

Preceduti dalla vecchia, i gendarmi si diressero verso la stanza vicina. La nonna e la nipote vi dormivano in due grandi letti che si fronteggiavano, coperti entrambi da una trapunta rosa e da una coperta fatta all'uncinetto. L'armadio era antico, profondo, molto bello; all'interno si vedevano pile di strofinacci, di federe e di lenzuola. Qua e là si trovavano un salvadanaio, un cofanetto di metallo, una borsa di cuoio, uno scrigno da gioielliere. Lì era custodito il denaro. Né banca, né Cassa di Risparmio per quelli di Le Malaret. Probabilmente, frugando di più, avrebbero potuto trovarvi dei luigi d'oro antecedenti il 1914, posate d'argento acquistate a Parigi all'Esposizione del 1900, gli anelli, le collane, le catenelle degli orologi di parecchie generazioni.

«Ma allora lei non chiudeva l'armadio a chiave?» chiese il gendarme alla donna.

Lei gli lanciò uno sguardo di disprezzo.

«Lei pensa che avrei lasciato tutta questa roba in vista? Chiudevo a chiave ogni volta e mettevo la chiave qui» disse indicando il cassetto di un tavolo. «Ben nascosta sotto il mio messale».

«Nessuno lo sapeva?».

«Lo sapeva la famiglia».

«Ma come avrebbe fatto un estraneo a sapere?...».

«Per me il figlio di Bracelet e il figlio di Ladre mi hanno spiata una volta che erano qui e che bevevano il mio vino in cucina. Mi avranno vista entrare in camera, cercare il denaro nell'armadio, richiuderlo e nascondere lì la chiave».

«Non hanno preso nient'altro?».

«Niente. Probabilmente non avranno fatto in tempo, vedendomi uscire dalla scuderia».

«Possibile» fece il gendarme scrollando la testa.

Guardò i muri imbiancati alla calce e ornati di un ritratto del papa, di un calendario a colori, di due fotografie incorniciate. Una ritraeva Marcelle il giorno della prima comunione, l'altra un giovane di vent'anni, suo padre. Sul monumentale camino c'era uno scudo scolpito nella pietra, lo stemma dei baroni du Jeu; un fringuello cantava in una gabbia appesa alla finestra.

«Vedremo il da farsi» dissero i gendarmi.

Mentre se ne stavano andando, la piccola Marcelle, che era rimasta in silenzio e tutta impettita al fianco della nonna, fece un passo in avanti.

«Signori, vorrei parlarvi. Non sono né il figlio di Bracelet né il figlio di Ladre che hanno preso il denaro. Sono stata io».

Aveva una vocina chiara e fredda. Il viso era impassibile.

«Tu?» esclamò il gendarme.

[...]

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