Copertina
Autore Irène Némirovsky
Titolo Un bambino prodigio
EdizioneGiuntina, Firenze, 2007 [1995], Schulim Vogelmann 54 , pag. 66, cop.fle., dim. 11,5x19,5x0,6 cm , Isbn 978-88-8057-018-9
OriginaleUn enfant prodige
EdizioneGallimard, Paris, 1992 [1927]
PrefazioneÉlisabeth Gille
TraduttoreVanna Lucattini Vogelmann
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe narrativa francese , narrativa ucraina
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Pagina 13

Ismaele Baruch era nato, in un giorno di marzo in cui nevicava molto forte, in una grande città di mare e di commerci nel sud della Russia, sulle rive del mar Nero. Suo padre abitava nel quartiere ebraico, non lontano dalla piazza del Mercato; vendeva abiti usati e ferro vecchio; portava ancora il caffettano consunto, le babbucce e i riccioli sulle orecchie, detti peies. La moglie l'aiutava nel commercio e faceva figli. Sui capelli, rasati secondo la Legge nel giorno del matrimonio, portava una parrucca nera, lanosa e riccia che le dava una vaga aria di negra dilavata dalle nevi e dalle piogge del nord. Era una lavoratrice, avara non più del necessario e di buona condotta; si ricordava di tempi più felici perché suo padre era stato ricco prima che gli bruciassero la casa in un giorno di pogrom, la domenica di Pasqua subito dopo l'assassinio dell'imperatore Alessandro II.

Dell'antica opulenza, alla madre di Ismaele non restavano che due cerchi d'oro alle orecchie: le erano più cari dei suoi stessi occhi; tintinnavano con un suono chiaro, sbarazzino, mentre andava e veniva con il suo vestito di tela sporco e gualcito, riordinando la bottega o lavando il pavimento il venerdì sera o quando tagliava le fettine di pane nero e di aglio che distribuiva a tutta la famiglia.

Questa ogni anno aumentava perché i bambini pullulavano nel quartiere ebraico. Crescevano nella strada, mendicavano, litigavano, ingiuriavano i passanti, si rotolavano seminudi nel fango, si nutrivano di bucce, rubavano, gettavano sassi ai cani, si picchiavano, riempivano la strada di un rumore infernale che non si smorzava mai.

I Baruch ne avevano avuti quattordici. Non appena erano un po' cresciuti, migravano verso il porto dove facevano i mestieri più strani: aiutavano gli scaricatori, i facchini, vendevano cocomeri rubati, chiedevano l'elemosina e prosperavano come i topi che correvano sulla spiaggia intorno alle vecchie barche.

A casa non tornavano quasi mai, ghermiti dalla città o dal mare; molti partivano sulle grandi navi dirette in Europa, cariche di cereali e di grano.

Ma la maggior parte moriva in tenera età; le malattie infantili imperversavano nel quartiere ebraico; spazzavano via i bambini a centinaia: i Baruch ne avevano persi così la metà. Il loro vicino, il falegname, accettava di inchiodare qualche asse a mo' di bara in cambio di un paio di pantaloni vecchi o di una pentola ammaccata. La madre piangeva un po', spogliava il corpicino e lo deponeva nella piccola cassetta nuova che profumava di resina di abete; Baruch la portava sotto il braccio fino al cimitero ebraico, triste recinto dove le tombe senza croci si stringevano una sull'altra e dove non spuntavano fiori. E presto un altro bambino nasceva al posto di quello che era morto, portava i suoi vestiti e occupava il suo angolo sul vecchio pagliericcio che serviva da letto a tutta la famiglia; poi cresceva e anche lui se ne andava.

Quando Ismaele ebbe dieci anni, rimase solo. Se ne accorse dalla sua porzione di pane e aglio che era diventata più grande e dal fatto che suo padre lo portò un giorno a casa del Rabbi che per un rublo al mese insegnava l'alfabeto ai ragazzi del quartiere; era una somma che Baruch non avrebbe potuto sottrarre alle sue magre risorse se avesse avuto altri figli o la speranza di averne, ma lui e sua moglie diventavano vecchi e Ismaele era il loro figlio più piccolo.

Ismaele imparò presto a leggere, a scrivere, a salmodiare le preghiere e a recitare a memoria i versetti della Bibbia.

A casa del Rabbi c'era caldo e, d'inverno, a Ismaele piaceva restare due ore rannicchiato al caldo della stufa mentre intorno a lui una ventina di vocine ripetevano instancabilmente una frase santa, monotona e lamentosa. Ma, quando gli si volle insegnare a contare, scappò e diventò un vagabondo del porto, come i suoi fratelli avevano fatto prima di lui.

La città era bruciata dal sole dell'estate e sferzata dai venti d'inverno; ma in primavera l'onda libera e selvaggia del mare era carica di tutti i profumi dell'Asia. Ismaele amava la città e il porto. Amava anche la piazza del Mercato, le mattine d'estate, con i suoi mucchi di pomodori, di peperoni, di meloni e le filze dorate di cipolle attorcigliate ai banchi; le venditrici aprivano il ventre rosso dei pesci; nei secchi di acqua salata marinavano le piccole mele verdi aspre con le quali le massaie facevano le marmellate. Ismaele raccoglieva tra i piedi dei passanti i bublik caduti o una manciata di ciliege mezzo schiacciate dai cavalli; le bucce di cocomero erano sparse ovunque; c'erano carri pieni di questi frutti pesanti e rotondi come lune verdi; li tagliavano e li vendevano a fette gustose, rosse e zuccherose; Ismaele non appena aveva un copeco in tasca ne comprava una e se ne andava per il resto del giorno a succhiarne la polpa rosa e friabile.

Nella piazza del Mercato uomini di tre razze diverse stavano gomito a gomito, senza mai mescolarsi; i russi, con le loro lunghe barbe sudice e gli occhi dolci nei volti semplici, scolpiti con due o tre colpi di scalpello come omini di legno bianco; pope con i lunghi capelli lisci come Cristo, contadini in casacca di cotone, mercanti in casacca di seta; e poi i tartari, con il capo avviluppato da un turbante, che non parlavano molto e si contentavano di offrire in silenzio ai clienti le loro bancherelle cariche di torrone, di rahat-lokum e di carta d'Armenia profumata d'incenso. Gli ebrei infine, vestiti con le loro palandrane unte, che saltellavano come uccellacci, trampolieri spennati che capivano tutto, sapevano tutto, vendevano di tutto e compravano ancora di più.

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Pagina 40

Tutte le mattine, alle otto, un domestico veniva a svegliare Ismaele che andava a cavallo dalle nove alle dieci, insieme alla principessa, prima della quotidiana lezione di grammatica russa. Un giorno, entrando nella camera da letto del ragazzo, Piotr vide il suo giovane signore seduto sul letto, la camicia scomposta, i capelli arruffati, gli occhi dilatati, lucidi, perduti in un visino febbricitante, sconvolto. Il domestico, preso dalla paura, gli chiese cosa avesse. Ismaele si mise a parlare come un folle, ridendo, con frasi incoerenti e spezzate; grandi brividi lo scuotevano tutto. Piotr andò a cercare la principessa. Ma Ismaele non riconosceva nessuno: delirava.

Quando venne, il medico diagnosticò una febbre cerebrale e, poiché conosceva la storia del piccolo poeta, non si poté trattenere dal borbottare tra i denti:

— Non mi meraviglia, del resto...

— Morirà? — domandò la principessa con angoscia.

— Certo — disse il dottore, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo.

Pensava che fosse impossibile salvare quel povero cervellino di bambino prodigio, spossato dalla forza stessa del suo genio, e la principessa non protestò. Pensava che questa morte precoce di Ismaele sarebbe stata bella, che avrebbe concluso degnamente la sua vita breve e singolare. Tuttavia facili e nobili che si versano leggendo una tragedia greca, dove il dolore è sereno come marmo antico.

Ma Ismaele non morì.

Per sei settimane delirò, consumato dalla febbre, si aggrappò ai bordi del letto e alle pieghe delle tende del baldacchino, gli occhi rovesciati, pieni di spavento, il sudore freddo della morte sulle tempie e sulle mani. La camera era tappezzata con una stoffa alla quale il tempo aveva dato i toni del verde e, così un po' sbiadita, somigliava a quei paesaggi sottomarini che si intravedono in fondo agli stagni; vi erano rappresentate scene di caccia, ma i personaggi avevano una vaga aria di mostri marini; nella stoffa rósa e scolorita dall'umidità si confondevano tutti in una stessa ombra indistinta verde e argento.

A Ismaele, terrorizzato, sembrava che lo chiudessero in un cerchio sempre più piccolo e che tentassero di soffocarlo. Altre volte gli sembravano cadaveri di annegati (ne aveva visti un tempo, al porto); gridava che lo portavano via, e accusava la principessa di abbandonarlo a loro. Poi cadeva in un sonno pesante e i domestici si segnavano e camminavano sulla punta dei piedi, come nelle case in cui c'è un morto.

I Baruch si sedevano uno di qua e uno di là dal letto e gemevano ad alta voce in yiddish. Questo bambino che moriva era la fine di tutti i loro sogni, la fine della loro conquistata prosperità. Così se lo disputavano con la morte, come una preda, con una sorta di durezza ostinata che faceva male a vedersi.

La primavera era comunque arrivata; nei giardini fiorivano i tigli, gli arbusti di siringa e i grappoli rosa delle acacie. Un ramo frondoso arrivava a toccare la finestra di Ismaele, come un dito, e il lillà profumava di un profumo troppo intenso; la polvere che cominciava a sollevarsi nelle strade della città era tutta dorata; e le venditrici prendevano posto nelle piazze, sui gradini delle scalinate, vicino ai pozzi, e vendevano fragole e bocci di rose. E improvvisamente, con la bella stagione, Ismaele guarì; smise di delirare, la febbre cessò; riconobbe i suoi genitori, il dottore, la principessa. In breve tempo fu in grado di alzarsi, cresciuto, esile, dimagrito, la pelle trasparente; senza più i suoi bei riccioli. Lo facevano distendere su una chaise longue davanti alla finestra aperta e passava le giornate a ritagliare con le forbici bizzarri disegni dalle foglie degli alberi.

La principessa partiva per l'estero, voleva portare Ismaele con sé, ma il dottore le disse:

– Questo ragazzino ha bisogno di calma. Il suo cervello sovraffaticato è saturo di sensazioni troppo forti... La campagna, il riposo... e soprattutto niente lavoro intellettuale. Altrimenti il suo genio e la sua salute se ne andranno e, poi, anche la vita...

La principessa possedeva a una giornata di cammino dalla città una fattoria lasciata in mano a un fattore; vi mandò il ragazzo. Ismaele non pianse quando lo separarono da lei, ma una immensa angoscia e un'espressione di terrore profondo e muto dilagarono nei suoi occhi; le sue mani contratte si aggrapparono così forte al suo vestito che ne strappò un pezzetto di stoffa. Lei scappò; lui restò a lungo immobile, a contemplare il pezzo di merletto che teneva fra le mani; poi lo gettò via con una sorta di rabbia e scoppiò in singhiozzi.

Partì la sera stessa.

Ismaele non conosceva la campagna. Quando vide le grandi steppe che cominciavano a ingiallire, le foreste profonde, i campi, le praterie, i pascoli, fu sconcertato, turbato; si sentì infelice e solo, infinitamente. L'aria troppo pura affaticava i suoi polmoni, il cielo luminoso gli faceva male agli occhi e il silenzio lo spaventava: gli mancavano, nonostante tutto, il clamore della città, il rumore dei drozki sull'acciottolato aguzzo, le grida delle venditrici, le canzoni dei vetturini, l'eterno e dolce rumore del mare.

La villa era chiusa. Ismaele abitava in casa del fattore, in un grande padiglione in fondo al parco; la sua camera era a pianterreno e gli alberi erano così vicini che c'era sempre molta ombra, come in un sottobosco.

All'inizio, stordito da tutta quell'aria, Ismaele restò tutto il giorno a letto, sonnecchiando, la testa vuota e il cuore sottosopra, come in alto mare; poi fu in grado di alzarsi, di scendere in giardino, di passeggiare per la campagna.

Si accostava alla natura con una sorta di diffidenza istintiva; lo feriva; non la trovava neppure bella; lui, il piccolo poeta che una viuzza in discesa, fangosa e scura, sotto la luce di un lampione vacillante nel vento del mattino, bastava a commuovere, non arrivava a cogliere la nobiltà, il fascino dei grandi boschi, dei campi immensi; le teneva il broncio, gliene voleva per il suo silenzio, per la sua tranquillità sorridente, per la calma con la quale avviluppava il suo cervello febbrile, per il torpore troppo dolce con cui lo legava.

Volle comporre nuove canzoni.

Prese un foglio di carta, una penna e se ne andò in un prato abbandonato coperto di pimpinelle e di avena selvatica. E là attese fiduciosamente il suo genio. Riconosceva bene il momento in cui stava per arrivare: il suo cervello diventava stranamente lucido, e i pensieri si disegnavano con una precisione allucinata, già tutti rivestiti di immagini, come scolpite e cesellate dalle mani di un misterioso orafo.

Ma ora, solamente una vaga e accidiosa sensazione di benessere riempiva la sua povera testa stanca; dall'erba alta saliva un ronzio continuo, confuso e dolce, proprio come una canzone dei bei tempi; gli uccelli tacevano; una piccola sorgente vicina gocciolava con fresco stillare.

E Ismaele, come un povero idiota, e con una tale felicità che il suo cuore sembrava si dilatasse per il piacere, ripeteva sussurrando due paroline, sempre le stesse: «È bello... è bello...». Da un ciuffo d'erba accanto a lui una farfalla bianca si librò zigzagando; Ismaele la seguì con gli occhi spalancati; la farfalla esitava, si posava sul petalo tremulo di un fiore; poi ripartiva in un volo ebbro, e le sue piccole ali palpitavano di una vibrazione continua che era come il ritmo stesso dell'estate, come un brivido, l'eco di una musica misteriosa che saliva dal profondo della terra. La farfalla volò verso Ismaele; allora il ragazzo gettò via il foglio di carta, la penna, e con il volto in fiamme, con un breve grido barbaro e primitivo si lanciò al suo inseguimento. E poi, da quel giorno, cessò di scrivere.

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