Autore Irène Némirovsky
Titolo Fuochi d'autunno
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2014 [1957], Asce 41 , pag. 220, cop.fle., dim. 13,5x19,5x1,3 cm , Isbn 978-88-359-9336-0
TraduttoreAngelo Pavia
LettoreAngela Razzini, 2014
Classe narrativa ucraina , narrativa russa












 

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Indice


     Prima Parte    (1912-1918)               7

     Seconda Parte  (1920-1936)              89

     Terza Parte    (1936-1941)             163
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Pagina 9

Sulla tavola, un mazzolino di violette fresche – una caraffa gialla a becco d'anatra che si apriva con un breve schiocco per lasciar fluire l'acqua – una saliera di vetro rosa decorata con l'iscrizione: RICORDO DELL'ESPOSIZIONE UNIVERSALE. 1900 (In dodici anni, le lettere erano sbiadite e si erano mezze cancellate). C'era un enorme pane dorato, del vino e il piatto principale: una favolosa fricassea di vitella, ogni tenero pezzo raccolto pudicamente sotto la salsa cremosa, i funghi freschi aromatizzati e le patate rosolate. Nessun antipasto, nulla per stuzzicare l'appetito: il cibo è una cosa seria. Dai Brun, si cominciava subito dalla portata principale; non si disdegnavano gli arrosti, la cui esecuzione, con le sue regole semplici e severe, si avvicina all'arte classica, ma la cuoca dedicava tutta la cura e l'amore necessari alla preparazione di qualche sapiente cottura a fuoco lento; dai Brun, era la suocera, la vecchia signora Pain, a cucinare.

I Brun erano piccoli redditieri parigini. Morta la moglie, era Adolphe Brun a sedere a capotavola e a fare le porzioni. Era ancora un bell'uomo; aveva un'ampia fronte calva, un piccolo naso all'insù, guance piene, lunghi baffi rossi che torceva e tirava tra le dita finché la punta affilata non gli entrava quasi nell'occhio. Davanti a lui la suocera, tonda, piccola, rubiconda, coronata da capelli bianchi e leggeri, volteggianti come la schiuma del mare, mostrava sorridendo i suoi denti integri e con un gesto della piccola mano paffuta respingeva i complimenti («Squisito... vi siete superata, mamma... è delizioso Signora Pain!»). Faceva allora una piccola smorfia fintamente modesta e, come una primadonna che finge di offrire al suo partner i fiori che le portano in scena, mormorava:

«Sì, oggi il macellaio mi ha trattata bene. Era un bel pezzo morbido di vitella».

Alla destra di Adolphe Brun sedevano gli invitati – i tre Jaquelain – alla sua sinistra, la figlia, la giovane Thérèse e il nipote Martial. Visto che Thérèse aveva compiuto quindici anni da pochi giorni, portava i ricci capelli raccolti in uno chignon, ma le ciocche setose non avevano ancora preso la piega che le forcine volevano dar loro e si arruffavano da ogni lato, cosa che la rendeva triste, malgrado i complimenti che il timido cugino Martial le faceva a voce bassa, facendosi tutto rosso:

«È molto bella, Thérèse, la vostra pettinatura... è come nebbia dorata».

«La piccola ha i miei capelli» disse Madame Pain che, benché avesse lasciato Nizza, dov'era nata, a sedici anni per sposare un mercante di nastri e velette stabilitosi a Parigi, aveva ancora l'accento del suo paese natale, dolce e sonoro come un canto. Aveva bellissimi occhi neri, dallo sguardo allegro. Il marito l'aveva rovinata; aveva perduto una figlia di vent'anni – la madre di Thérèse – e viveva a carico del genero; ma nulla aveva alterato il suo buon umore. Al momento del dolce, beveva volentieri un bicchierino di liquore dolce e canticchiava:

Joyeux tambourins, menez la danse...



I Brun e i loro invitati stavano in una sala da pranzo molto piccola e assolata. I mobili – un buffet Enrico II, sedie impagliate con schienale a colonnine, una chaise-longue foderata di stoffa scura, con fiori rosa su fondo nero, un pianoforte verticale – erano stipati al massimo in uno spazio ridotto. Le pareti abbellite da disegni, acquistati ai grandi magazzini del Louvre, che raffiguravano giovani fanciulle che giocavano con dei gattini, pastori napoletani (con tanto di vista del Vesuvio sullo sfondo), e da una copia dell' Abandonnée, opera struggente nella quale si vede una persona visibilmente incinta che piange su una panchina di marmo, in autunno, mentre un ussaro della Grande Armée si allontana tra le foglie morte.

I Brun vivevano nel cuore di un quartiere popoloso, vicino alla Gare de Lyon. I lunghi fischi nostalgici dei treni arrivavano fino a casa loro, carichi di un richiamo che essi non sentivano. Però erano sensibili alla vibrazione argentina, aerea, musicale che, in certe ore del giorno, sfuggiva al grande ponte metallico su cui passava il métro, quando, emergendo dalle profondità sotterranee, appariva per un istante sotto il cielo e si dileguava con sordo brontolare. Al suo passaggio, i vetri tremavano.

Sul balcone, cantavano canarini in gabbia, e in un'altra gabbia tubavano tortore. Da sotto saliva un rumore domenicale: tintinnare di bicchieri, di piatti, da ogni finestra, e dalla strada grida felici di bambini. La pietra grigia dei palazzi, bagnata di luce, sembrava rosa. Persino le finestre dell'appartamento di fronte, sporche e caliginose durante tutto l'inverno, da poco pulite, splendevano di una luce che sembrava acqua lustrale. Ecco l'antro dove il venditore di castagne si era tenuto al caldo sin dal mese di ottobre; lui, però, è scomparso e al suo posto è apparsa una ragazza con i capelli rossi che vende violette. Quell'antro buio è anch'esso invaso da un fumo biondo: il sole illuminava la polvere, la polvere di Parigi che nel tempo felice della primavera sembrava fatta di cipria e polline di fiori (finché non ci si accorse che puzzava di sterco).

Era una bella domenica. Martial Brun aveva portato il dolce, un dolce al caffè che fece brillare gli occhi al giovane Bernard Jacquelain. Tutti mangiarono il dolce in silenzio; si sentiva solo il clicchettio dei cucchiaini contro i piatti e il crocchiare, sotto i denti dei convitati, dei grani di caffè pieni di profumato liquore e nascosti nella crema. Poi, dopo un istante di raccoglimento, la conversazione riprese, placida e priva di passione come il brusio di un bollitore. Martial Brun, studente di medicina, era un giovane ventisettenne dal lungo naso aguzzo, dalla punta sempre un po' arrossata, con un collo lungo piegato comicamente da un lato come se stesse ascoltando un segreto, con begli occhi da cerbiatto, parlò degli esami che si avvicinavano.

A nostri uomini devono lavorare duramente» disse Blanche Jacquelain con un sospiro, e guardò suo figlio. Lo amava al punto che riportava tutto a lui; non poteva leggere che a Parigi era scoppiata un'epidemia di febbre tifoide senza immaginarselo malato, addirittura morto, né sentire la fanfara senza immaginarselo soldato. Fissò uno sguardo triste e profondo su Martial Brun, disegnando sui suoi lineamenti senza valore quelli di suo figlio, per lei così adorabili, pensando al giorno in cui sarebbe uscito da una scuola esclusiva, ricoperto di gloria.

Con un certo compiacimento, Martial parlò dei suoi studi, di nottate faticose. Era eccessivamente modesto, ma un dito di vino bastava a fargli venire immediatamente voglia di chiacchierare, di mettersi in valore. Mentre pontificava, si passava il dito nel colletto alto che gli dava fastidio e si pavoneggiava come un gallo, fin quando suonò il campanello della porta d'ingresso. Thérèse fece per alzarsi e andare ad aprire, ma il piccolo Bernard la precedette e tornò subito in compagnia di un giovanotto barbuto, piuttosto grassoccio, un amico di Martial, studente di diritto: Raymond Détang. Per vivacità, eloquenza, bella voce baritonale e facili conquiste femminili, Raymond Détang generava in Martial sentimenti d'invidia e malinconica ammirazione. Appena lo vide si zittì e, con un gesto nervoso, raccolse accanto al suo piatto le briciole sparse sulla tavola.

«Parlavamo dei vostri studi, giovanotti» disse Adolphe Brun. «Guarda cosa ti aspetta» aggiunse voltandosi verso Bernard.

Bernard non rispose, perché a quindici anni il mondo degli adulti lo intimidiva ancora. Portava ancora i pantaloni corti. («Ma è l'ultimo anno... Presto sarà troppo grande» diceva sua madre con una nota d'orgoglio e rimpianto.) Dopo quel buon pasto, le sue guance andavano a fuoco e la cravatta gli si torceva senza rimedio. La scuoteva energicamente gettando indietro i capelli ricci che gli cadevano sulla fronte.

Suo padre disse con voce cavernosa:

«Deve uscire dal Politecnico tra i primi. Ho fatto follie per la sua istruzione: i migliori istitutori e tutto il resto; ma lui sa quanto mi deve: deve uscire dal Politecnico tra i primi del suo corso. Dopo tutto è uno sgobbone. È il primo della sua classe».

Tutti guardarono Bernard; un fiotto d'orgoglio gli riempì il cuore. Era un sentimento di dolcezza quasi insostenibile. Diventò ancora più rosso e disse infine con la sua voce che stava cambiando, acuta e stridula a momenti, poi bassa e soave:

«Oh, questo... è cosa da nulla...».

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Pagina 28

Un ragazzo di diciassette anni – Bernard Jacquelain – con i vestiti corti e stretti, perché era cresciuto troppo in fretta, senza cappello, i capelli pettinati indietro, con i denti serrati, i pugni stretti per trattenere i singhiozzi che gli salivano in gola, seguiva per strada un reggimento in marcia. Era il 31 luglio 1914, a Parigi.

Ogni tanto Bernard gettava intorno a sé sguardi incuriositi, avidi, spaventati, come un ragazzino che viene portato a teatro per la prima volta. Che spettacolo, quella vigilia di guerra, perché c'erano solo rammolliti, stolti come Adolphe Brun, o dei... (farfugliò tra le labbra un insulto breve ed energico che aveva tutto il sapore della novità, visto che glielo avevano insegnato da poco, al liceo), dei... come Martial Brun ad affermare che non ci sarebbe stata la guerra, che all'ultimo momento i governi si sarebbero tirati indietro davanti alla responsabilità di un massacro europeo... «Non capiscono che in tutto ciò c'è qualcosa di sublime» pensava Bernard. «Sapere che una parola, un gesto scatenerà la guerra, un'avventura eroica, qualcosa come il trambusto di Napoleone, saperlo e tirarsi indietro! Bisognerebbe non avere sangue nelle vene». Per un istante immaginò di essere lo zar, il presidente della Repubblica, un grande condottiero. Fece un gesto e mormorò con gli occhi umidi di lacrime:

«Avanti! Per l'onore della bandiera!».

«Sì, ci sarà la guerra» pensò. «E io, io, Bernard Jacquelain, vivrò momenti eroici come ad Austerlitz e a Waterloo. Ai miei figli dirò: "Ah! Se aveste visto Parigi nel 1914!" Gli racconterò le grida, i fiori, le ovazioni, le lacrime!».

In realtà, non era affatto così. Le strade erano calme e le saracinesche dei negozi abbassate. Si vedevano passare vetture di piazza cariche di bagagli. Ma Bernard sapeva che c'erano state manifestazioni patriottiche quel mattino stesso, in diverse zone della capitale e, per il resto, si immaginava tutto, penetrava con il pensiero in quegli appartamenti invisibili, sondava cuore e ventre del popolo di Parigi:

«Ecco una donna che guarda i soldati e piange. Povera donna... Penserà a suo marito, a suo figlio... E quest'altra che li segue con occhi così tristi. Somiglia alla mamma... Cosa dirà, la mamma, quando saprà che voglio arruolarmi? "Anticipare la chiamata", come usa dire. Perché ormai ho deciso, non aspetterò la mia classe! Tutti pensano che tra tre mesi sarà tutto finito. E allora io cosa farò? Resterò al liceo ad affannarmi sui libri come un imbecille? A collezionare punizioni come un bambino quando c'è una cosa così grande, questa gloria, questo sangue, questa guerra! No, grazie! No, grazie! No, grazie! Voglio partire, e subito, lontano, e basta! Dio, che bel tempo, com'è caldo il sole! Com'è bella l'uniforme da soldato, i pantaloni rossi! E i cavalli! Cosa c'è di più bello di una bestia nervosa che scalpita, che morde il freno, che ha la schiuma alle froge? Voglio andare in cavalleria, essere un dragone, per via del casco. Oh, le ragazze mandano baci ai soldati! Come devono essere fieri. I soldati piacciono alle donne. Vorrei essere amato, ma non da una soltanto, da tante donne, che si disputano i miei favori, e io, apparirò tra loro con la mia bella uniforme e le guarderò... E in quello sguardo vedranno il loro padrone. Che bambinata! Le donne non m'interessano più. No! Nemmeno la servetta del quinto piano che mi fa gli occhi dolci per le scale. Voglio vivere per la polvere, la guerra e la gloria! Ecco un vecchio che di sicurò avrà fatto il '70; come deve essere commosso! Stia tranquillo, signore, ci sono qua io, il piccolo Bernard Jacquelain, e le assicuro che riporterò la Vittoria sotto la nostra bandiera! Oh, ho voglia di cantare, di gridare, di saltare! Dicano quello che vogliono, mi arruolerò, mi arruolerò, è deciso. Fra tre giorni avrò diciotto anni. A quanti anni ci si può arruolare? Che io vada al diavolo se non trovo il modo. Oh, la musica! Eccoli che suonano. Ecco le trombe, i tamburi... Dio, che bello! Avanzare al suono di questa musica e poi caricare! Sciabola sguainata! Baionetta in canna!».

L'emozione e la stanchezza gli tagliavano il respiro, perché aveva attraversato mezza Parigi a piedi. Dovette darsi un istante di tregua e appoggiarsi a un muro. Quei canti di guerra gli facevano correre brividi lungo la schiena, gli riempivano gli occhi di lacrime. Gli sembrò di essere scorticato vivo all'improvvisò, che tutti i suoi muscoli e tutti i suo nervi sanguinassero, esposti al fiato delle trombe, come se ogni nota fosse suonata su di lui, sulla sua stessa carne. Ogni colpo di tamburo gli martellava le ossa. «Ed è proprio così che deve essere» disse tra sé. «O almeno è così che sarà quando sarò soldato. Farò parte del reggimento come... come una goccia di sangue fa parte di tutto il fiume rosso che scorre nel mio cuore».

Si rialzò, fiero: rimase sull'attenti, ascoltando la fanfara che si allontanava. L'aria era ancora vibrante come la corda di un violino. Alle orecchie di Bernard, tutto cantava: il fiume, i vecchi ciottoli, i palazzi, la folla. Adesso la folla era densa; si accalcava attorno alle edicole. Alcuni uomini discutevano gesticolando e mulinando il bastone. Si sentiva: «Lo zar... il Kaiser...». I volti erano pallidi, tirati e preoccupati. Bernard li osservò sdegnato:

«I vecchi! Buoni solo a parlare. Io, io agisco, mi arruolo» disse a se stesso.

I gomiti contro il corpo, il mento alto, avanzando con passo atletico e immaginando di caricare dietro la bandiera spiegata, Bernard attraversò la strada, entrò in una pasticceria, comprò due dolci, li mangiò in piedi con aria truce, poi prese il métro per tornare a casa; voleva annunciare quella sera stessa la sua decisione alla famiglia. «La mamma piangerà, ma papà approverà. Lui è patriottico. Anche mamma, ma le donne sono deboli. L'essenziale è parlare da uomo. Dirò: "Papà, ti voglio bene e ti rispetto. Ti ho sempre obbedito. Ma stavolta a decidere è qualcuno più forte di te: è la Patria, papà, è la voce della Francia!"».

Si stava già lanciando per le scale quando la portiera lo fermò: i suoi genitori erano dai vicini, i Brun, e lo aspettavano lì.

«Meglio così» pensò Bernard con un brivido di piacere. «Glielo dirò davanti ai Brun... Li stupirò tutti...».

Gli piaceva soprattutto l'idea di stupire Thérèse. Da un po' di tempo, quasi non si accorgeva più di lui; era fidanzata... «Fidanzata!» mormorò alzando le spalle. «Una ragazza della mia età, tutti trovano normale che si sposi, che faccia una vita da donna, ecco... Mentre io, quando dirò che voglio arruolarmi, si metteranno a piagnucolare come vitelli. Ma, tanto, il fidanzato partirà. Il matrimonio è rimandato alle calende greche. Del resto me ne infischio proprio! Ah, le donne!...».

Era arrivato, sempre correndo, dai Brun; la chiave era sotto lo zerbino. Entrò. Vide i suoi genitori e Martial nella sala da pranzo. Sua madre lo guardò e disse a bassa voce, spaventata: «Cos'hai?».

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All'inizio di novembre, si svolse a Ginevra la prima assemblea ufficiale dei quarantuno Stati che formavano la Società delle Nazioni. In Francia, il gruppo politico e finanziario nel quale si era introdotto Raymond Détang, al ritorno dall'America, considerava quell'evento da un punto di vista che non somigliava in nulla a quello dell'uomo della strada — ovvero non si chiedeva se veramente la guerra sarebbe divenuta impossibile (la guerra era finita, una cosa sepolta, dimenticata), ma quali sarebbero state le ripercussioni sulle carriere dei possibili ministri e come ricavarne il massimo profitto in termini di denaro e di piacere. Come tutte le possibilità nuove e inesplorate, anche questa faceva paura a molti; anche nell'ambiente di Détang, non c'era accordo unanime sul modo con cui ci si sarebbe dovuti comportare nei riguardi della Società delle Nazioni: con ironia o con fervore? Come una panacea universale o come un palliativo? Tutto ciò turbava Renée Détang. Aveva deciso di celebrare l'apertura dei lavori, ma si chiedeva cosa sarebbe stato più opportuno: una cena durante la quale esprimere opinioni serie — e questa poteva essere forse la base del salotto politico che voleva creare – o un ricevimento nel quale, tra un cocktail e l'altro, ci si sarebbe scambiati opinioni leggere, spiritose, lievemente pungenti sui fatti del giorno (e lei, allora, avrebbe detto, con quella smorfia deliziosa che le stava così bene: «Volete smetterla? Io dico che è una grande speranza che sorge sul mondo!»). D'altra parte, il ricevimento permetteva di riunire gente diversa e i Détang erano ancora nella posizione di poter scegliere le proprie frequentazioni. «Tutto fa brodo» come diceva Madame Humbert. Molto rumore, molto champagne, una gran folla, e l'inevitabile ciarpame, ma, nel mucchio, forse, come le pagliuzze d'oro che il cercatore trova nella sabbia, uno, due, dieci buoni acquisti, personaggi influenti alla Camera o in Borsa.

«Raymond dà del tu a tutti quelli che contano davvero» confidava Renée a sua madre: «qualcosa a metà strada tra la familiarità dei compagni di scuola e quella dei carcerati, metà cameratismo, metà complicità; bisogna trasformare tutto ciò in relazioni. È tutta un'altra cosa».

All'inizio, i Détang avevano preparato con cura quella che chiamavano «la loro guerra di conquista»; contavano di farsi strada nella società parigina a piccoli passi prudenti e facendo cadere gli ostacoli uno dopo l'altro, ma, dopo qualche mese, avevano capito che questa tecnica era inutile e imbarazzante: si entrava in società come in un mulino o, più precisamente, non c'era società, c'era un vasto campo da fiera nel quale penetrava chiunque volesse; non era necessario nemmeno nascondere le proprie origini come ai bei vecchi tempi: era un mondo cinico che glorificava il limo da cui proveniva. Era l'epoca in cui se si chiedeva a un nuovo ricco come aveva guadagnato «tutti quei soldi», questi avrebbe risposto: «Ma con la guerra... come tutti». Raymond Détang, tuttavia, non era cinico. In politica, il cinismo è incauto, l'elettore vuole essere trattato come un animale nobile. Raymond Détang era uno di quelli che sapeva usare le parole con grande abilità: «Civiltà fondata sul diritto e sulla ragione... La Francia, fiaccola dell'umanità... La pace universale... La Scienza e il Progresso...». Non era cinico nemmeno nei riguardi di se stesso, tranne in rari momenti di depressione. Lui si vedeva davvero nei panni di uno statista importante che vive solo per il bene pubblico. A quell'epoca, non era ancora deputato, stava organizzando la sua campagna elettorale con uno zelo infinito: doveva essere un capolavoro. Guadagnava bene e il denaro, in quel periodo, non era ancora diventato quella bestia feroce e capricciosa degli anni '30, quando non si riusciva ad afferrarla se non attraverso un corpo a corpo pericoloso, ma era un animaletto addomesticato che si lasciava prendere facilmente. Détang giocava in borsa. Inoltre, dato che certi suoi agganci politici erano noti, alcuni gruppi stranieri gli affidavano quelle che lui chiamava «manovre di avvicinamento» – conversazioni preliminari che avrebbero facilitato accordi economici o d'altro tipo.

Negli Stati Uniti, aveva stretto amicizie serie e vantaggiose con alcuni grandi uomini d'affari. Aveva fatto da intermediario in alcune commesse fatte dallo Stato francese in America per la ricostruzione delle regioni distrutte. Ma, come diceva lui, era ormai troppo grande per quel mestiere. C'era tutta una tipologia di transazioni che gli sarebbe stata proibita quando avrebbe ottenuto il mandato, «quantomeno proibita a nome tuo», rispondeva Renée. Marito e moglie s'intendevano bene; si spalleggiavano reciprocamente. A momenti, Raymond si sentiva ancora innamorato di sua moglie. Renée era una di quelle parigine che, più che di carne e ossa, sembravano fatte di una materia plastica malleabile, che esse trasformano a seconda delle mode.

Quando Raymond l'aveva conosciuta, Renée aveva un bel musetto arricciato e una frangia sugli occhi, era minuta, formosa e dolce come una gatta. Adesso, era la prima a lanciare il modello femminile del dopoguerra. Era dimagrita; aveva muscoli lunghi e tonici; sembrava più alta. La pelle era scura, coperta da un fard soffice e dorato, e i suoi capelli chiari, pettinati alla maschietta. Tutte queste cose erano allora all'ultimissima moda.

Fu così, vestita con un abito corto smanicato, mostrando le braccia nude, le sue belle gambe, ma con la bocca già segnata da sottili rughe amare, che apparve a Bernard Jacquelain. Non la vedeva dalla fine della guerra. Tornato civile, era di ritorno a Parigi, a casa della madre. Il vecchio Monsieur Jacquelain si era lasciato trasportare dalla follia di spendere che impazzava all'epoca; alcuni compravano automobili, viaggiavano, mantenevano amanti: Monsieur Jacquelain, invece, dopo calcoli complessi e segreti, decise di farsi operare. Ci pensava da dieci anni, ma esitava di fronte alla spesa. Tutti si abbandonavano ai piaceri, Madame Jacquelain aveva pagato cinquantanove franchi un cappello di feltro, i piccoli commercianti avevano case di campagna dove passavano il «vikend», come amavano dire. Perché non io?, si disse Monsieur Jacquelain guardando con astio un paio di scarpe nuove che Bernard (senza avvisarlo) si era fatto fare su misura. Era una cosa senza precedenti in una famiglia nella quale le donne si vestivano alle Galéries Lafayette e gli uomini alla Belle Jardinière. Sì, perché non io? Si risparmia, si rinuncia, si mette da parte per dei figli che dilapideranno i nostri soldi dopo la nostra morte. Nemmeno io rinuncerò più a niente, pensò. Prenotò la sua camera in una clinica di Neully senza dirlo a nessuno. Sessanta franchi per la stanza. Diecimila franchi per l'operazione. Gli aprirono la pancia, e morì.

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Spremette vigorosamente uno spicchio di limone sulla sogliola dorata che gli avevano portato; ne estrasse tutto il succo e lo gettò via:

«Dunque, cosa posso offrirti? Tra i miei amici ci sono banchieri importanti. Puoi avere un lavoro da ottocento franchi al mese per iniziare. Storci il naso? Be', il problema è sempre quello. Troppi uomini, e ogni personalità influente è circondata da un nugolo di clienti, come venivano chiamati al tempo degli antichi Romani, e a ognuno bisogna gettare un osso. Perciò, lo capisci anche tu, la carcassa è rosicchiata».

Sorrise amabilmente:

«Segretario di un uomo politico? Bisogna conoscere i segreti del mestiere. Un mestiere sporco, detto tra noi. Quindi meglio lanciarsi sulle vecchie carriere classiche: medico, ingegnere, avvotato. Eri un secchione una volta. Riprendi gli studi. Sono sicuro che la cosa non ti spaventa. Solo, che è difficile restare fuori da questa pioggia d'oro, non è vero? Perché la pioggia passerà e, dirai tu a ragione, c'è un tempo per ogni cosa e avere ventidue anni all'indomani dell'armistizio e non approfittarne, non è certo una gran fortuna».

«Sono sicuro» disse Bernard «che se volesse aiutarmi...».

Esitò:

«Mi permetto di disturbarla (toh – pensò – gli do di nuovo del lei: la guerra è finita, ho lasciato l'esercito per gli abiti civili, e ritrovo quel senso di distanza e di deferenza che si deve a un uomo ricco e influente), se mi sono permesso di chiederle un appuntamento è perché ho pensato che lei avesse un interesse per me, e Madame Détang, che ho interrogato a tal proposito, mi ha garantito che non mi sbagliavo, che lei le aveva parlato di me con simpatia».

«Mia moglie ti trova molto gentile. Insomma, ti conosco da quand'eri bambino. Devo ammettere che nella situazione in cui mi trovo e vista la baraonda incredibile che è diventato ormai a Parigi un certo ambiente, ci si aggrappa a quelli che si conoscono».

La loro conversazione era inframezzata dall'andirivieni dei camerieri, da telefonate, da tutti quelli che, passando, venivano a salutarlo; conosceva il mondo intero. Faceva il baciamano alle donne e poi toccava con modi affettuosi le dita guantate che aveva appena portato alle labbra, come se, di tutte, fosse stato il più intimo amico. E invece, della maggior parte ignorava anche il nome. Nonostante tutte quelle interruzioni, non perdeva mai il filo del ragionamento né del discorso. La folla era il suo elemento naturale; non respirava bene se non in mezzo a una fitta ressa, proprio come il luccio che non si sente a suo agio se non nelle acque di uno stagno.

«Avevo pensato di farti lavorare con me, non per il lato politico della mia esistenza. Per quello ho già qualcuno. No. Ecco. Ho due obiettivi in contemporanea. Devo dirti che durante quel mio primo viaggio in America, viaggio che, da allora, è stato seguito da molti altri, e da incontri con tutti quelli che contano laggiù, mi sono ritrovato nella posizione di poter fare degli ottimi affari. Ho rapporti con un grande magnate dell'industria americana, un tipo alla Ford, che mi ha offerto di fare in qualche sorta il suo rappresentante in Francia, di piazzare qui alcuni suoi prodotti; fabbricano tutto ciò che riguarda la meccanica, l'automobile, l'aviazione. Insomma, solo con questo avrei reso alla Francia incalcolabili servigi. Ma le cose non sono mai così semplici. L'americano si rivolge a me non per i miei begli occhi, certo che no, ma perché, come uomo politico, sono a conoscenza di cose di governo. Potrei anche farne parte, di questo governo, un giorno o l'altro. Ma, se voglio rimanere quello che sono ed evitare gli scandali, mi devo guardare, come dal fuoco, dal non far trapelare, almeno in via ufficiale, le mie relazioni con la finanza di un paese straniero. Ho dei nemici. Chi non ne ha? Spero di averne ancora di più. La grandezza di un uomo si misura dal numero dei suoi nemici. Quindi, i miei nemici griderebbero ai quattro venti che sono un venduto, che faccio parte della finanza americana, che il mio valore di uomo politico si sia accresciuto proprio perché sono un uomo d'affari (perché un senso acuto della realtà, una visione delle cose pronta e sicura, sono prerogative dell'uomo d'affari), e, che faccia beneficiare il mio paese del vantaggio che l'industria americana ha su di noi, poco cambierebbe. Mi vedrebbero unicamente come un affarista, assoggettato alla finanza internazionale, proprio a me che sono un uomo che ha una sola idea in testa, che vuole solo che la grandezza e la prosperità della Francia risplendano! Ho dunque pensato che avrei dovuto trovare qualcuno che, per uno stipendio fisso da contrattare e una percentuale interessante, possa farmi da prestanome. Se devo piazzare in Francia dei caricatori per mitragliatrici o degli aratri di ultimo modello o dei ricambi per automobili... faccio solo degli esempi. So a chi bisogna rivolgersi, come negoziare, quali mazzette far girare, ma non mi muovo, non mi faccio vedere. Il mio nome non viene pronunciato, non firmo nulla. Resto nell'ombra. Ma non pensare che tali transizioni facciano ombra all'industria del mio paese, perché i prodotti francesi possono essere inseriti nel mercato americano allo stesso modo. Lo vedi quale immenso campo d'azione ci si apre davanti? Vedi gli scambi fecondi, i molteplici rapporti d'interesse che tesseremo in tal modo tra le nostre due Repubbliche? Vuoi che ti dica cosa penso davvero? Sai che sono un fervente sostenitore della Società delle Nazioni. Resti tra noi, ho contribuito non poco a far germogliare nell'animo dei popoli quell'idea incredibile, quella grande speranza. Ma, vedi, non è ancora questo che farà regnare la pace tra gli uomini. La pace è nelle mani del commercio e dell'industria. Sogno una statua eretta un giorno, in una piazza di Parigi, che stia a simboleggiare quello che voglio dire: il Commercio e l'Industria, figure allegoriche, vestite all'antica, ritte in piedi, con le mani intrecciate e una colomba con un ramoscello d'ulivo nel becco, che spicchi il volo da quelle mani e venga a posarsi sul globo terrestre. Non è bellissimo? Dài, dillo che è bello! Alla tua età si deve essere entusiasti. Ascolta, pensa a quello che ti ho detto. Per il momento non potrò darti molto...».

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