Copertina
Autore Irène Némirovsky
Titolo La preda
EdizioneAdelphi, Milano, 2012, Biblioteca 597 , pag. 214, cop.fle., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-459-2722-5
OriginaleLa Proie
EdizioneAlbin Michel, Paris, 1938
TraduttoreLaura Frausin Guarino
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa francese , narrativa ucraina
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«Dove sta andando?».

«Cosa vuoi che ne sappia?... Con noi si comporta come un estraneo...».

La famiglia era riunita in salotto, una stanza di passaggio, con quattro porte sempre aperte, dalla quale si poteva tener d'occhio tutto quello che succedeva in casa. Le donne trattennero il fiato per cogliere il passo di Jean-Luc, ma lui era già lontano.

Laurent Daguerne mormorò:

«È libero...».

Era esattamente la reazione che sua moglie si aspettava da lui: con ogni probabilità avrebbe voluto chiamare il figlio, dirgli con quel risolino timido che qualche volta gli sfuggiva e sembrava burlarsi dei propri sentimenti: «Vieni qua... Non ci sei mai...». Ma aveva trattenuto le parole sulle labbra, soffocato un sospiro a malapena percettibile e, lasciando andar via Jean-Luc senza dir niente, si era rimesso a leggere. Adesso sembrava quasi felice. Era uno di quegli uomini che si sentono a proprio agio solo nell'astrazione, nella meditazione, nelle speculazioni intellettuali; la lettura gli procurava quello che ad altri dà l'alcol: l'oblio della vita.

Il villino dei Daguerne sorgeva nella parte settentrionale di Le Vésinet. Era una domenica sera, e sulla statale scorreva il flusso continuo delle automobili. Non lontano dal giardino c'era un incrocio; passando davanti al cancello le piccole cilindrate emettevano un cigolio straziante, quel lamento dei freni che sembra un grido d'angoscia. Ma, a quell'ora, stavano diventando più rare. La casa avrebbe riposato fino all'indomani in un profondo silenzio. Pioveva; grosse gocce impazienti martellavano il tetto.

Laurent Daguerne alzò il libro per catturare sulla pagina il parco chiarore di un piccolo lampadario a tre luci. Il salotto era una stanza fredda e scomoda, ingombra di mobili da giardino che all'approssimarsi dell'autunno venivano riposti lì. Contro il muro erano allineate alcune sedie di vimini mezzo sfondate dall'uso, accanto a un gioco di croquet dalle palle scolorite e dagli archetti arrugginiti. La casa era circondata da un giardino privo di fiori e di grazia; vecchi abeti neri, irti e robusti, spingevano i loro rami contro le finestre, e un lampione acceso sopra la scalinata esterna illuminava vagamente sia gli alberi sia l'urna di gesso al centro del prato, colma di acqua piovana e foglie marcescenti.

Quel villino di mattoni gialli dall'aria tetra, solida, brutta, sobria, indistruttibile propria degli edifici d'anteguerra, era stato costruito da Laurent Daguerne in occasione del suo primo matrimonio. Ma la moglie era morta molto presto, e adesso lui abitava con un'altra donna in quella casa dove Louise si era spenta... Da parecchi anni, da quando era malato e i suoi proventi di architetto si erano drasticamente ridotti, tutta la famiglia viveva lì, estate e inverno. Nelle sere di novembre come quella, Parigi sembrava così lontana... I Daguerne non avevano la macchina...

Mathilde Daguerne cuciva, la testa china sul lavoro; i severi bandeau, in gioventù di un nero d'ebano, compatto e quasi blu, erano striati di bianco. Ogni tanto smetteva di cucire, sospirava, guardava fisso davanti a sé aggrottando le sopracciglia, e le sue labbra sottili e serrate si schiudevano, formulando delle cifre. Disse a bassa voce:

«Dodici franchi e settantacinque... Dodici e otto... proprio quello che pensavo... Più di venti franchi...».

Aveva un naso grande, dritto e sottile, occhi tristi, profondamente infossati. Né fard né cipria avevano mai sfiorato la sua pelle, secca di natura, come sprovvista di nutrimento. I lineamenti non erano privi di bellezza, ma precocemente sfioriti. Di corporatura era alta e armoniosa, molto ben fatta, e c'era una strana dissonanza tra quel volto appassito e le splendide forme.

Il giorno del matrimonio aveva fatto un regalo a Jean-Luc, il figliastro, che allora aveva otto anni. Jean-Luc, spinto dal padre, l'aveva baciata per ringraziarla, poi, di lì a poco, vuoi per distrazione vuoi per timidezza, le aveva di nuovo offerto la fronte, e lei, indietreggiando un po':

«Ma me l'hai già dato un bacio, Jean-Luc...».

Appena pronunciate quelle parole e visto lo sguardo del bambino, aveva pensato:

«Cos'ho mai detto?... Sono impazzita?...», ma il fatto è che le uscite aspre, i rimproveri, era come se una forza ignota glieli strappasse di bocca, e sì che lei era tutta scrupoli, buona volontà, sforzo vano e disperato d'amore. Anche quella sera pensava:

«È difficile tirar su il figlio di un'altra».

Adesso Jean-Luc aveva ventitré anni. Il triste giorno in cui il povero Laurent sarebbe passato a miglior vita, la famiglia avrebbe potuto contare solo sul suo appoggio.

Laurent Daguerne soffriva di una malattia renale contratta durante la prigionia in Germania; da più di due anni, dopo l'ultimo intervento chirurgico, aveva visto sfumare ogni possibilità di rimettersi in salute. Era un uomo di bassa statura, gracile, dal colorito livido e lo sguardo stanco, profondo, come volto all'interno e indifferente alle cose del mondo, che rivelava l'uomo colpito a morte.

Ben presto, ahimè, il capofamiglia sarebbe stato Jean-Luc, il protettore naturale del fratello più giovane e della sorellastra (da un precedente matrimonio Mathilde aveva avuto una bambina, che Laurent Daguerne aveva adottato). Ma che cosa avrebbe fatto Jean-Luc per loro?

Mathilde pensò:

«Ha il cuore arido».

Alzò l'ago verso la luce, disse a voce alta:

«Stanotte non rientrerà».

«Gliel'hai chiesto?».

«Non mi arrischio a fargli domande, mostra chiaramente di non gradire. Io, però, certe cose le capisco al volo».

Laurent, turbato, protestò sottovoce, perché non sopportava che la moglie criticasse Jean-Luc, sia a parole che nel segreto del cuore:

«Sono certo che rientrerà, invece».

«Ma sì, caro... Non agitarti» disse lei con un profondo sospiro.

Laurent si rimproverava già di aver pensato al figlio con troppo affetto. Suo malgrado, dentro di sé lo distingueva dagli altri, da José e dalla piccola Claudine, che non era del suo sangue e che lui si sforzava di amare. Allungò verso di loro la mano fredda, sempre percorsa da un tremito quasi impercettibile, accarezzò i capelli arruffati di José, la fronte di Claudine:

«E allora, bambini?».

Non risposero: la voce dei genitori li raggiungeva solo di rado; Claudine aveva sedici anni e José dodici; a quell'età, un muro invisibile circonda il corpo e isola i sensi dal resto del mondo. A volte, un ordine dato dalla madre, con il tono aspro, stridulo che la sua voce conferiva a certe parole, arrivava alle loro orecchie, e allora trasalivano come strappati da un sogno, ma Laurent Daguerne aveva per loro la consistenza di un'ombra.

Claudine, una piccola donna grassoccia già pienamente sviluppata, dai capelli neri, le rosee guance paffute, l'aria dura, fredda, solida, introversa, cuciva un capo di biancheria, e si gingillava, si guardava intorno svogliata, lasciava cadere il lavoro tra le ginocchia e giocherellava con il braccialetto d'argento che portava al polso. José le era seduto accanto, a testa china; girava febbrilmente le pagine di un libro; i capelli gli ricadevano sull'ampia fronte, sui begli occhi, e lui, senza interrompere la lettura, li ricacciava indietro con uno scatto brusco del capo, poi conficcava i pollici nelle orecchie e le unghie nelle guance; la sua pelle, ancora morbida e delicata come quella di una fanciulla, si arrossava e si chiazzava tutta sotto la pressione delle dita. Assomigliava a Jean-Luc, pensava Laurent, ma era ben curato, roseo, felice... Jean-Luc non era mai stato così... Orfano di madre sin dalla prima infanzia, rinchiuso in collegio all'età di otto anni, era sempre stato pallido e magro, trincerato dietro quella apparente freddezza, quella sfiducia in se stesso che un'educazione impartita unicamente da uomini e in mezzo a uomini dà ai ragazzi. Laurent ripensò ai lineamenti affilati del suo primogenito, ai suoi occhi stretti e scintillanti, alla bella bocca che sembrava sigillata, contratta da uno sforzo di volontà. La sua voce era dolce, ma le frasi con cui si esprimeva erano brevi e taglienti. Laurent pensava a lui con tristezza, nostalgia, spavento... «Quando la vita volge al termine,» rifletteva «si prova per un figlio lo stesso sentimento che per una donna amata. Gli impulsi più semplici di Jean-Luc mi appaiono misteriosi. Dov'è adesso? Con una donna? Quale donna? Una donna è riuscita a piacergli? Con un amico?... Mi ricordo che alla sua età qualsiasi ragazzo, anche il più stupido, il più rozzo, lo sentivo più vicino e più importante di mio padre. Quante ore sperperate con degli imbecilli, e quanto sprezzo, quanta noncuranza per colui che di lì a poco sarebbe morto, come morirò io. Quale pesante, amaro bagaglio di esperienza potrebbe ricevere Jean-Luc dalle mie labbra, ma neppure ci pensa... Che cosa sono io per lui? Che cosa posso dargli? Niente, proprio niente. Da due anni non sono neppure in grado di pagargli gli studi, neppure di garantirgli il pane. Che cosa fa? Come vive? Lui non lo dice, e io ho paura a chiederlo... Ho paura di scoprire che è infelice, che manca del necessario, paura di saperlo, perché come potrei aiutarlo? Libero? Lo è, certo... Che altro potrei dargli se non questa miserevole libertà? È assennato, più maturo della sua età. Ma è felice? La libertà ha valore solo se sospirata, desiderata ardentemente, ma così, offerta in regalo, ha altri nomi: abbandono, solitudine...».

Ma che cosa poteva fare? Dopo l'ultima operazione non lavorava più. Viveva delle misere rendite che ancora gli restavano, quelle poche che il fisco e la svalutazione gli avevano lasciato. Ne stava riscuotendo le ultime cedole. Alla sua morte, alla famiglia sarebbe rimasta l'assicurazione sulla vita stipulata a suo tempo e il villino di Le Vésinet, invendibile, perché era la fine del 1932 e iniziava una crisi economica senza precedenti. Il futuro di Jean- Luc si prospettava tutt'altro che roseo...

Chiuse piano gli occhi per rivedere meglio, mentalmente, il caro volto del figlio. Sarebbe tornato?... Dal sabato al lunedì, Jean-Luc restava a Le Vésinet, ma gli altri giorni della settimana abitava a Parigi. Quella sera, la stanza era ancora impregnata della sua presenza. Aveva lasciato sul tavolo alcuni libri e, sul bracciolo della poltrona, l'orologio dal cinturino di pelle troppo stretto che lui slacciava di continuo perché gli feriva il polso e poi dimenticava lì. Mathilde vide lo sguardo del marito fermarsi sull'orologio; si alzò, lo prese e lo chiuse in un cassetto. L'odore delle sigarette fumate da Jean-Luc stava ormai svanendo; restavano solo le molli esalazioni di pioggia, di autunno, di terra bagnata che salivano dal giardino. E i lamentosi miagolii dei gatti nel buio. Laurent pensò che non doveva più abbandonarsi a quegli eterni pensieri, quei pensieri amari... L'angoscia del domani, la preoccupazione per il pane quotidiano, per il futuro dei propri cari... Qual era, di quei tempi, l'uomo così fortunato da non doversi misurare con simili problemi? Lui, Laurent, era come tanti altri... Quel cruccio affliggeva migliaia di padri... Sospirò, guardò con tenerezza le pagine del suo libro, un volumetto inglese dalla copertina logora. Gli amati poeti elisabettiani lo avrebbero consolato, ammesso che qualcosa potesse ancora consolarlo. Lesse:

    My soul, like to a ship in a black storm,
    is driven, I know not whither...

«La mia anima, come una nave nella burrasca, è trascinata verso ignoti abissi...».

Levò lo sguardo, fissò malinconicamente gli abeti impregnati di nebbia e la livida luce che li illuminava cadendo su di loro e sulla facciata della casa. Malato, vecchio, come poteva contemplare quei neri alberi immobili e respirare l'odore della terra d'autunno senza rabbrividire?...

Chiese:

«Claudine, mia cara, puoi chiudere le imposte?... E tirare le tende?... Ho freddo».

«Claudine, hai sentito quello che ha detto tuo padre?» fece la signora Daguerne.

Claudine si alzò e accostò le tende.

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4



Un anno dopo, in quello stesso vecchio Ludo, nella sala al pianterreno, fra i tavoli da biliardo e quelli dei giocatori di scacchi, Jean-Luc aspettava una telefonata di Edith.

Erano quasi le otto di sera, e lui se ne stava lì ad aspettare da mezza giornata. Fuori, un tetro autunno, e nessun posto dove andare... Come era stanco delle strade di Parigi, dove brigava fin dall'alba cercando di piazzare modelli di aspirapolvere, stagno da saldatura per apparecchi radio e scatole di saponette rilevate sottocosto dai profumieri falliti... Perché era questo l'unico e precario lavoro di cui viveva. Niente – né i diplomi prestigiosi, né il coraggio, né l'impegno –, niente gli aveva procurato quel minimo di sicurezza che si augurava, niente aveva soddisfatto la più modesta delle sue ambizioni. Così come si dice delle ragazze americane: «Beauty is cheap...», ugualmente, in Europa, in quell'autunno del 1933, l'intelligenza veniva venduta a salari da fame.

Jean-Luc era solo: Dourdan doveva raggiungerlo più tardi. L'amico aveva trovato un posto a ottocento franchi al mese presso un grossista di ferro e metalli, e per tutto il giorno controllava e caricava camion di merci da esportare. A volte cenava al Ludo con un sandwich al prosciutto e un caffè nero corretto.

Nell'aria soffocante aleggiava un fumo denso, misto a polvere e gesso; di fronte a Jean-Luc ardeva la luce gialla della lampada a gas. Il cozzo delle palle da biliardo e dei pezzi degli scacchi creava un baccano sordo e quasi inebriante, se lo si ascoltava così, semiaddormentato dalla stanchezza.

Jean-Luc era seduto in un angolo, con le braccia incrociate sul petto, gli occhi chiusi. Quando suonava il telefono, un flebile trillo a malapena percettibile nel chiasso del locale, sollevava di scatto le palpebre e si chinava in avanti tendendo le orecchie. Ma sulla porta della cabina faceva capolino il cameriere, Ernest, che gridava: «Il signor Marcel è desiderato al telefono», o «il signor Georges», o un altro nome che non era il suo, che non era mai il suo... Jean-Luc disincrociò lentamente le braccia, cinse le ginocchia con le due mani allacciate con forza fino a placare il battito del cuore, fissando la fiamma del lume attraverso il fumo. Era magro, pallido, mal rasato, con i capelli troppo lunghi, e aveva addosso un brutto maglione dalle maniche rattoppate. Intorno a lui sedevano altri ragazzi, tutti simili a lui, come se il cibo scadente, la mancanza d'aria e di luce avessero plasmato quei volti e quei corpi appena usciti dall'adolescenza così da farne, invece che individui distinti, una sorta di agglomerato, composto non tanto di esseri umani quanto di numeri, di unità buone per le caserme, gli uffici o gli ospedali. Erano tutti pettinati allo stesso modo, con i capelli lisci, piatti e ravviati all'indietro; indossavano maglioni di lana o vecchi impermeabili. Avevano il petto striminzito, il collo fragile chiuso da colletti inamidati troppo bassi; ogni loro movimento era concitato e febbrile. Gli asiatici, che erano numerosi, sembravano appena un po' più gialli degli altri; la cattiva illuminazione dava a tutti i volti un colorito scuro e itterico. Non c'erano donne.

Quelli che non giocavano a carte o a scacchi parlavano di politica, come Jean-Luc aveva fatto prima di loro... E lui sapeva che cosa si nascondeva sotto quelle parole, quali sogni nutrivano quei ragazzi nei quali le avversità materiali dell'esistenza non risvegliavano la disperazione, ma un'ambizione sorda, appena confessata a se stessi nel segreto dei loro cuori. Con quale allegria sotterravano il vecchio mondo! Se moriva, se crollava da ogni parte, come si proclamava in giro, non c'erano forse lì loro, i giovani, a raccoglierne i pezzi?... Per quindici anni, quelli che erano venuti prima avevano obbedito a un solo padrone, il denaro. Adesso, per quei ragazzi, il padrone era il potere. Eccola, la parola chiave che non pronunciavano mai, che era tabù, ma che circolava nonostante tutto, che traspariva nei loro giudizi fulminei e severi, nel disprezzo feroce che riservavano all'intero universo, in quella passione per la politica, la sola forma di attività umana che potesse emozionarli. E come non sognare?... Cos'altro offriva ai giovani il mondo di quegli anni?... Non c'era lavoro, non c'erano ambizioni, ancorché modeste, realizzabili, tutto era immobile. Restava solo questo... La crudele e fredda passione di far carriera, camuffata con ogni sorta di nomi e di etichette ideologiche.

«E io?» pensò Jean-Luc.

Il mondo che lui, come tutti loro, aveva sognato di dominare non gli era mai parso tanto inaccessibile. Vi stava entrando dalla porta di servizio, quella della povertà, dell'abbandono, dell'amore tradito. Si sentiva così solo... Rifletté:

«Julien Sorel poteva ancora contare su una parte della società. Ma noi?... A cosa appigliarsi oggi?... Tutto scricchiola. Neppure il denaro è sicuro. Intorno a noi, niente. Nessun appiglio».

Affondò i denti nel labbro inferiore per soffocare un sospiro sconsolato. Prese il bicchiere di acquavite che il cameriere gli aveva portato, lo bevve, poi, piegato in avanti, cincischiando tra le dita il pacchetto di sigarette vuoto, si rimise ad aspettare.

Quando mancavano pochi minuti alle nove si alzò di scatto, percorse la sala da biliardo e si avvicinò alla cabina del telefono; attraverso la porta gli arrivò una voce maschile giovanissima, quasi da adolescente, che ripeteva con tono assonnato:

«Ma se ti dico che ceno da mio padre!... Su, Nini, sii ragionevole! Se ti dico che in questo momento sono da papà!...».

Jean-Luc si appoggiò al muro, originariamente imbiancato a calce ma ormai tutto sporco e coperto di scritte e di cifre. Finalmente la porta della cabina si aprì; ne uscì un ragazzo sui vent'anni, il volto acceso dall'alcol, una stecca da biliardo sotto il braccio, che sorrise a Jean-Luc. Lo conosceva:

«Come va, Daguerne?».

Senza rispondere, Jean-Luc entrò a sua volta nel bugigattolo soffocante dove aveva passato ore della sua vita. Non ce la faceva a staccare quel ricevitore, a sentirsi dire un'altra volta:

«Chi la desidera? La signorina è uscita».

Le pareti erano coperte fino a mezza altezza da nomi di donne e schizzi di corpi o di volti; la cabina era impregnata di un odore di fumo freddo che faceva rivoltare lo stomaco.

Jean-Luc staccò piano il ricevitore, lo accarezzò un istante con la mano, compose il numero. Rispose Édith; sentendo la sua voce, Jean-Luc fu preso da un tale accesso di collera che il suono delle sue stesse parole, rauche e sorde, lo riempì di stupore:

«Sei tu... Perché non mi hai chiamato?».

Édith sussurrò:

«Non posso parlare adesso...».

«Senti, Édith!... Rispondimi solo con un sì o con un no, se vuoi, ma esigo una risposta! Un ragazzo che ti conosce mi ha detto che sei fidanzata, che la data del fidanzamento ufficiale è stata annunciata, che è fissata per il 25 novembre. Da una settimana non ti vedo, non mi telefoni, non mi scrivi. Voglio... Preferisco sapere. Ma rispondi!...» gridò con rabbia.

Tacque: Édith aveva riattaccato senza rispondere.

Jean-Luc, fuori di sé, tirò un pugno contro l'apparecchio; ricompose invano il numero; si passò lentamente la mano sul viso:

«Troia,» mormorò a denti stretti «gliela farò pagare, giuro...».

Rimase lì per qualche secondo, con lo sguardo fisso su un sedere di donna disegnato sulla porta. Il cuore gli batteva all'impazzata. Finalmente aprì la porta, lanciò all'indirizzo della cassiera: «Una telefonata», e tornò in sala.

Al suo tavolo trovò seduto Dourdan. Jean-Luc spostò l'impermeabile che l'amico aveva posato sul sedile. Dourdan mormorò:

«È malata?».

«Cosa?... No».

Restarono in silenzio. La loro amicizia era pudica, ancora governata dalle regole dell'infanzia: non recriminare, non lagnarsi, parlare il meno possibile dei propri guai, dei propri errori. Del piccolo collegiale pallido, dalle ginocchia ossute e ruvide che Jean-Luc aveva conosciuto a dodici anni, Dourdan aveva conservato l'aspetto fine, riservato, la grazia, i polsi sottili, gli occhi scuri: faceva uno sforzo per posare lo sguardo sul suo interlocutore – come se in un attimo lo valutasse –, poi subito lo distoglieva.

Jean-Luc spinse verso di lui ciò che restava del prosciutto:

«To', prendi. Vuoi bere?».

«Sì, fino a ubriacarmi. Ho passato la giornata alla gare du Nord a trasportare rottami di ferro».

«Per ottocento franchi al mese fai il trasportatore, adesso?».

«Per il momento».

«Hai scritto a tuo zio?».

Dourdan apparteneva a una famiglia di industriali lorenesi; suo padre era stato ucciso nel '17. Un consiglio di famiglia aveva gestito la piccola cristalleria, fondata da un Dourdan nel 1830, che Serge avrebbe ereditato una volta maggiorenne. Quel consiglio di famiglia era costituito dagli uomini più saggi e più integri che papà Dourdan avesse trovato per affidar loro gli interessi di suo figlio prima della partenza per il fronte. E questi avevano amministrato l'impresa con buon senso, prudenza e rettitudine, con il risultato di non farla approfittare dell'ondata di prosperità e di condannarla fin dal 1928 a una progressiva decadenza e al totale fallimento sin nei primi mesi della crisi.

Dourdan si portò alle labbra il bicchiere di acquavite:

«Mio zio?... Sì, e mi ha anche risposto. Sta' a sentire, è da morire dal ridere. Ha una piccola filanda nei Vosgi. Il genere d'impresa senza lustro ma di tutto riposo. Chiaro il concetto?... Dal 15 di questo mese la fabbrica è in liquidazione giudiziaria. Le due figlie di mio zio, di quarantadue e quarantacinque anni, aggiungono un postscriptum alla lettera, chiedendomi di trovar loro un posto, un lavoro qualsiasi a Parigi. Non è da morire dal ridere?».

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Terminata la cena, Jean-Luc usciva nel giardino deserto. L'estate, quell'anno, era pura e ardente, senza un alito di vento, senza una nuvola. Sopra il fiume, verso sera, il cielo formava un fascio di fiamme. Jean-Luc camminava adagio, perso in pensieri cupi. Nonostante i suoi sforzi, non riusciva a trovare lavoro. Più di una volta aveva sospettato che il suocero non fosse estraneo ai suoi continui insuccessi. Sarlat avrebbe tollerato Jean-Luc fino alla nascita del bambino, ma bisognava che al più presto Édith trovasse impossibile quell'esistenza. Grazie alla casa di Le Vésinet, libera fino al mese di ottobre, potevano passare l'estate abbastanza tranquilli, ma in autunno?... Che cosa avrebbe fatto? Avrebbe continuato ad accettare il denaro di Sarlat, l'elemosina allungata a denti stretti fino al giorno in cui Édith avesse chiesto il divorzio? Lei era già pentita di averlo sposato, ma si trovava ancora in quella fase del matrimonio in cui una donna si vergogna di mostrarsi infelice, e la sua prima preoccupazione è di «salvare le apparenze». Che cosa avrebbe fatto, lui? Come sarebbe vissuto?... Mai avrebbe creduto possibile l'essere tenuto così in disparte, in un modo così occhiuto, così implacabile!... Per tutti quegli uomini che formavano il codazzo abituale di suo suocero lui era solo un ragazzino insignificante. I loro sguardi lo sfioravano appena. Mai uno di loro gli rivolgeva la parola se non per vaghe formule di cortesia, e lui stesso, ancora timido, si sentiva troppo fuori posto in mezzo a loro per recitare in maniera convincente la parte del legittimo erede.

Camminava a passi lenti sotto le finestre. Guardava gli uomini che si muovevano dietro i vetri illuminati come un innamorato deluso spia l'ombra delle donne che non può possedere. Sapeva che solo allora cominciavano a parlare seriamente di affari, di soldi, di tangenti, tutte cose dalle quali lui era escluso. Intuiva che là dentro si stringevano accordi, si stipulavano trattative, qualcosa di grosso, di sostanzioso, di serio e di quasi minaccioso che lui subodorava pur essendone all'oscuro. Essere giovane, sapere di possedere l'ardore, il desiderio, la volontà, un'intelligenza pronta, lucida e... nessun potere! A quegli uomini sarebbe bastata una parola per soddisfare le sue ambizioni, la sua sete di felicità, e invece lo ignoravano, si circondavano di fantocci senza cervello e senza senso dell'onore, come quel Cottu che Calixte-Langon si portava sempre dietro, e altri della stessa specie. Pur non sapendo niente di quel mondo in cui aveva voluto a tutti i costi entrare, Jean-Luc aveva capito che era quello della facilità, delle porte che si aprivano senza sforzo, senza rumore, ma non per lui!... Tutti loro sentivano che Sarlat lo odiava, e mai avrebbero mosso un dito in suo favore!... Tutti, in un modo o nell'altro, erano debitori nei confronti di Sarlat: lo temevano. Eppure, intorno a lui, Jean-Luc vedeva la manna cadere su teste diverse dalla sua. Ogni giorno sentiva dire:

«Su, fate qualcosa per il Tale... Non è granché, ma è un così caro ragazzo...».

Oppure:

«Provvedi per un'onorificenza a Durand».

«Ma è una canaglia».

«Sì, ma è amico di...».

Tutto si mercanteggiava nel segno dell'amicizia, della fiducia, dei favori dati e ricevuti, e così facilmente... Con una parola, un sorriso, un'alzata di spalle, degli imbecilli venivano portati alle stelle, dei ladri perdonati e uomini senza virtù né intelligenza forniti di laute prebende. Nel vedere quella pioggia di onori e ricchezze che si rovesciava ciecamente su altri, Jean-Luc provava una rabbia, una tristezza senza pari, un sentimento struggente di spoliazione. Era spaventoso accorgersi che mentre tutti progredivano lui restava immobile, nonostante i terribili, e vani, sforzi. Gli sembrava che la sua vita fosse ormai definitivamente perduta. Non c'era supplizio paragonabile al presentimento della sconfitta. La sconfitta dichiarata, l'avrebbe anche accettata con coraggio. La certezza di essere una nullità lo avrebbe calmato. E invece no, restava la dolorosa speranza che fossero gli altri a essere in torto, che la coscienza che aveva di sé non potesse essere sbagliata. E tuttavia il tempo passava, la sua giovinezza passava e lui non aveva niente!... Aveva ottenuto solo vitto e alloggio, e una donna che non amava più. Dietro la finestra della loro camera vide la lampada di Édith accendersi, poi spegnersi. Sua moglie dormiva. Lentamente salì a raggiungerla.

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