Copertina
Autore Valerio Neri
Titolo Anna e il Meccanico
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, Romanzi e racconti , pag. 472, cop.ril.sov., dim. 140x220x38 mm , Isbn 978-88-317-8559-4
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

1.



Era la domenica in Albis del 1943, quando uscii su piazza della Pigna, tra la gente che andava alla funzione. Mi ero appena lavorato la nuca della signora D'Ascenzio, di cui ero pigionante alla Pensione Impero.

Si era raccolta i capelli trattenendoli con la mano sinistra a dita divaricate e scoperta la cervice chiarissima, a stento peluta di castano sulle pendici occipitali, aveva poggiato la fronte alla parete, attendendo ritta, in positura dorsale, che la mordessi sui tendini del muscolo trapezio.

I miei denti erano come coltelli, mentre il coppino dell'affittaletti risultava burroso, assai impressionabile. Le procurai un'estesa rugosità della pelle, a bordoni d'oca e una zigrinatura rilevata, di disegno incerto.

Non sapevo se c'era davvero un'irrequietudine diffusa nella materia, una specie di brivido irriflesso, che al tatto si scatenava nell'intrinseco della signora; ma i materiali mandavano segnali dal profondo, quasi fossero animati e a volte anche improvvisi rifiuti: che l'angolo di spoglio non gli andava, che truciolavano malamente. E per un perito industriale di ventotto anni come me, nella fattispecie Lucatti Bruno specializzato in meccanica, non era facile trattenersi dall'inchiesta.

I corpi risultavano misteriosi, impenetrabili e se pure riuscivo con la punta a saetta a sfondarli di un foro passante, non per questo ci capivo dentro. Era la materia stessa a farci superficiali, a noi periti macchinisti, non concedendoci l'ingresso. Il profondo rimaneva inarrivabile, e dava segni di sé sulla scorza delle cose: difettosità, vizi, ostinatezze che andavano aggirate con la perizia del mio mestiere; dovevo leggerne i materiogrammi per azzardare qualche contromossa, come in una partita con l'aldilà.

Così anche nel caso della signora D'Ascenzio che, patita l'orripilazione elettrica della schiena, aveva avventato il calcagno sinistro contro la loggia anteriore della mia gamba, ripiegandolo di scatto. «Non l'ho fatto apposta; perdonatemi» aveva detto, aggiungendo che era stata una reazione improvvisa, sgorgatale dal profondo.

«Dove ce l'avete cotesto profondo?»

«Qua» e nell'occasione si toccò i processi spinosi della colonna vertebrale; quando, in altre circostanze, aveva indicato regioni differenti; sicché compresi che per la signora D'Ascenzio il profondo si spostava di continuo, per coincidere comunque con il punto del corpo in cui, di volta in volta, provava piacere. E quel punto, noi, lo si chiamava "il goditoio".


Bicicletta alla mano m'inoltrai nella piazza, tra capannelli di vecchi e di comari che discettavano sugli ultimi bombardamenti e che, non essendo del quartiere, mi calibrarono maligni, dacché ero biondo e potevo risultare tedesco. Poi la foggia del vestito con la "cimice" al bavero e lo sguardo italiano confortarono i malfidati su che genere di ariano io fossi.

Mi trovavo ancora in tasca la lettera di mia madre Maddalena, che temeva per la sorte della nonna di cui non si era saputo più nulla, dopo il bombardamento di Pisa; ma quel giorno i casi tragici, che occorrevano a tutti e pure ai miei, non mi aggriffavano affatto. Dovevo recarmi infatti a un pranzo di borsa nera dal commendator Cerini, nel cui laboratorio aeronautico lavoravo da mobilitato civile, per consegnargli il disegno definitivo della mia invenzione: il Supporto Rotante a Supporti Intercambiabili.

Alla lettera della mamma non intendevo rispondere se non l'indomani e con una cartolina postale, rassicurante solo la mia esistenza: «Persisto» le avrei scritto, «smerigliato e bisunto. Il tuo Bruno». Ribobolino più che impreciso insensato, quale tutto l'idiotismo dei sentimenti; lingua di madre, droga di figlio, ideata in apparenza per sottilizzare sulla sua emozione, in realtà rete per la mia; una lingua arpione su bimbo pesce, una lingua tedesca dal suono italiano.

D'altra parte ero l'unico figlio di mia madre, che fantasticava di noi vergando pagine e pagine di lettere nebbiose, vibranti di desiderio, che mi s'incollavano ai vestiti come spiriti invasivi su aspiranti indemoniati. Sicché le rispondevo in meccanico, per ripulire con la benzina della mia parlata il lubricatoio di Maddalena: il lardo di cui avvolgeva corpi e fatti, la cuffia amniotica in cui carcerava l'uso corretto di ogni cosa.

Pedalavo veloce sulla bicicletta, attraverso ponte Garibaldi, quando un fischio duro e modulato mi s'infilò nelle orecchie, centrandone le membrane vibratili; senza darmi però l'impressione di udirlo un granché. Erano i muscoli stapedi che cercavano di smorzare quel segnale sonoro, perché non fosse subito inteso dal mio governo cerebrale. Intanto la scarica nervosa aveva eccitato il verme del cervelletto e già volgevo il cranio biondo a Mario Carra, che quello non s'era nemmeno cavato l'ok delle dita salsicciose dalla bocca, nello zufolo alla pecorara lanciatomi appresso.

Mi faceva gran segno di fermarmi, e anche i flessori delle mani resistevano ad addurre le falangi in pugno, sulle leve dei freni. Li forzai comunque a contrarsi e sentii che mi fermavo con fatica, nell'inattesa resistenza di tutto il mio organismo muscolare.

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Passarono giorni come denti, fabbricati con un unico garbo, di addendum spiritoso e dedendum cupo, infossato nel passo profondo del mio io, tutto callo.

Vidi gli ingranaggi, tagliati dalle grandi dentatrici Reinecker, addentare, come le mie giornate di viaggio, nei risalti della ruota che girava il mio destino di meccanico in quello evolvente e reciproco di Anna, rimasta a Roma. E sebbene alla Saimp piacesse la mia invenzione e Leandro ben figurasse tra gli ingegneri cispadani e i tecnici alemanni; nondimeno, non ci fu modo di tenere la mia capoccia bionda sulle cose che mi dicevano e sulle offerte per il posdomani. Le vie nervose, che da ogni area sensoriale del cervello correvano agli avamposti delle sensazioni, avevano retratto ogni attenzione dalle vociferazioni degli interlocutori, ai quali, pertanto, dovetti sembrare un perito ebete, rintronato dai gridi delle molatrici e dai raschi degli stozzi, quando invece lo ero soltanto dal ricordo della voce di Anna, che risuonava in me, come eco nelle stanze di una casa vuota.

«Hanno telefonato da Roma» ci aveva informato la padrona della pensione, appena arrivati a Padova.

«Per chi?» domandò Cerini spaventato.

La donna cercò nel cassetto un foglio scritto dal figlio, gli occhiali per leggerlo e la pazienza per decifrarlo storpiando il mio nome: «Lucarri?»

«Per me?» e pensai fosse morta mia madre Maddalena.

«Chi ha chiamato?»

La padrona non sapeva: non era registrato sul foglietto; avrebbe interrogato il figliolo più tardi, al suo rientro. E il telefono squillò di nuovo.

«Sì? Lucatti? Eccolo qui, lo passo.» Mi prefigurai la voce roca, accentata di toscano, del dottor Taddei di Chiusi, curante della mamma.

«Siete arrivato bene? Non vi hanno bombardato? Pronto, mi sentite?»

«Sì sì, sento.»

«Be', allora parlate.»

«... Mi state telefonando, Anna?»

«Mariavergine! Avete la cornetta del telefono in mano e io parlo dall'altra parte del filo, dunque sì, credo proprio che vi sto telefonando. Non avete mai ricevuto una telefonata in vita vostra?»

«Sì certo; è la sorpresa di sentirvi.»

«Ero preoccupata per voi e anche mamma, che è qui vicino a me; anzi aspettate che ve la passo, così vi saluta... Ah no: ha detto di no. Peccato.»

Leandro mi guardava come un padre il cui figlio stesse disinnescando una bomba. Quanta gente s'interessava di me e di Anna: eravamo una coppia pubblica ancora prima di esserlo in privato. E lei mi telefonava per farmi parlare con la madre, mentre Cerini m'incoraggiava con il gioco dei sopraccigli e forse Luciano D'Ascenzio, nello stesso momento, stava indagando su di noi, per riferirne a Italia.

«Dunque vi aspetto tornate presto...» mi disse in un tono recitativo, per terminare secondo la parodia del fidanzamento; non certo recitata per me, piuttosto per Angiolina, alla quale era stata dedicata la telefonata intera.

«Anna» la bloccai, «abbiate la cortesia di dire a vostra madre che vi ho invitata al cinema per quando tornerò e che mi mancate molto e che vi spedirò una cartolina appassionata da quassù.»

Dal ricevitore, dietro il flebile brusio elettrico del silenzio, mi parve di udirla respirare, e poi sorridere incerta. Chiusi gli occhi godendomi l'impressione di averla vicino.

«Va bene, glielo dirò... Ciao Bruno.»

«Ciao Anna.»


— «Andiamo al cinema?» mi aveva proposto Carlo, mercoledì 3 marzo, quando sulla via del ritorno mia madre ci avrebbe infine scoperti. Sì, risposi con gioia: ero sempre felice di uscire insieme, quasi fossimo una coppia normale, con lui vestito in borghese. E cosa andiamo a vedere? Mi raccontò di un nuovo regista italiano, assistente di Renoir, di cui era appena uscito un film, intitolato Ossessione. Cominciava con la lunga inquadratura della strada, presa dall'abitacolo di un camion in corsa, e si capiva pian piano che era un camion, che si fermava a fare la nafta, che aveva il rimorchio, che nel rimorchio c'era un clandestino, che oltre la strada c'era un'aia di una grande cascina e che questa si trovava nella campagna aperta, dentro una pianura sconfinata.

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Sapevo disegnare apparecchi di moto oscillante il cui centro geometrico rimaneva remoto dal disegno. Figure simili a quella abbozzata con Anna. Il pennino di china raspava la quadrettatura del foglio generando i perni B e A, visti dalla prospettiva di un punto che però, rispetto al piano, si trovava più o meno nella fossa del mio ombelico. E come i perni disegnati nulla sapevano della ragione del loro essere, che si fissava nella mia centricità di disegnatore, così io, pezzo di quel mondo del '43, nulla sapevo della ragione che stava articolando la mia esistenza di Bruno in quella di Anna. Ero solo un Io callo, concrezione di abitudini sociali, ponte fra me e gli altri. E più la figura che stavo disegnando si faceva accurata, più una rabbia animale mi forzava la pelle, perché, per l'emozione che mi stringeva ad Anna, volevo tenermi fuori proprio da quell'Io di risulta – un Io non mio – da far saltare in aria con una bomba angloamericana, come in aria saltavano le città d'Italia, le teste dei nostri soldati, la nostra epoca consumata e arsa dalla guerra interminabile. Ed era ancora il mio Io, calloso figlio di Alfredo, ad avermi imposto di scegliere la via che mi stava allontanando da Anna e da me stesso.

Sicché, quando Leandro Cerini cercò di correggere il mio disegno, sostenendo che l'angolo fra le due barre dovesse essere meno acuto: gli presi il polso con la mano e lo pregai di non toccare né il perno B né il suo angolo figlio. Proclamò che la proiezione era errata, che andava rifatta; gli spiegai che lui non sapeva disegnare e che proprio per questo mi aveva assunto, dunque mi lasciasse fare. Protestò che avevo disegnato poeticamente, mentre quella era meccanica, perdio, precisione assiomatica. Ah ah risi; la sua matematica se la poteva spingere su per le colonne rettali del pelosissimo culo, risposi. Pertanto accorsero gli uomini in tuta a sorreggere il capo rubinoso dell'ex legionario che, brandendo il pennino intinto nella china, desiderava infiggermi l'occhio celeste con l'ago nero. Strepitava che mi avrebbe licenziato, che avrei conosciuto la guerra, che lui mi aveva avvertito per tempo, ma che avevo la spina morbida e bastava una gonnella a farmi dilombare.

Fu di giovedì 1° luglio quando persi il lavoro. Con la bicicletta alla mano, la lobbia sulle ventitré e la cicca in bocca risalii il viale del Re, fermandomi solo un attimo per controllare la scadenza del mio permesso di Fabbriguerra. E visto che avevo ancora tre mesi di copertura decisi che per il momento non volevo preoccuparmene.

A casa dovetti informare Italia, insospettita dall'ora inconsueta del mio rientro, che ero stato licenziato e lei ne parlò a Luciano perché intercedesse per me con Cerini. Luciano invece venne a farmi la predica e mancò poco che lo scaraventassi giù dalle scale di casa sua. Feci le valigie e uscii sulla piazza per andare alla Pensione Milite, oltre il Pantheon. Italia m'inseguì e insieme al sor Cesare, dell'osteria in piazza, insistettero perché rientrassi e decidessi con maggior freddezza, nei giorni appresso, cosa fare della mia vita. Accettai considerando che se desideravano tenersi accanto il mio Io, lui, alla faccia del maresciallo D'Ascenzio, si sarebbe potuto scopare di nuovo Italia, appena lo avesse riaccompagnato in camera. Italia resistette alle sue pressioni manesche e allora l'Io, disarticolato dalla mia intimità, rivolta solo ad Anna, le promise che l'avrebbe ingravidata, avesse ancora voluto. Lei diagnosticò che era ubriaco, che le faceva paura e che doveva calmarsi.

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Pagina 287

23.



Osservavo Gesuè disegnare le nostre persone in macchie di colore: io ero una patacca blu e Concetta un sole rosa, gigante ma sgonfio, dai raggi cascanti, come rivoli di materia fusa che andava a impiastricciare la base del foglio. Stavamo nel salotto d'Italia, felice di essere riuscita a riunire presso di sé il figlio con la madre, ora che il fascismo era caduto e risultava un po' meno compromettente ospitare la sorella di un sovversivo.

Suonarono alla porta; pensai che fosse Anna. Luciano andò ad aprire: erano tre uomini che chiedevano di me. Udii il maresciallo accoglierli in casa vociando complimenti e saluti, quasi fossero suoi commilitoni. Infine si precipitò da noi, in salotto: «Punto, linea linea, punto; ancora tre linee eppoi punto linea punto punto...» mi disse sgranando gli occhi, gesticolando con le mani. Io capivo benissimo l'alfabeto Morse, però non avevo seguito alcun addestramento speciale alla fonazione sincopata dei segni da parte di un maresciallo esagitato e che forse desiderava solo evitare lo spavento della moglie e degli ospiti in sala; sicché fu costretto dalla deficienza della mia ricezione a sputarla direttamente in lingua la parola "polizia". Nel vuoto capannone della mia calotta cranica, dove stazionava una tenebra fradicia di ansia, rimbombarono ancora due o tre fenomeni di eco: "Polizia, polizia"; accenti striduli e femminili sopra il basso continuo del D'Ascenzio. E quando infine le braccia delle donne mi alzarono a viva forza dai cuscinoni d'oca del sofà, sospingendomi nel corridoio della pensione, presso gli agenti in borghese che mi attendevano con la lobbia alla mano, vibravo ormai di un lungo bemolle di tetro timore.

Mi chiesero le generalità; controllarono il permesso del Fabbriguerra e da ultimo domandarono se conoscessi Salvatore Aiello. Concetta sbiancò in viso come l'avessero intinta nella varechina; risposi che l'avevo conosciuto in un commissariato, dove ero stato condotto per un normale controllo di polizia. Vollero sapere se lo avessi più rivisto e mentii con freddezza: no! Bene, dovevo solo avvertire la questura qualora l'Aiello si fosse rifatto vivo. Certo, assicurai che avrei ubbidito, augurandomi che l'interrogatorio fosse terminato. Invece il più alto dei tre aggiunse che dovevo fare ancora una cosa per loro ed estrasse dalla tasca della giacca una busta da lettera: me la passò dicendomi di non aprirla e consegnarla ad Anna Gatelli, poi uscirono senza aggiungere saluti, civili o fascisti.

Squadrai la busta di carta pesante, satinata e trascritta, proprio nel centro, da un inchiostro nero che la intitolava «Ad Anna» semplicemente, senza indirizzo, senz'altra maniera burocratica.

Doveva provenire dal colonello, pensai; ma per quale motivo le scriveva? Anna, nei giorni precedenti, mi aveva avvertito più volte che era sua intenzione rivedere il tedesco: sentiva il bisogno di provare i propri sentimenti per lui, mentre si stringeva di più a me. Per coprirla agli occhi di Angiolina, avevo pensato di mentire circa l'invito che Italia mi aveva rivolto perché visitassi Gesuè e Concetta, fingendo che fosse indirizzato anche ad Anna. Nel frattempo lei, dopo aver chiesto ancora una volta all'amica Luisa di prestarle l'appartamento di via Bodoni, aveva fissato in tutta segretezza l'appuntamento con von Sybel. Certo, le confidai che avrei preferito s'incontrassero per strada o in un ritrovo pubblico, però Anna mi pregò di darle fiducia, perché il tedesco era pedinato dai suoi stessi camerati e proprio non le andava d'incontrarlo sotto gli sguardi ostili di spioni e poliziotti. Come al solito, avevo accondisceso ai suoi desideri e quel giovedì mattina le ero stato di scorta fino a piazza Testaccio, da dove, in pochi passi, aveva raggiunto la casa di Luisa. Intanto io, seccato, incupito, proseguii alla volta della pensione d'Italia, arrivandovi poco prima che vi capitasse lo stesso Mario Carra, al quale dovetti giustificare l'assenza di Anna: «È andata un attimo dalla merciaia» dicendogli. Mentre Mario mi rispose tenebroso: «E già, certo», aspettandola per una mezz'ora prima di uscirsene senza neppure salutarmi.

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Entrarono le spie e ci osservarono, deridendo fra di loro la mia disperazione. «Venite» le invitai, e con occhi di nuovo asciutti presi tre bicchieri e la boccia da un litro. «Accomodatevi» aggiunsi, indicando un tavolino. I tedeschi si sedettero, dopo un'occhiata d'intesa. Cesare mi guardava orribile e si teneva in disparte. Mi accomodai con le mie spie a bere dalla stessa bottiglia. Dei tre solo uno accennava qualche sillaba latina. Bevemmo per un po' in silenzio, quindi cominciarono a ridacchiare fra di loro raccontandosi chissà che. Uno soprattutto gesticolava da napoletano e a ogni sorso del vino di Cesare s'infervorava nella narrazione. «Dove sono i commilitoni che vi controllano?» domandai all'unico poliglotta. Faceva finta di non capire. «E dai camerata, sciogliti!» Ammise che nuove esigenze di servizio avevano distolto gli altri. «Lui chi è?» aggiunsi, additando il narratore già mezzo sbronzo che continuava a raccontare. Veniva da Cracovia, sulla Vistola; era arrivato in Italia da poco. Il tipo udì il compagno citare la città polacca e chiese cosa volessi sapere. Risposi con un cenno generico che doveva valere per un "così, si fa per parlare"; ma il soldato, come indispettito della mia curiosità, proseguì con la propria biografia facendo sghignazzare i compagni che lo capivano. «Come?» domandai, «Ordnungspolizei?»: si, aveva fatto parte dei battaglioni di polizia. Ah, e quali compiti avevano questi battaglioni? Mi fu risposto che sorvegliavano impianti ed edifici, svolgevano normali servizi di polizia ordinaria e a volte andavano anche in guerra. Infine il soldato ubriaco aggiunse qualcosa che voleva mi venisse tradotto dal poliglotta, mentre quello resisteva incerto. «Un altro compito è» disse, decidendosi di colpo, «ammazzare gli ebrei. Capisci tu? Loro li mettono in fila davanti alla fossa e sparano nella testa a uno per uno e si devono fermare ogni tre colpi, per pulirsi la faccia dagli schizzi di cervello.» Sì, capii. Il soldato boia alzò la bottiglia del vino e mi riempì il bicchiere sogghignando di qualcosa. «Vuole che io ti dico quanti ne ha ammazzati. Vuoi tu che io ti dico?» No poliglotta, lo pregai di non dirmelo perché, intanto, prendevo il bicchiere pieno fino all'orlo del camerata boia e versavo un bel po' del suo vino sulla pietra del tavolo, sputandoci dentro.

I più continenti fecero appena in tempo a fermare la mano dell'ubriaco che era andata alla pistola, nascosta nella giacca. Lo trattenevano per le braccia, urlando improperi contro di me e ordini a lui. Cesare accorse per difendermi, e riuscii a fermarlo prima che si facesse sparare dai sobri, che avevano già estratto le pistole e lo tenevano di mira. E appena vidi che retrocedeva verso la cucina, portandosi fuori dal tiro delle armi, mi avventai alla porta d'ingresso e cercai di fuggire tra i vicoli della città.

Mi trovavo ben oltre il Teatro Argentina quando mi fermai in preda a un attacco di tachicardia parossistica, sotto lo sguardo d'avvoltoi delle spie di primo livello, che mi avevano ripreso e, a venti passi da me, mi osservavano tossire con il risucchio, espettorando l'essudato bronchiale.

Non volevo tornare alla pensione, dove Angiolina avrebbe passato la notte; non potevo nemmeno bivaccare all'addiaccio, sotto i musi ringhiosi dei miei cani da guardia. Pensai a Testaccio, alla casa di Luisa Spaggiari, che doveva essere sola, perché il colonnello le aveva fatto arrestare il marito. Luisa mi era stata presentata da Angiolina, tra gli altri Spaggiari, il giorno della battaglia di San Paolo; ma solo quando Anna rubò il camion ai tedeschi e ci ritrovammo sotto casa sua, avevo apprezzato che schianto di femmina fosse: una fresatura a tutto mandrino, come si sarebbe detto in pornomeccanico; ma niente succo e fascinosa magnetizzazione.

Vi giunsi mezz'ora più tardi, tenendomi la milza con le mani. Il portone era piantonato da un soldato tedesco in divisa che mi guardò perplesso, mentre mi avvicinavo alla sua figuretta smilza, da recluta dell'ultima ora, fissata lì a vigilare sull'amica dell'ex amante di un colonnello ignoto. I miei angeli custodi gli fecero un segno e la sentinella s'irrigidì sul piedarm, in attenti, quasi fossi il caporale di muta che gli cambiava la consegna.

Luisa era irriconoscibile: il viso disperato, segnato da due orribili calamai sotto gli occhi, che ne illividivano l'azzurro, incupito dal dolore. Pallida, la pelle stanca e lucida: sembrava non dormisse da mesi; nell'appartamento stagnava un odore di persona malata che non arieggiava le stanze, per asfissiare del proprio respiro.

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