Copertina
Autore Jo Nesbψ
Titolo Il cacciatore di teste
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Stile Libero Big , pag. 300, cop.fle., dim. 13,7x21,6x1,7 cm , Isbn 978-88-06-20832-5
OriginaleHodejegerne [2008]
TraduttoreMaria Teresa Cattaneo
LettoreGiovanna Bacci, 2013
Classe gialli , thriller , noir
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    Il cacciatore di teste

  3 Prologo

  5     Parte prima     La prima intervista

  7 Capitolo 1 Il candidato
 22 Capitolo 2 Il terziario
 33 Capitolo 3 Vernissage
 52 Capitolo 4 Annessione
 62 Capitolo 5 La confessione

 75     Parte seconda   Accerchiamento

 77 Capitolo 6  Rubens
 86 Capitolo 7  Incinta
 95 Capitolo 8  Un'undicesima di sol estesa per 4/4

105     Parte terza     La seconda intervista

107 Capitolo 9  La seconda intervista
120 Capitolo 10 Cardiopatia
134 Capitolo 11 Curacit
138 Capitolo 12 Natasha
150 Capitolo 13 Metano
164 Capitolo 14 Massey Ferguson
174 Capitolo 15 Orario di visita
188 Capitolo 16 Autopattuglia zero uno
198 Capitolo 17 Cucine Sigdal

209     Parte quarta    Selezione

211 Capitolo 18 La regina bianca
220 Capitolo 19 Omicidio premeditato
223 Capitolo 20 Resurrezione
236 Capitolo 21 Invito
242 Capitolo 22 Film muto

253     Parte quinta    Un mese dopo. L'ultima intervista

255 Capitolo 23 «Stasera con noi»

285 Epilogo


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 3

Prologo


Una collisione tra due veicoli è un fenomeno puramente fisico. L'elemento decisivo è la casualità, che si può comunque spiegare con l'equazione Forza x Tempo = Massa x Variazione di velocità. Date dei valori a queste variabili casuali e avrete una storia semplice, vera, senza via di scampo, in cui si descrive cosa succede quando un Tir a pieno carico, del peso di venticinque tonnellate e che procede a ottanta chilometri all'ora, centra un'automobile del peso di milleottocento chili che va alla stessa velocità. Tenendo conto delle variabili casuali applicabili al punto d'impatto, alla struttura della carrozzeria e all'angolazione dei corpi all'interno dell'abitacolo, la storia potrà essere raccontata in mille modi diversi, ma due elementi saranno sempre gli stessi: la collisione finirà in tragedia e sarà l'auto a farne le spese.

C'è un silenzio surreale; odo lo stormire del vento tra le fronde degli alberi e il mormorio di un fiume. Il mio braccio è come paralizzato, e mi ritrovo a testa in giú, intrappolato tra alcuni corpi e una carcassa d'acciaio. Dal pavimento dell'auto, sopra di me, gocciolano sangue e benzina. Sul soffitto a scacchi bianchi e neri, sotto di me, scorgo un paio di forbicine per unghie, un arto troncato, due uomini morti e un beauty-case aperto. Il mondo non ha bellezza, solo maquillage. La regina bianca è a pezzi, io sono un assassino, nell'abitacolo non respira piú nessuno. Nemmeno io. Tra poco morirò. Chiuderò gli occhi e mi arrenderò. Θ bello arrendersi. Non ha piú senso aspettare. Ed ecco perché ho una tale urgenza di farvi questa cronaca, di raccontarvi questa variante, questa storia sull'angolazione dei corpi all'interno di un abitacolo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 24

Percorsi la strada lastricata che portava a Sushi & Coffee. Il motivo per cui hanno scelto un manto stradale piú rumoroso, piú inquinante e piú costoso del normale asfalto, è probabilmente il bisogno di ricreare un idillio, la nostalgia per qualcosa di primordiale, durevole e autentico. Piú autentico, certamente, di questo pseudoquartiere dove un tempo le cose venivano create con il sudore della fronte, i prodotti forgiati nel fuoco incandescente e si udiva il clangore del martello. Ciò che si sentiva adesso era invece il ronzio delle macchine da caffè espresso e lo stridore del ferro sul ferro dei centri fitness. Perché qui si assiste al trionfo del terziario sul lavoro operaio, al trionfo del design sulla penuria di case, al trionfo della finzione sulla realtà. Ed è una cosa che mi piace.

Guardai gli orecchini di diamanti nella vetrina dell'orefice di fronte a Sushi & Coffee. Sarebbero stati benissimo a Diana. E disastrosi per le mie tasche. Scacciai il pensiero, attraversai la strada ed entrai nel locale in cui, stando all'insegna, viene preparato il sushi, ma stando al palato viene servito pesce morto. Il loro caffè, però, è buono. Il locale era semipieno, affollato di donne slanciate, biondo platino, appena uscite dalla palestra, ancora in tuta perché non sopportavano l'idea di farsi la doccia davanti ad altri. Piuttosto incomprensibile, a dire il vero, visto che avevano speso una fortuna per quei corpi che celebravano anch'essi il trionfo della finzione. Appartenevano pure loro al terziario, ma ricoprivano un ruolo subalterno al servizio dei ricchi mariti. Ci si sarebbe potuti aspettare che avessero poco cervello, invece no, avevano fatto Giurisprudenza, Informatica e Storia dell'arte — lo studio faceva parte del trattamento di bellezza —, avevano lasciato che la società finanziasse loro l'università, per poi finire a fare le casalinghe superqualificate e annoiate e a passare il tempo nei caffè, scambiandosi confidenze su come mantenere i loro danarosi mariti adeguatamente soddisfatti, adeguatamente gelosi e adeguatamente eccitati. Fino al momento in cui li incatenavano per sempre con i figli. E dopo la nascita dei pargoli la musica cambiava, le donne prendevano in mano le redini del potere, i mariti si ritrovavano castrati e in posizione di scacco matto. I figli...

— Doppio macchiato, — ordinai mettendomi a sedere su uno sgabello al bancone del bar.

Osservai con soddisfazione le donne nello specchio. Ero un uomo fortunato. Com'era diversa Diana da queste parassite, tanto affascinanti quanto melense. Lei possedeva tutto ciò che io non avevo. Dedizione. Empatia. Lealtà. Statura. In breve, lei aveva una bell'anima in un bel corpo. Ma la sua non era una di quelle bellezze perfette, aveva proporzioni troppo particolari. Diana era stata disegnata in stile manga, con i tratti da bambolina dei personaggi nei fumetti giapponesi. Aveva un viso minuto con una boccuccia sottile, un naso piccolino e occhi grandi pieni di stupore, che tendevano a gonfiarsi un po' quand'era stanca. Ma per me erano proprio questi scostamenti dalla norma a far apparire ancora piú singolare la sua bellezza, a renderla irresistibile. Come mai aveva scelto proprio me, il figlio di un autista, uno studente di Economia leggermente piú brillante della media, con prospettive leggermente inferiori alla media e una statura ben al di sotto della media? Cinquant'anni fa, con il mio metro e sessantotto di altezza non sarei rientrato nella categoria dei bassi, perlomeno non in Europa. E se si leggono un po' di dati antropometrici, si scopre che solo cent'anni fa un metro e sessantotto era per l'appunto la statura media in Norvegia. Ma il passare del tempo ha giocato a mio sfavore.

Potevo anche capire che Diana mi avesse scelto in un momento di follia, ma che una donna come lei, che avrebbe potuto avere chiunque ai suoi piedi, volesse assolutamente svegliarsi ogni mattina al mio fianco e mi volesse anche il giorno dopo, aveva dell'incomprensibile. Quale misteriosa cecità le impediva di vedere la mia meschinità, la mia natura traditrice, la mia vigliaccheria di fronte alle avversità, la malvagità gratuita con cui rispondevo alla malvagità gratuita? Non voleva vedere? O era solo grazie a una grande abilità che il mio vero io era finito in un angolo morto benedetto dall'amore? E poi ovviamente c'era il bambino che finora le avevo negato. Che razza di potere avevo su quell'angelo sceso in terra sotto sembianze umane? A sentire Diana l'avevo incantata fin dal nostro primo incontro con il mio mix contradditorio di arroganza e autoironia. C'eravamo conosciuti a una serata per gli studenti scandinavi a Londra, e a un primo sguardo Diana mi era sembrata identica a tutte le altre ragazze lí presenti, una bellezza bionda, nordica, che abitava nei quartieri in di Oslo, studiava Storia dell'arte in una grande metropoli, lavorava ogni tanto come modella, era contraria alla guerra e alla povertà e amava le feste e tutto ciò che era divertimento. C'erano volute tre ore e almeno sei Guinness per capire che mi sbagliavo. Innanzitutto era davvero appassionata di arte, quasi al punto da studiarla in modo maniacale. In secondo luogo riusciva a esprimere in modo articolato la sua frustrazione per esser parte di un sistema che faceva guerra ai popoli che non desideravano abbracciare il capitalismo occidentale. Era stata lei a spiegarmi che i paesi industrializzati sfruttano a tal punto quelli in via di sviluppo da guadagnarci comunque nonostante l'invio di aiuti umanitari. In terzo luogo apprezzava l'umorismo, il mio umorismo, una premessa indispensabile affinché uno come me trovi il coraggio di lanciarsi alla conquista di donne piú alte di un metro e settanta. E in quarto luogo, e questo era stato indubbiamente l'elemento decisivo nel mio caso, non era portata per le lingue e aveva un ottimo pensiero logico. Parlava un inglese a dir poco stentato, e ridendo mi aveva raccontato che non aveva mai preso in considerazione l'idea di studiare francese o spagnolo. A quel punto le avevo chiesto se il suo cervello avesse forse delle caratteristiche maschili e se le piacesse la matematica. Aveva alzato le spalle, ma io non mi ero arreso e le avevo raccontato dei test di selezione che si tengono in Microsoft, dove ai candidati viene richiesto di risolvere un problema di logica.

— Il loro obiettivo è vedere in che modo i candidati affrontano un problema e se riescono a risolverlo.

— Su, forza, — mi disse.

— I numeri primi...

— Aspetta! Rinfrescami un attimo la memoria: che cos'è un numero primo?

— Un numero che può essere diviso unicamente per sé stesso.

— Okay —. Non aveva ancora quello sguardo assente che hanno in genere le donne quando inizio a parlare dei numeri primi, per cui proseguii:

— I numeri primi sono spesso due numeri dispari consecutivi, come per esempio undici e tredici. Diciassette e diciannove. Ventinove e trentuno. Capisci cosa intendo dire?

— Capisco.

— Esistono tre numeri dispari consecutivi che sono anche numeri primi?

— Ovviamente no, — rispose accostando alle labbra il boccale di birra.

— Ah sí? E perché?

— Pensi che sia un'idiota? In una sequenza numerica di cinque numeri, uno dei numeri dispari deve essere necessariamente divisibile per tre. Continua.

— Continua?

— Scusa, ma qual è il problema di logica? — Aveva bevuto un lungo sorso di birra e mi aveva osservato con una grande curiosità piena di aspettativa. Alla Microsoft i candidati avevano tre minuti per fornire la risposta che lei mi aveva dato in tre secondi. In media solo cinque persone su cento risolvevano il quesito. Ed è probabile che io mi sia innamorato di lei proprio in quel momento. Mi ricordo con certezza di aver annotato sul tovagliolo: «Assunta».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 120

Capitolo 10

Cardiopatia


Citofonai a Lotte Madsen per la terza volta. In realtà non c'era una targhetta col suo nome, ma avevo suonato un tal numero di volte a quel citofono in Eilert Sundts gate da sapere benissimo qual era il suo campanello.

Il buio era sceso in fretta e la temperatura era precipitata. Tremavo di freddo. Lotte aveva esitato a lungo quando, dopo pranzo, l'avevo chiamata dal lavoro per chiederle se potevo andare a trovarla verso le otto. E quando finalmente mi aveva concesso udienza, con un monosillabo, avevo intuito che doveva aver infranto una promessa fatta a sé stessa: di non avere piú niente a che fare con quell'uomo che l'aveva lasciata con tanta fermezza.

Sentii scattare il portone; lo spalancai immediatamente come se temessi di non avere altre opportunità. Presi le scale; non volevo correre il rischio di incontrare in ascensore qualche vicino curioso che avrebbe passato il tempo a fissarmi e a trarre le sue conclusioni.

Lotte aprí appena la porta; dalla fessura scorsi il suo viso pallido.

Entrai e chiusi la porta dietro di me:

— Rieccomi.

Non rispose. Come sempre, del resto.

— Come stai? — le chiesi.

Lotte Madsen alzò le spalle. Aveva esattamente lo stesso aspetto della prima volta in cui l'avevo incontrata: sembrava un cucciolo timoroso, minuto e dal pelo arruffato, con occhi castani spaventati. I capelli unti le scendevano scomposti ai lati del viso, inerti; se ne stava un po' curva, infagottata in vestiti informi e di colore indefinito in cui sembrava una donna che trascorre piú tempo a nascondere il proprio corpo che non a metterlo in evidenza. Peraltro senza alcun motivo. Lotte aveva un fisico slanciato, era ben fatta, e aveva una pelle liscia e perfetta. Ma trasmetteva quell'idea di sottomissione che immagino sia presente in una donna che è sempre stata picchiata, che è sempre stata lasciata, che non è mai stata trattata come si meritava. Forse era stato quello a suscitare in me un istinto protettivo che fino ad allora non avevo saputo di avere. Insieme a sentimenti molto meno platonici che avevano fatto da miccia al nostro brevissimo rapporto. O relazione. Relazione. Un rapporto è qualcosa che continua, una relazione è cosa del passato. La prima volta che avevo incontrato Lotte Madsen era stato a uno dei vernissage estivi di Diana. Lotte era all'altro capo del salone, lo sguardo fisso su di me, e aveva reagito con un certo ritardo. Cogliere in fallo una donna che ti sta osservando è sempre lusinghiero, ma quando mi resi conto che non mi avrebbe piú fissato, mi avvicinai al quadro che stava studiando e mi presentai. Piú che altro per curiosità, visto che io mi sono sempre considerato, data la mia natura, straordinariamente fedele a Diana. Le solite malelingue avrebbero potuto sostenere che la mia fedeltà si basava piú su un'analisi dei rischi che sull'amore, che Diana, in quanto a bellezza, giocava in serie A, e quindi io non ero nella posizione di assumermi certi rischi a meno che non volessi ritrovarmi a giocare nella lega nazionale dilettanti per il resto dei miei giorni.

Forse. Lotte Madsen, invece, giocava nella mia stessa categoria.

Aveva l'aspetto di un'artista un po' hippy, e quindi balzai automaticamente alla conclusione che lo fosse, o che in alternativa fosse l'amante di uno di loro. Non riuscivo altrimenti a spiegarmi come un paio di pantaloni marroni frusti di velluto e un noiosissimo maglione grigio aderente avessero potuto accedere al vernissage. Scoprii invece che era lí per comprare. Non per sé stessa, beninteso, ma per conto di una società danese che doveva arredare la sua nuova sede di Odense. Era una traduttrice freelance dal norvegese e dallo spagnolo: traduceva dépliant, articoli, manuali, copioni cinematografici e qualche libro specialistico. L'azienda era uno dei suoi clienti piú regolari. Parlava a voce bassa e con un sorriso appena accennato, come se non capisse perché qualcuno fosse disposto a perdere del tempo con lei. Mi conquistò immediatamente. Sí, credo che questa sia la parola giusta. Era dolce e piccolina. Un metro e cinquantanove. Non avevo bisogno di domandarle quant'era alta, avevo un occhio ben allenato. Tornai a casa col suo numero di telefono, cosí avrei potuto contattarla per inviarle le fotografie di altri quadri dell'artista che esponeva. Credo che allora le mie intenzioni fossero ancora oneste.

La volta successiva c'eravamo visti da Sushi & Coffee per un caffè. Le avevo spiegato che le avrei mostrato alcune stampe dei quadri invece di inviarle le foto per e-mail perché le riproduzioni, proprio come me, potevano mentire.

Dopo aver esaminato in fretta le stampe, le avevo raccontato che il mio matrimonio era infelice, ma che non lasciavo mia moglie perché mi sentivo in obbligo nei suoi confronti, visto il suo amore sconfinato per me. E il cliché piú utilizzato al mondo dai mariti che vogliono rimorchiare donne non sposate o viceversa. Ma ebbi la sensazione che non lo avesse mai sentito prima. Anch'io non l'avevo mai usato fino a quel momento, ma di certo l'avevo sentito e speravo funzionasse.

Aveva guardato l'orologio e detto che doveva andare; a quel punto le avevo chiesto se potevo passare da lei una sera per farle vedere un altro artista che ritenevo fosse un investimento decisamente migliore per il suo cliente di Odense. Aveva accettato con una certa riluttanza.

Mi ero portato dietro alcuni quadri piuttosto scadenti della galleria e una bottiglia di buon vino rosso della mia cantina. Mi era parsa rassegnata al suo destino dal momento stesso in cui aveva aperto la porta di casa sua in quella calda sera d'estate.

Le avevo raccontato delle storielle divertenti sulle mie gaffe, quel genere di aneddoti che apparentemente ti mettono in cattiva luce, ma in realtà dimostrano che hai abbastanza fiducia in te stesso e sei un uomo abbastanza realizzato da poterti permettere l'autoironia. Mi raccontò che era figlia unica, che da bambina e adolescente aveva viaggiato per il mondo insieme ai genitori e che suo padre era capo ingegnere in un'azienda idroelettrica internazionale. Non sentiva di appartenere a nessun paese in particolare, la Norvegia andava bene come qualsiasi altro posto. Per essere una che parlava diverse lingue, era davvero di poche parole. Θ una traduttrice, avevo pensato. Preferisce le storie degli altri alle sue.

Mi aveva fatto domande su mia moglie. «Tua moglie», aveva detto, anche se di certo doveva sapere che si chiamava Diana visto che era stata invitata al suo vernissage. In un certo qual modo ciò aveva reso piú facili le cose sia a me, sia a lei.

Le raccontai che il mio matrimonio era andato in crisi quando «mia moglie» era rimasta incinta e io non avevo voluto il bambino. E secondo lei l'avevo convinta ad abortire.

- L'hai fatto davvero? - mi aveva chiesto Lotte.

- Credo di sí.

Avevo visto la sua espressione mutare impercettibilmente e le avevo chiesto perché.

- I miei genitori mi hanno convinto ad abortire perché ero adolescente e perché il bambino non avrebbe avuto un padre. Li odio ancora per questo e odio anche me stessa.

Avevo deglutito. Deglutito e fornito una spiegazione. - Il feto aveva la sindrome di Down. L'ottantacinque per cento dei genitori che si trovano in questa situazione sceglie l'aborto.

Mi pentii subito di aver detto una cosa del genere. Cos'avevo creduto? Che la sindrome di Down avrebbe reso piú accettabile il fatto che non volevo un figlio da mia moglie?

- Probabilmente tua moglie avrebbe comunque perso il bambino, - aveva risposto Lotte. - La sindrome di Down è spesso accompagnata da una cardiopatia.

Una cardiopatia, avevo pensato, e dentro di me l'avevo ringraziata per aver giocato nuovamente nella mia squadra, per aver reso ancora una volta le cose piú facili a me e a noi. Un'ora dopo ci eravamo già tolti i vestiti e io stavo celebrando una vittoria che a una persona piú abituata alle conquiste sarebbe parsa certo di poco conto, ma che mi aveva fatto sentire al settimo cielo per giorni e giorni. Anzi, settimane. Piú precisamente tre settimane e mezza. Avevo addirittura un'amante. Che avevo lasciato dopo ventiquattro giorni.

Mentre la osservavo in quel momento davanti a me, nell'ingresso, mi sembrava del tutto irreale.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 202

Chiusi gli occhi ed elevai una preghiera di ringraziamento. Perché non sarei morto bruciato, ma solo per asfissia. Che non è la morte peggiore. Il cervello chiude le camere a una a una, si rimane storditi per la mancanza d'ossigeno, ci si sente come sotto narcosi, si smette di pensare, i problemi non esistono piú. Non è molto diverso dalla sensazione che si prova quando si beve un superalcolico.

L'idea mi fece quasi ridere.

Io, che avevo trascorso tutta la vita a cercare di differenziarmi da mio padre, sarei morto come lui in un incidente d'auto. Ma ero davvero riuscito a essere diverso da lui? Quand'ero ormai troppo grande perché il vecchio ubriacone potesse picchiarmi, ero passato al contrattacco. Avevo iniziato a colpirlo nello stesso modo in cui colpiva mia madre, senza lasciare segni visibili. Quando per esempio si era offerto di insegnarmi a guidare, avevo gentilmente rifiutato e gli avevo detto che non intendevo prendere la patente. Avevo corteggiato quella racchia viziata della figlia dell'ambasciatore che lui portava a scuola tutti i giorni solo per invitarla a casa nostra a cena e umiliarlo.

Me n'ero poi pentito quando avevo trovato mia madre che piangeva in cucina tra il secondo e il dolce. Avevo fatto domanda a un istituto di Londra che mio padre aveva definito una maledetta scuola di snob parassiti. Ma non l'aveva presa cosí male come avevo sperato. Quel brutto bastardo era persino riuscito ad abbozzare un sorriso e a sembrare orgoglioso della mia scelta. Quando poi in autunno mi aveva chiesto se lui e mia madre potevano venirmi a trovare al campus, dalla Norvegia, avevo risposto di no perché non volevo che i miei compagni scoprissero che non era un diplomatico, ma un semplice chauffeur. Avevo avuto l'impressione di essere riuscito a colpirlo in uno dei suoi punti deboli, e non dov'era piú indifeso, ma dove gli bruciava di piú.

Avevo telefonato a mia madre due settimane prima del matrimonio per informarla che mi sarei sposato con una ragazza che avevo conosciuto lí a Londra, ma che la cerimonia sarebbe stata intima, solamente gli sposi e due testimoni. Lei era ovviamente la benvenuta, a patto però che non la accompagnasse mio padre. Mia madre aveva perso le staffe e si era rifiutata di venire senza il marito. Le anime nobili e fedeli nutrono purtroppo sentimenti di lealtà anche nei confronti degli uomini piú meschini, anzi, soprattutto nei loro confronti.

Diana avrebbe dovuto incontrare i miei genitori dopo la fine del semestre estivo, ma tre settimane prima che partissimo da Londra avevo ricevuto la notizia dell'incidente d'auto. Di ritorno dallo chalet, mi aveva spiegato un poliziotto al telefono che udivo a fatica per via della linea disturbatissima. Era sera, pioveva, l'auto andava a una velocità sostenuta. La strada era stata temporaneamente modificata per via di alcuni lavori stradali. Una nuova curva, magari un po' illogica, segnalata tuttavia da cartelli di pericolo. L'asfalto appena steso che aveva assorbito la luce. Una macchina per asfaltare parcheggiata. Avevo interrotto il poliziotto e gli avevo chiesto di effettuare dei prelievi su mio padre per verificare l'eventuale presenza di alcol. Avevo poi ricevuto la conferma di ciò che già sapevo: l'aveva uccisa lui mia madre.

Quella sera, da solo in un pub in Baron's Court, avevo assaggiato l'alcol per la prima volta in vita mia. E avevo pianto in pubblico. Quando mi ero asciugato le lacrime in un orinatoio puzzolente, uno specchio crepato aveva riflesso l'immagine della faccia ubriaca e flaccida di mio padre. E mi era tornato in mente il bagliore gelido e attento nei suoi occhi quando aveva rovesciato gli scacchi e colpito la regina, che era volata in aria e che, prima di finire a terra, aveva eseguito un doppio carpiato all'indietro con un avvitamento e mezzo. Poi mio padre aveva colpito me. Solo quella volta, ma mi aveva colpito. Dietro l'orecchio. E avevo visto nel suo sguardo ciò che mia madre chiamava la Malattia. Il mostro repellente, imperturbabile e assetato di sangue che si celava dietro i suoi occhi. Ma era anche mio padre, carne della mia carne e sangue del mio sangue.

Sangue.

Qualcosa che si celava in fondo a me, che per lungo tempo era rimasto sepolto sotto numerosi strati di negazione, risalí alla superficie. Il ricordo sfocato di un pensiero che non avrebbe piú potuto essere ricacciato indietro stava prendendo una forma piú concreta, si articolava in modo doloroso, assumeva i contorni della verità. Quella verità che fino ad allora ero riuscito a nascondere mentendo a me stesso. Non è che non volessi avere figli per la paura di essere soppiantato da un bambino, ma per paura della Malattia. La paura di averla ereditata. La paura che si celasse dietro i miei occhi. Avevo mentito a tutti. Avevo detto a Lotte che non volevo il bambino perché aveva un difetto, una sindrome, un'irregolarità cromosomica. Ma il difetto, in realtà, era dentro di me.

Ora tutto fluttuava. Avevo vissuto l'intera vita all'ombra di un'eredità, e adesso il mio cervello aveva coperto i mobili con dei teli, chiuso le porte, era pronto a staccare la corrente. I miei occhi gocciolavano, si svuotavano e si riempivano di nuovo di lacrime che scivolavano sulla fronte, inzuppavano la radice dei capelli. Stavo per morire soffocato da due palloni umani. Pensai a Lotte. E lí, sulla soglia, ebbi una folgorazione. Vidi la luce. Vidi... Diana? Cosa ci faceva lí quella traditrice? I palloni...

La mia mano libera e penzolante si spostò verso il beauty-case. Con le dita intorpidite staccai quelle di Sunded dall'impugnatura. Aprii la valigetta. Le gocce di benzina vi piovevano dentro mentre rovistavo e toglievo una camicia, un paio di calze, delle mutande e un nécessaire. Non c'era altro. Presi il nécessaire con l'unica mano libera e ne svuotai il contenuto sul tettuccio interno. Dentifricio, rasoio elettrico, cerotti, shampoo, una borsettina trasparente di plastica da usare probabilmente ai controlli in aeroporto. Vaselina... eccole, finalmente! Un paio di forbici, quelle piccoline con la punta ricurva che alcune persone, per qualche strano motivo, preferiscono ai moderni tagliaunghie.

La mia mano brancicò a tentoni uno dei gemelli, tastò il panzone e il torace alla ricerca di una cerniera o di bottoni. Ma stavo per perdere la sensibilità e le dita non sarebbero riuscite a obbedire agli ordini, né a inviare informazioni al cervello. Poi afferrai le forbici e feci un buco nella pancia di... diciamo di Endride.

Il tessuto sintetico cedette con uno strappo liberatorio, scivolò all'indietro e rivelò una pancia imponente costretta dalla camicia azzurra della polizia. Mi affrettai a slacciare i bottoni; la pancia, azzurrognola e pelosa, debordò senza ritegno. Adesso arrivava la parte che temevo di piú. Ma il pensiero del premio finale – vivere, respirare – fece passare in secondo piano tutti gli altri, e io brandii le forbici con tutta la forza che avevo e le affondai nella pancia del poliziotto appena sopra l'ombelico. Poi le ritrassi. Non accadde nulla.

Strano. C'era un buco ben visibile, ma, a differenza di quanto avevo sperato, non ne usci nulla, nulla che allentasse la pressione su di me. Il pallone era gonfio come prima.

Colpii ancora. Un altro buco. Un altro pozzo asciutto.

Brandii nuovamente le forbici come in preda a un raptus. Frup, frup. Niente. Ma di cosa cazzo erano fatti quei gemelli? Solo di lardo? Quell'epidemia di obesità avrebbe presto ucciso anche me?

Lungo la strada passò un'altra automobile.

Cercai di urlare, ma non avevo aria.

Con le ultime forze conficcai le forbici nel panzone, ma questa volta non le ritrassi, non avevo piú energia. Dopo un po' iniziai a muoverle. Allargai il pollice e l'indice e poi richiusi le forbici. Praticai un'incisione. Incredibile quanto fosse facile. A quel punto accadde qualcosa. Un rivolo di sangue sgorgò dal buco per colare sulla pancia, scomparve sotto i vestiti, riapparve sulla gola coperta dalla barba, proseguo lungo il mento, sulle labbra e poi svaní in una narice. Continuai a tagliare. Quasi con furia. E scoprii che gli esseri umani sono in realtà creature fragili perché il loro corpo si apre con la stessa facilità con cui si tranciano le balene, l'avevo visto fare una volta in tv. E il tutto con un paio di minuscole forbicine per unghie. Non mi fermai fin quando il poliziotto non ebbe uno squarcio che andava dalla vita alle costole. Tuttavia la massa di sangue e viscere che prevedevo si sarebbe riversata fuori non usci. Improvvisamente persi forza nel braccio, le forbicine mi caddero e mi si appannò di nuovo la vista. Non riuscivo a vedere che l'interno del tettuccio. Sembrava una scacchiera grigia. Dappertutto pedine rovinate. Chiusi gli occhi. Era bellissimo aver rinunciato a vivere. Sentii la forza di gravità che prendendomi per la testa mi trascinava verso il centro della terra, un po' come accade a un bambino che esce dall'utero della madre. Sarei stato espulso, la morte era una rinascita. Potevo addirittura avvertire i dolori del parto, le contrazioni dolorose che mi massaggiavano. Vidi la regina bianca. Sentii il suono e poi il liquido amniotico che si riversava per terra.

E l'odore.

Mio Dio, l'odore!

Ero nato, e la mia nuova vita iniziava con una caduta, una botta in testa e poi l'oscurità totale.

L'oscurità totale.

L'oscurità.

L'ossigeno?

La luce.

Aprii gli occhi. Ero supino e sopra di me vidi i sedili posteriori sui quali io e i gemelli eravamo stati stretti come sardine. Era probabile che fossi sdraiato sull'interno del tettuccio, sulla scacchiera. E stavo respirando. C'era un odore rivoltante di morte, di viscere umane. Mi guardai intorno. Sembrava di essere in un mattatoio, in una fabbrica di salsicce. Ma la cosa strana era che invece di fare quello che mi sarebbe stato piú congeniale, ovvero reprimere, negare, fuggire, assecondavo il cervello, che sembrava essersi espanso per assorbire tutte quelle impressioni sensoriali. Decisi di rimanere lí. Respirai quell'odore. Guardai. Ascoltai. Raccolsi gli scacchi da terra. Li rimisi al loro posto, uno a uno. Alla fine raccolsi anche la regina bianca. La studiai. Poi la misi direttamente di fronte al re nero.

| << |  <  |