Autore Nexus
Titolo Stradario hip-hop
EdizioneAlegre, Roma, 2020 , pag. 318, cop.fle., dim. 13x21x2,2 cm , Isbn 978-88-32067-33-0
LettoreDavide Allodi, 2021
Classe movimenti , arte









 

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Indice


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       Per favorire la libera circolazione della cultura
        è consentita la riproduzione di questo volume,
        parziale o totale, a uso personale dei lettori
               purché non a scopo commerciale.
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INTRO                                                         9
    SPIN THAT SHIT!


PRIMO ATTO (2006-2014)

CAPITOLO 1                                                   21
    L'HIP-HOP É DI CHI SE LO VIVE

CAPITOLO 2                                                   37
    ANNI SETTANTA: MITOLOGIA HIP-HOP

CAPITOLO 3                                                   55
    ANNI DUEMILA: WELCOME TO THE (URBAN) JUNGLE

CAPITOLO 4                                                   75
    READY OR NOT? L'INCONTRO COL MAESTRO JEDI


SECONDO ATTO (2007-2008)                                     89

CAPITOLO 5                                                   91
    QUESTIONE DI ATTITUDINE

CAPITOLO 6                                                   95
    ANNI NOVANTA: RADICALE, COMMERCIALE, HARDCORE

CAPITOLO 7                                                  119
    GENERAZIONE CRASH KID


TERZO ATTO (2009-2011)                                      137

CAPITOLO 8                                                  139
    GENDER IS BREAKING

CAPITOLO 9                                                  155
    L'OMBRA

CAPITOLO 10                                                 159
    ANNI SESSANTA VOL. 1: IDEOLOGIA HIP-HOP

CAPITOLO 11                                                 173
    ANNI SESSANTA VOL. 2: PANTERE NERE E MASCHERE BIANCHE


QUARTO ATTO (2012-2015)                                     183

CAPITOLO 12                                                 185
    PAESAGGI TOSSICI E BANDE DANZANTI

CAPITOLO 13                                                 199
    KNOW THE LEDGE CULTI URBANI, NAVI MADRI & ELECTRO FUNK!

CAPITOLO 14                                                 219
    LE FIGLIE DI SILAH

CAPITOLO 15                                                 227
    ANNI OTTANTA: GLOBALIZZAZIONE HIP-HOP

CAPITOLO 16                                                 247
    ENTER THE ZULU


QUINTO ATTO (2016-2020)                                     255

CAPITOLO 17                                                 257
    LA NOSTRA CITTÀ: EDUCAZIONE HIP-HOP

CAPITOLO 18                                                 273
    ANNI DUEMILADIECI: FILOSOFIA HIP-HOP

CAPITOLO 19                                                 285
    BREAK TO THE FUTURE


OUTRO                                                       299
    SURVIVAL TACTICS


RINGRAZIAMENTI E SHOUT OUT                                  315


 

 

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Pagina 9

INTRO
SPIN THAT SHIT!



Affrontai il provino con disinvoltura. «Chi sa girare sulla testa, lo faccia». Lo feci. Fui assunto dalla compagnia di danza. Molte prove, molte buste paga. Scarso reddito. Mi trasferii a Roma. Era il 2006, avevo ventidue anni. Insegnavo break dance fuori dal raccordo, tipo a Tor Bella Monaca. Mi accasai con quattro breaker calabresi nel quartiere dormitorio di Colli Aniene. Dopp tre settimane il mio pc, Darkness I, si spense. Così fece lo scooter, fuori dal raccordo. Entrai a far parte degli Urban Force, storico gruppo di break dance romano. Insieme a me c'erano Pumba da Montesacro, Timon dal Pigneto, Er Trauma dal Divino Amore, Spina da Spinaceto, Ino dal Quarto Miglio e il mio compaesano Stefano da Terni, detto "Braccyu", per via del grande bracciu. La missione: vincere tutto. Perdemmo tutto, in primis contro la squadra capitanata dai coinquilini calabresi.

Mio padre: «Ti do al massimo sei mesi».

Passò un anno.


«Dj, ferma la musica!».

Facciamo una capriola all'indietro, usciamo dal cerchio e torniamo coi piedi per terra.

Mi chiamo Giuseppe ma tutti mi conoscono come Nexus. Ho trentasei anni e da quando ne avevo quattordici sono un b-boy, vale a dire un ballerino di break dance votato allo stile di vita hip-hop. O meglio, la mia vita è l'hip-hop. E mi ha incasinato l'esistenza a suon di sfide, trabocchetti, rinculi e colpi sotto la cintura. In cambio l'hip-hop mi ha dato tutto: carattere, amicizia, lavoro, amore, coscienza politica e storie. Storie conservate sotto forma di lettere, suoni, immagini e "mosse segrete" che ho cercato di raccontare con ogni mezzo necessario per dimostrare al mondo cos'era l'hip-hop.

Arte, musica, danza, linguaggio, movimento, comunità, generazione, filosofia di vita: l'hip-hop è tutto e il contrario di tutto. I media mainstream lo liquidano a fenomeno musicale giovanilista, mentre la stampa più impegnata lo innalza a linguaggio artistico rivoluzionario. Per la sociologia è una subcultura organica al sistema, per il pensiero radicale una controcultura sovversiva. Per molti è uno scarto degli anni Ottanta, per altri un movimento universale. Non è un caso se la comunità di persone che ancora oggi vive e tramanda lo stile di vita doppia H, in gergo la scena, continui ad accapigliarsi su cosa sia e cosa non sia hip-hop. Ma una cosa è certa, ed è la prima che impari quando entri nella scena. L'hip-hop è una cultura nata agli inizi degli anni Settanta nel Bronx di New York e composta da quattro discipline o elementi: (I) il djing o turntablism, la pratica di selezione, manipolazione e sampling dei dischi in vinile, che aprì la strada a un nuovo genere musicale, il break-beat; (II) il breaking o b-boying/b-girling, la danza in cerchio sviluppata sui break-beat e volgarmente conosciuta come break dance; (III) l' mcing, acronimo di master of ceremonies, la pratica di intrattenere il pubblico attraverso le rime, presto trasformatasi in vero e proprio genere musicale sotto il nome di rap; e (IV) il writing, l'arte di tracciare e sviluppare lettere su spazi pubblici, giunta alla ribalta mediatica col famigerato nome di graffiti.

La militanza nella scena mi ha dato il gancio per iniziare a ballare (io, che giocavo a pallone e slidavo coi rollerblade!) ma anche scrivere, disegnare, ascoltare musica, e apprendere preziose lezioni di vita. Scontrarsi col vigilante di turno per rivendicare il diritto di ballare sotto a un portico mi ha insegnato a reclamare spazi e tempi non imposti dall'alto. Stringere un giro di amicizie meticcio e transnazionale mi ha dimostrato che l'unione fa la forza, ma la vera forza sta nella molteplicità. Sbucciarsi i polpastrelli sull'asfalto del più sperduto dei marciapiedi di periferia mi ha forzato a mantenere il contatto con la realtà, a viverne le contraddizioni e trasformarla in meraviglioso campo di battaglia artistico e sociale. Durante il trampolino adolescenziale ascoltare mixtape autoprodotti, prendere dimestichezza con le bombolette, indossare "pantaloni bragaloni" e gironzolare per mercatini in cerca di esoterici vinili electro funk, ha rinforzato gli anticorpi contro le dosi omologanti della cultura mainstream. Collettivizzare gli insegnamenti («Each one, teach one!»), organizzare iniziative, spettacoli e feste di strada, mi ha fornito il kit di sopravvivenza per l'atterraggio nella giungla politica e professionale dell'adultità.

Questa era la grandiosità dell'hip-hop che avevo fame di raccontare e, istintivamente, tendevo a proteggere dagli scherzi del suo stesso sistema immunitario.

Sempre la scena, infatti, racconta di essere nata l'11 agosto del 1973 quando Cindy Campbell e suo fratello Clive, detto dj Kool Herc, organizzarono una festicciola in vista del ritorno a scuola al 1520 di Sedwick avenue, oggi istituzionalizzato sotto il nome di «Hip-hop boulevard». Ma all'epoca non si chiamava mica hip-hop! Forse è stato un tizio di nome Lovebug Starski che cantava «Hip hop, Shoowop Bop!» a dare il nome alla cosa. O magari fu opera di quest'altro, Keith Cowboy, che intonò il ritornello «Hip hip hip hop hop hop!» prima di partire per il servizio di leva. Hip sta per anca ma anche per qualcosa di figo, mentre hop rimanda al salto (come il lindy hop!) e va a braccetto con hip. «Perciò quando la musica è hip, devi farci qualcosa di hop! Ecco perché l'ho chiamato hip-hop». Sono le parole del pioniere Afrika Bambaataa, leader della Universal Zulu Nation, a cui si conferisce il primato di aver riunito i famigerati quattro elementi (djing, breaking, mcing e writing) in un'unica cultura guidata dai valori di «Pace, unità, amore & divertimento». Ma nella narrazione delle origini si gareggia a chi è più originale. Secondo il Green Book, un manuale per i neofiti Zulu, esiste anche un quinto elemento: la «Conoscenza». Ma poi quel burlone di KRS-One, considerato il più grande filosofo rap, ha rilanciato a nove! Ai cinque di Bambaataa ha aggiunto «beatboxking, street fashion, street language» e «imprenditorialismo street». Quanti erano 'sti cavolo di elementi? Quattro, cinque o nove? A forza di girarci attorno mi venne il mal di testa.

Ambire a raccontare l'hip-hop significava assumersi la responsabilità di stendere e riallineare questi e altri squilibri etimologici, oltre a sgonfiarne le derive marketizzanti, sessiste, tribaliste e le tante, troppe narrazioni tossiche germinate all'interno della scena.

Ecco perché, una volta dinanzi alla tastiera, sono stato circondato da non pochi grattacapi.

Il primo: fuori dalla scena l'hip-hop è sinonimo di rap.

Al tramonto degli anni Duemila avevo ascoltato e raccolto decine di racconti fondativi di b-boy e b-girl e mi chiedevo perché non fossero annoverati nei libri o nelle riviste di settore insieme alle storie dei grandi rapper statunitensi. Ancora oggi, per molti "esperti", dopo gli anni Ottanta l'unico elemento hip-hop degno di analisi è il rap. Forse perché il rap è la disciplina col più alto impatto editoriale? O forse perché rap e letteratura hanno lo stesso codice. Si tratta di raccontare le parole con le parole: di parafrasare, insomma. Ma non è proprio nei testi e nelle copertine dell'epoca d'oro del rap se lo stereotipo misogino e ipermascolino dell'hip-hopparo si era insinuato nell'immaginario collettivo? E "ghetto superstar" come Dr. Dre e Jay-Z, innegabili innovatori della scena, facevano anche parte di un'élite milionaria ai vertici dell'industria musicale?

[f] «A seguire, il secondo rodimento di capo: la storia dell'hip-hop è una mitologia.

Le origini della cultura vengono tramandate nella scena usando gli stilemi di una epopea urbana fatta di divinità fondatrici (godfather), pionieri e originatori (true school), giovani innovatori (new school) e maestri jedi (old school) a cui ci si rivolge con l'appellativo di «King» e «Queen». Cazzo, esiste persino un dj Kool... Hercules! Ma c'è spazio anche per gli antagonisti: sucker, poser, clown e toy - scritta usata dai writer per sfregiare il pezzo dello "scrauso" di turno. Come se non bastasse, le gesta di questi personaggi leggendari, a partire dagli anni Duemila, sono state retroattivamente collocate all'interno di epoche ancestrali e gloriose: la Foundation era (1973-1979), dove si plasmano le fondamenta delle quattro discipline nell'alveo del Bronx, e la cosiddetta Golden age rap, l'epoca "classica" a cavalcioni degli anni Ottanta e Novanta, dove il rap afroamericano forgia il canone stilistico che farà scuola per le generazioni a venire.

Ne consegue che ai sopravvissuti di queste epoche mitiche sia affidato il ruolo di narratori onniscienti, da cui la terza grattata di capa: come racconti un mito collettivo quando qualcuno ne rivendica l'esclusiva? In soldoni la scena cade nella trappola dell' io c'ero. Io c'ero, tu no, ergo: la mia storia, cioè la storia dell'hip-hop, non è negoziabile. Ma spesso i racconti dei testimoni diretti affermano tutto e il contrario di tutto, contagiati da un malcelato senso di personalismo e rimpianto per i bei tempi andati. Inconsapevoli che quelle festicciole nel Bronx sarebbero divenute leggenda, le storie fondative sono in molti casi ricostruzioni aneddotiche e spurie di fonti documentabili. Ma non c'è da stupirsi. La memoria non è un archivio dove poter estrarre faldoni più o meno polverosi, ma una ragnatela di corde che risuonano fra loro, riassemblandosi di volta in volta in base all'ordine in cui vengono pizzicate. E in ogni ricordo si può riconoscere lo zampino di una partitura narrativa. Ad esempio quando il racconto di uno stesso evento differisce nella trama, ma rivela tecniche di storytelling comuni: nella mitologia hip-hop c'è sempre una battaglia da affrontare, un primato da reclamare, ribaltoni e versioni alternative alla vox populi che molto spesso servono al cantastorie di turno per officiare la nostalgica celebrazione di uno "spirito originale" irrimediabilmente perduto e inaccessibile alle nuove generazioni.

E quando si difendono strenuamente i bei tempi andati, nove volte su dieci l'intento non è pedagogico ma egogico. Ma se la mitizzazione delle origini di un popolo rievoca meccanismi da Grande Fratello, per una comunità minoritaria è spesso l'unica forma di autonomia nei confronti dell'inglobante egemonia storica del sistema maggioritario. Bersaglio della scena infatti sono proprio giornalisti e studiosi che pretendono di raccontare l'hip-hop meglio di coloro che l'hanno vissuto in prima persona.[/f]

Per inseguire il sogno di raccontare al mondo le meraviglie della doppia H, consapevole di stare con i piedi in due staffe, rischiavo di espormi al fuoco amico di pionieri e compagni di cerchio.

Da qui la quarta, ultima e inossidabile migragna: come la racconto questa roba qua? Come gestire questo turbinio urticante di narrazioni e contronarrazioni che da quasi mezzo secolo investe persone di tutti i tipi in tutto il mondo, fra marciapiede e palcoscenico, bassifondi e accademia, passione e showbiz, fuoco dentro e ghiaccio fuori?

Nella scena gli approcci più in voga sono tutt'ora agli antipodi: quello dogmatico, ovvero prendere per oro colato la versione di un pioniere e ripeterla a pappardella; o quello relativista, per cui tutto vale tutto e quindi non vale niente, il rosso è come il nero, e perché no, in futuro pure ai fascisti sarà permesso di fare quattro salti nel cerchio! Poiché entrambi gli approcci erano inefficaci, anziché proporre l'ennesima "storia ragionata" dell'hip-hop ho inclinato l'asse di rotazione e ragionato sulle storie. Per un fenomeno così disorientante e insidioso, il girare sulla testa mi ha portato a immaginare un libro dinamico, ipertestuale e plissettato... come uno stradario. Una risorsa consultabile "al bisogno" dove al posto di capitoli e paragrafi fossero contrassegnati eventi storici e scorciatoie concettuali. Così, invece di raccontare una storia, ho cartografato storie esemplari per orientarsi nell'insidiosa mappa della doppia H proprio come uno stradario fornisce le coordinate per raccapezzarsi sulla cartina di una caotica metropoli. Ho pensato di organizzare l'indice del libro attraverso i decenni, che come lunghi boulevard scandagliano la storia dell'hip-hop in maniera non lineare (anni Settanta, anni Duemila, anni Novanta, ecc.). Poi ho tracciato delle avenue, degli inserti testuali che intersecano i boulevard storici per mappare i concetti alla base dello stile di vita hip-hop come crew, cipher, foundation, battle, style e flow. Ma così avrei rischiato di scrivere un altro, seppur complesso, librone sulla storia dell'hip-hop: ricco di sentieri battuti, ma poco adatto per partire all'avventura.

Una storia perciò ho scelto di raccontarla, ed è quella delle battaglie che hanno portato alla costruzione di questo libro. Gli incroci fra boulevard e avenue sono diventati luoghi dove imbattersi in immagini, documenti, svrigolettature e salti di registro, in bilico fra romanzo e reportage, ricerca storica e memoriale. Perché se vuoi raccapezzarti in un pasticciaccio come l'hip-hop usi tutto quello che ti capita fra le mani. È così germogliata una cartografia emozionale che non rinuncia a segnalare i percorsi sdrucciolevoli, le strade senza uscita e i pericoli che il suo cartografo e altri avventurieri dell'hip-hop hanno incontrato, incontreranno, e chi legge, magari, troverà la fantasia di superare.

Dopo anni di colpi a vuoto e dolorosi fallimenti avevo immaginato un libro così, e ora che lo sai, possiamo rientrare nel cerchio e ricominciare il racconto di come sono riuscito a scriverlo.

«Dj siamo pronti: spin that shit!».

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