Autore Viet Thanh Nguyen
Titolo Il militante
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2021, Bloom 191 , pag. 432, cop.fle., dim. 13x21,5x2,5 cm , Isbn 978-88-545-1413-3
OriginaleThe Committed [2020]
TraduttoreLuca Briasco
LettoreGiangiacomo Pisa, 2021
Classe narrativa vietnamita , narrativa statunitense , paesi: Vietnam , guerra-pace












 

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Pagina 9

Prologo

Noi


Eravamo gli sgraditi, gli indesiderati, gli ignorati, invisibili a chiunque fuorché a noi stessi. Valevamo meno di niente, e niente vedevamo mentre, acquattati, semiciechi, nel ventre buio della nostra arca, eravamo in centocinquanta a sudare, compressi in uno spazio che non era destinato a noi mammiferi, ma ai pesci del mare. Con le onde che ci trascinavano da una parte all'altra, parlavamo nelle nostre lingue natie. Per alcuni ciò significava pregare; per altri, bestemmiare. Quando una variazione nel moto delle onde spinse con piú forza la nostra nave, uno dei pochi tra di noi che erano marinai sussurrò, Siamo sull'oceano, adesso. Dopo ore trascorse attraversando un fiume, un estuario e un canale, avevamo lasciato la nostra madrepatria.

Il timoniere sollevò la botola e ci chiamò sul ponte della nostra arca, che gli indifferenti avrebbero sminuito definendola un semplice barcone. Attraverso il sorriso sghembo della luna nascente ci vedemmo soli sulla superficie del mondo acquoreo. Per un istante la gioia ci stordí, fino a quando le onde dell'oceano scatenarono tutt'altro stordimento. Ci svuotammo sul ponte, e uno addosso all'altro, e anche quando non ci era rimasto piú niente dentro continuammo ad ansimare e rigettare, maledetti dal nostro vomito. Fu casi che trascorremmo la prima notte in mare aperto, tremando alla brezza dell'oceano.

Arrivò l'alba, e ovunque guardassimo vedevamo solo l'orizzonte che si allontanava all'infinito. La giornata era calda, senz'ombra e senza rifugio, senza niente da mangiare se non qualche boccone e senza niente da bere se non a cucchiai, con un viaggio del quale non conoscevamo la durata e con le razioni ridotte al minimo. Ma pur mangiando cosí poco disseminammo il ponte e la stiva delle nostre tracce umane, ed entro sera ci ritrovammo immersi nelle nostre stesse deiezioni. Quando, al crepuscolo, scorgemmo una nave vicino all'orizzonte, gridammo fino a seccarci la gola. Ma la nave mantenne la distanza.

Il terzo giorno incrociammo un mercantile che fendeva il vasto deserto del mare, un dromedario con il ponte che si levava sopra la prua, ricolmo di marinai. Gridammo, agitammo le braccia, saltammo su e giú. Ma il mercantile prosegui nella sua traiettoria, sfiorandoci solo con la scia. Il quarto e il quinto giorno apparvero altre due navi cargo, ciascuna piú vicina della precedente, con una bandiera diversa sul pennone. I marinai ci indicarono con le dita, ma per quanto li supplicassimo, sollevando tra le braccia i nostri bambini, le navi non piegarono verso di noi, e non rallentarono neppure.

Il quinto giorno morí una bambina, e prima che offrissimo il suo corpo alle onde del mare il sacerdote disse una preghiera. Il sesto giorno fu il turno di un bambino. Alcuni pregarono Dio con rinnovato fervore, altri cominciarono a dubitare della sua esistenza; alcuni che non credevano iniziarono a farlo; ma altri, che non credevano a loro volta, si rafforzarono nella propria incredulità. Il padre di uno dei bambini morti gridò, Mio Dio, perché ci stai facendo tutto questo?

Fu in quell'istante che tutti capimmo quale fosse la risposta a quest'interrogativo, che l'umanità si porrà in eterno: Perché?

Era semplicemente, e sempre sarà: Perché no?

Estranei uno all'altro quando ci eravamo trascinati a bordo della nostra arca, ora eravamo piú intimi di una coppia di amanti, immersi nei nostri stessi liquami, le facce verdognole, la pelle piagata dal sale e bruciata dal sole. Molti di noi erano fuggiti dalla madrepatria perché i comunisti al potere ci avevano etichettati come marionette, o pseudo-pacifisti, o nazionalisti borghesi, o reazionari decadenti, o intellettuali dalla falsa coscienza, o perché eravamo imparentati con uno di questi soggetti. C'erano anche un'indovina, un geomante, un monaco, il sacerdote e almeno una prostituta, che il cinese seduto accanto a lei accolse sputandole addosso e dicendo: Perché questa puttana è qui insieme a noi?

Perfino tra gli indesiderati esistevano degli indesiderati, e questo, in alcuni di noi, non poté che suscitare ilarità.

La prostituta ci guardò malissimo e disse: Che cosa volete, voi?

Noi, gli indesiderati, desideravamo troppe cose. Desideravamo cibo, acqua e parasole, anche se ci saremmo fatti bastare un ombrello. Desideravamo vestiti puliti, bagni e gabinetti, anche alla turca, perché acquattarci a terra era molto piú sicuro e meno imbarazzante che appenderci alle paratie di un barcone scosso dalle onde, con il posteriore sospeso nel vuoto. Desideravamo la pioggia, le nuvole e i delfini. Desideravamo un po' di fresco durante il giorno e un po' di calore durante la notte. Desideravamo sapere per sommi capi quando saremmo arrivati a destinazione. Desideravamo essere ancora vivi, quando fossimo sbarcati. Desideravamo che qualcuno venisse a liberarci da quel sole implacabile che ci arrostiva. Desideravamo un televisore, dei film, della musica, qualunque cosa ci aiutasse a trascorrere il tempo. Desideravamo amore, pace e giustizia per tutti fuorché per i nostri nemici, ai quali auguravamo di bruciare all'inferno, se possibile per l'eternità. Desideravamo l'indipendenza e la libertà, ma non per i comunisti, che sarebbero dovuti finire tutti in un campo di rieducazione, preferibilmente a vita. Desideravamo dei leader benevoli che rappresentassero il popolo, intendendo per popolo noi e non loro, chiunque fossero. Desideravamo vivere in una società di eguali, anche se non avremmo avuto problemi ad accettare l'eventualità di possedere piú beni del nostro vicino di casa. Desideravamo una rivoluzione che rovesciasse l'esito della rivoluzione che avevamo appena attraversato. In sintesi estrema, desideravamo di non dover desiderare piú nulla!

Certamente non desideravamo una tempesta, ma fu proprio ciò che ci riservò il settimo giorno. I credenti gridarono ancora una volta: Dio, aiutaci! I miscredenti gridarono invece: Dio, brutto bastardo! Quale che fosse la fede di ognuno, non c'era modo di evitare la tempesta che si era addensata all'orizzonte e si avvicinava sempre di piú. Il vento, impazzito, cresceva d'intensità, e col sollevarsi delle onde la nostra arca fu sospinta verso l'alto, guadagnando velocità. I lampi illuminavano i solchi scuri delle nubi, e i tuoni sovrastavano il nostro lamento collettivo. Un torrente di pioggia ci si riversò addosso, e quando le onde sospinsero il nostro vascello ancor piú in alto i credenti pregarono, i miscredenti imprecarono, ma tutti piangevano. Poi la nostra arca raggiunse il picco, e per un eterno istante rimase sospesa sulla cresta innevata di un precipizio. Guardando quella profonda vallata colore del vino che ci attendeva, fummo certi di due cose. La prima era che saremmo sicuramente morti tutti; la seconda, che saremmo quasi certamente sopravvissuti.

5í, ne eravamo certi. Noi... sopravvivremo!

E poi sprofondammo nell'abisso, con un unico grido.

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Pagina 24

I francesi arruolarono mio padre per combattere nella Grande Guerra, proseguí mia zia. Io e Bon sedevamo entrambi sul bordo della nostra sedia, aspettando che prendesse il cucchiaio o addentasse la baguette per aggredire il cibo che ci stava davanti, provocante. Aveva diciott'anni e venne trascinato dall'Indocina tropicale alla metropoli, insieme a decine di migliaia di altri. Non che abbia mai visto Parigi fino a molto dopo la fine della guerra. E non è mai tornato a casa. Le sue ceneri sono in camera mia, sopra il comò.

Non c'è niente di più triste dell'esilio, disse il povero Bon, con le dita che tremavano sopra la tovaglia. Per quasi tutta la sua vita non avrebbe mai detto niente di neppur remotamente filosofico, ma l'esilio e la tragica morte della moglie e del figlio lo avevano reso sempre piú meditativo. Riporti le ceneri in patria, proseguí. Solo allora lo spirito di suo padre potrà conoscere veramente la pace.

Penserete che parole come queste abbiano potuto smorzare il nostro appetito, ma io e Bon agognavamo di mangiare qualunque cosa che fosse diversa dalle razioni di sussistenza di un'organizzazione non governativa, incaricata di tenere vivi i rifugiati e nient'altro. Inoltre, i francesi e i vietnamiti condividevano un amore per la melanconia e per la filosofia che gli americani, con il loro ottimismo sfrenato, non avrebbero mai potuto comprendere. Il tipico americano preferiva la versione liofilizzata della filosofia che si poteva trovare nei manuali di autoaiuto, mentre perfino i piú ordinari tra i francesi e i vietnamiti nutrivano una forma di amore per la conoscenza.

Cosí chiacchierammo e mangiammo, e cosa ancor piú importante bevemmo, fumammo e riflettemmo in libertà: tre delle mie peggiori abitudini, che mi erano state negate durante la rieducazione. Per soddisfarle, mia zia non si limitò a stappare diverse bottiglie di vino rosso, ma aprí anche una scatola marocchina che conteneva due tipi diversi di sigarette, con o senza hashish. Perfino la parola "hashish" ha un suono attraente, o quanto meno esotico, rispetto a "marijuana", la droga preferita in America, per quanto entrambe provengano dalla stessa pianta. La marijuana era la prima scelta degli hippy e degli adolescenti, e il suo simbolo era rappresentato da una band irreparabilmente fuori moda come i Grateful Dead, che Yves Saint-Laurent avrebbe condotto davanti a un plotone d'esecuzione per aver reso popolari le magliette psichedeliche. L'hashish evocava il Levante e i souk, lo strano e l'eccitante, il decadente e l'aristocratico. Si poteva anche provare la marijuana in Asia, ma nell'Estremo Oriente si fumava l'hashish.

Perfino Bon accettò di dividere una delle sigarette piú potenti, e fu allora, saziata la fame, con i corpi e le menti rilassate, sentendoci quasi francesi nella nostra estasi postprandiale, che per i rifugiati era piacevole quasi quanto quella postcoitale, che Bon notò una delle foto incorniciate e sistemate sulla mensola del camino.

Ma non è... Si alzò bruscamente, barcollò, riprese l'equilibrio e poi, scavalcando le frange di un tappeto persiano, si diresse verso il camino. È... Puntò un dito verso la faccia al centro della foto. È lui.

Quando dissi a mia zia che a quanto pareva lei e Bon avevano una conoscenza in comune, rispose: Non riesco a immaginare chi.

Bon si voltò dal camino, paonazzo di rabbia. Ve lo dico io chi. Il demonio.

Balzai in piedi. Se il demonio era qui, volevo conoscerlo! Ma a un'occhiata piú ravvicinata... Non è il demonio, dissi, guardando una foto colorizzata di un uomo nel fiore degli anni, con i capelli e la barbetta bianchi, circonfuso da un alone di luce. È Ho Chi Minh.

Un tempo ero stato un comunista militante come lui, e la mia missione era proseguita anche in America, dove avevo lavorato a sostegno della rivoluzione in patria facendo del mio meglio per ostacolare la contro-rivoluzione all'estero. Avevo preservato questo segreto pressoché con tutti, e in particolare con Bon. Gli unici al corrente delle mie simpatie comuniste erano mia zia e suo nipote, Man. Io, lui e Bon eravamo fratelli di sangue, i tre moschettieri, o forse, per quello che sarà il probabile giudizio della storia su di noi, i tre marmittoni. Io e Man eravamo spie che lavoravano in segreto contro la causa anticomunista che Bon aveva tanto a cuore, e questo sotterfugio ci aveva fatti trovare in ogni genere di situazioni difficili e sperimentare un metodo di fuga che il piú delle volte implicava la morte di qualcuno. Ancora adesso Bon era convinto che Man fosse morto e che io fossi anticomunista quanto lui, perché aveva visto le cicatrici che i comunisti mi avevano lasciato addosso durante la rieducazione, ed era certo che un trattamento del genere lo si potesse riservare solo ai nemici. Non ero un nemico del comunismo, ma solo una persona che soffriva di una debolezza quasi fatale: la capacità di simpatizzare con i veri nemici del comunismo, inclusi gli americani. Se c'era una cosa che la rieducazione mi aveva insegnato era che i comunisti piú convinti erano identici ai capitalisti più convinti nella totale incapacità di comprendere le sfumature. Mostrare simpatia per il nemico equivaleva a mostrarla per il diavolo, e andava considerato un tradimento in piena regola. Bon, cattolico devoto, fervente anticomunista, ne era certamente convinto. Aveva ucciso piú comunisti di chiunque altro conoscessi, e pur rendendosi conto che alcune tra le sue vittime erano probabilmente state solo scambiate per comuniste, era fiducioso che la Storia e Dio lo avrebbero perdonato.

Ora puntò un dito contro mia zia e disse: Lei è comunista, vero? Io gli afferrai la mano d'istinto, sapendo che se quel dito fosse stato a contatto con un grilletto, mia zia sarebbe morta in meno di un secondo. Bon mi allontanò la mano con uno schiaffo, e mia zia inarcò un sopracciglio e si accese una sigaretta di quelle senza etichetta.

Sono una compagna di viaggio, piú che una comunista, disse. Sono abbastanza umile da sapere di non essere una vera rivoluzionaria, ma solo una simpatizzante. Nel parlare delle sue idee politiche era distaccata come possono esserlo soltanto i francesi: un popolo talmente freddo da trovare quasi inutile l'aria condizionata, cosí preziosa invece per gli americani. Come mio padre, sono piú trotzkista che stalinista. Credo nel potere al popolo e nella rivoluzione internazionale, non in un partito che comandi a bacchetta nel suo paese. Credo nei diritti dell'uomo e nell'eguaglianza universale, non nel collettivismo e nella dittatura del proletariato.

E allora perché mai tiene una foto del demonio in casa sua?

Perché non è il demonio, ma il piú grande dei patrioti. Quando viveva a Parigi, si faceva addirittura chiamare Nguyen il Patriota. Credeva nell'indipendenza della nostra patria, come voi e come me, e come mio padre. Non dovremmo celebrare ciò che abbiamo in comune?

[...]

Prima di andarcene, la mattina dopo, consegnammo a mia zia un regalo dall'Indonesia, una delle quattro confezioni di kopi luwak che Bon aveva nel borsone. Eravamo stati ispirati da uno dei tirapiedi del Boss, che si era presentato da noi, il giorno prima della partenza, con tre confezioni di kopi luwak da donare al suo capo. Il Boss adorava quel caffè, ci aveva spiegato lo sgherro. Il naso tremolante, i baffetti trasandati e le pupille nere lo facevano somigliare alla donnola che era disegnata sulla confezione, o cosí mi era parso sul momento. Non c'era niente che il Boss desiderasse di piú, aveva aggiunto il tirapiedi. All'aeroporto, io e Bon avevamo messo insieme i nostri pochi soldi e avevano comprato la quarta confezione di kopi luwak - che ora era nelle mani di mia zia - scegliendo la stessa marca. Quando le spiegai che il luwak, una specie di gatto, mangiava i chicchi di caffè crudi e li espelleva dopo che il suo intestino li aveva fatti fermentare in modo gastronomico, mia zia scoppiò a ridere, con un fare vagamente offensivo. Il kopi luwak era molto costoso, soprattutto per dei rifugiati come noi, e comunque se c'era una cosa che i francesi avrebbero dovuto amare era l'idea di un caffè filtrato attraverso le budella di un felino. Vista la loro peculiare propensione per il cervello, la trippa, le lumache et similia, i francesi erano cittadini onorari dell'Asia nella determinazione eroica a mangiare ogni parte di un animale.

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Non è la Francia, la nostra madrepatria? Mio padre, quando mi faceva da maestro a scuola, ci faceva sempre ripetere insieme a lui: La Gallia è la terra dei nostri antenati.

Tuo padre era un colonizzatore e un pedofilo, due cose che spesso vanno di pari passo. La colonizzazione è una forma di pedofilia. Il paese paterno stupra e molesta i suoi figli infelici, tutto nel nome sacro e ipocrita di una missione civilizzatrice!

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Non ero una boat-person, a meno che anche i Padri pellegrini sfuggiti alle persecuzioni religiose per raggiungere l'America si potessero definire boat-people. Quei rifugiati avevano avuto una sola fortuna: che i nativi, destinati alla sventura, non avessero una macchina fotografica con cui immortalarli, rivelando quanto fossero sporchi, macilenti, con le barbe incolte e infestati dai pidocchi. Al contrario, la nostra miseria era stata immortalata per l'eternità dall' Humanité, sulle cui pagine apparivamo tutto fuorché umani. No, i boat-people non erano umani, non avevano beneficiato dello sguardo di un pittore romantico che li rappresentasse orgogliosamente in piedi, sulla prua della loro nave che affondava, decisi ad affrontare la furia mostruosa degli elementi con la nobiltà degli eroi greci, custoditi nel Louvre per l'ammirazione dei turisti e lo studio degli storici dell'arte. No, i boat-people erano vittime, oggetti da compatire, fissati per sempre nelle foto pubblicate sui giornali. Una parte di me, quella che veniva da mia madre, desiderava quella pietà. Ma la parte di me più adulta non desiderava e non meritava la pietà, e non desiderava neppure essere definita una vittima, né meritava di essere considerata tale: non dopo tutte le azioni e i misfatti di cui mi ero macchiato. Se il prezzo per essere riconosciuti come umani passava per la pietà, al diavolo l'umanità. Ero un bastardo schifoso, e che tutti lo riconoscessero!

Invece, tutto quel che riuscii a dire fu: Grazie. Sí, vi prego, aiutateli.

BFD si alzò in piedi, pronto a congedarsi, soddisfatto non solo per aver rimesso me e il mio popolo al nostro pietoso posto, ma anche per avermi indotto a ringraziarlo della sua condiscendenza. Mi venne in mente che se il mio francese era goffo e il mio vietnamita incomprensibile alle sue orecchie, il mio inglese era fluente, e non c'era niente che facesse sentire un francese piú inferiore, e quindi furibondo, che sentir parlare inglese. In un angolino di ogni anima francese ciondolava un americano, che di tanto in tanto tossiva con discrezione per ricordare al francese la loro storia comune, iniziata quando i francesi avevano sostenuto i poveri americani alle prime armi, nella loro rivoluzione contro gli inglesi, per poi trovarsi a dover chiedere l'aiuto di quegli stessi americani durante due diverse guerre mondiali. E poi l'"Indocina", qualunque cosa significasse questo termine, visto che non eravamo né indiani, né cinesi. Era questa fantastica Indocina che i francesi avevano ceduto agli ormai turbolenti americani. Come doveva essere doloroso essere costretti a ricordare il declino del proprio impero, facendo fronte alla nascita di un impero nuovo! Oh, sí, l'inglese in questo caso era un insulto e una sfida in piena regola, soprattutto se a parlarlo era uno come me, che non era neppure americano ma "indocinese".

Cosí, in un perfetto inglese americano, dissi: Ha per caso pronunciato la parola hashish? Perché si dà il caso che io ne abbia un po' a disposizione, e di prima scelta.

BFD esitò, sorpreso nel sentir parlare quel pappagallino giallo. Il raffinato socialista mi avrebbe liquidato con poche parole in francese, ma la tentazione di dimostrare che anche lui sapeva parlare in inglese fu troppo forte.

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Pagina 61

[...] Quanto a mia zia, anche lei aveva i suoi piani su di me.

Ho un amico che insegna francese agli immigrati, proseguî. Devi perfezionare il tuo. Sei mezzo francese, in fondo, e dovresti conoscere la lingua di tuo padre quanto conosci l'inglese. E non puoi continuare a lavorare per l'eternità in quel ristorante. O comunque, non dovresti farlo. Non che ci sia qualcosa di male nel lavorare in un ristorante. Ma tu hai un talento superiore.

Ripensai alla mia carriera come spia, ai miei piani e alle mie manipolazioni, ai miei ideali e alle mie illusioni, alle mie decisioni e alle mie incertezze. La mia vita di rivoluzionario e di spia si era imposta di rispondere a una sola domanda, che avevo ereditato da quell'avanguardia della rivoluzione che era stato Lenin, e che mi aveva guidato sin dagli anni del liceo: CHE FARE? Nel mio caso, avevo ucciso due uomini, ed erano innocenti, o in buona parte innocenti, mentre io ero colpevole, o in gran parte colpevole. Li avevo uccisi entrambi per ordine del Generale, che aveva commesso l'errore di fidarsi di me quanto bastava per accogliermi come ufficiale nelle Squadre Speciali, con il compito di togliere di mezzo comunisti e dissidenti. Il Generale non aveva mai sospettato che fossi una spia, né durante gli anni di Saigon né in seguito, quando ero fuggito con lui e con la sua famiglia e mi ero stabilito a Los Angeles come rifugiato. Quando Man mi aveva ordinato di andare in America con il generale, aveva ragione: il Generale e i suoi uomini volevano continuare a combattere da laggiú, nel tentativo di riconquistare la nostra madrepatria e sconfiggere la rivoluzione. Se gli Oscar al miglior attore fossero stati dati alle spie ne avrei meritato uno, perché ero stato abbastanza suadente da convincere il Generale che la vera spia era il mio collega della polizia segreta, il maggiore crapulone. E quando il Generale aveva deciso che il maggiore crapulone doveva ricevere un biglietto di sola andata per l'altro mondo, aveva scelto me per consegnarglielo. Non ero stato io a premere il grilletto mentre il maggiore crapulone mi sorrideva sul vialetto di casa sua - se n'era occupato Bon -, ma ero comunque io il vero responsabile della sua morte.

Quanto al secondo uomo che avevo ucciso, Sonny, lo avevo conosciuto quando eravamo tutti e due studenti nella California meridionale, negli anni Sessanta, e quando lui era un attivista di sinistra e io un comunista che fingeva di avere simpatie di destra. Sonny aveva saggiamente deciso di restare in California e di diventare giornalista, un mestiere decisamente pericoloso nel nostro paese. Ma era stato il nostro paese a raggiungerlo quando noi rifugiati eravamo arrivati in America insieme al Generale, il quale sospettava Sonny di essere un agente comunista. Anche stavolta il Generale mi aveva scelto per consegnare il suo biglietto di sola andata, e se io, il suo supercompetente e superanticomunista aiutante di campo, mi fossi rifiutato, la sua natura paranoica mi avrebbe automaticamente trasformato in un individuo sospetto. Avevo sparato a Sonny da distanza ravvicinata, e lui e il maggiore crapulone mi avevano perseguitato a intermittenza fin da allora, con le loro voci che emergevano di tanto in tanto dal canale disturbato del mio inconscio.

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Pagina 80

Il Maoista soffiò fuori una nube di fumo. Ci sono intere parti del mondo che devono ancora cedere al capitalismo, prima di poter assistere a una sollevazione autentica e globale degli oppressi. Prendi l'Africa, per esempio. Il capitalismo ha saccheggiato l'Africa, prima schiavizzandone la popolazione, poi depredandone le risorse naturali. Il capitalismo continuerà a sfruttare l'Africa con rinnovata crudeltà. Qualcuno deve fornire lavoro a buon mercato per produrre beni a buon mercato, e poi quegli stessi lavoratori devono comprare i beni costosi importati nel loro paese, che sono stati prodotti con le risorse estratte in casa loro. Ah, la macchina in moto perpetuo delle fantasie capitaliste! Ma una volta che tutto ciò è accaduto nasce un proletariato, poi una borghesia, e perfino quando alcuni tra i piú poveri vengono sottratti alla miseria assoluta, le diseguaglianze continuano a crescere, perché i ricchi diventano piú ricchi a una velocità molto maggiore rispetto a quella che occorre ai poveri per diventare un po' meno poveri. Questo processo inevitabile è insito nel capitalismo, il che significa che anche le condizioni per la rivoluzione lo sono.

Le è mai capitato di vivere personalmente una rivoluzione? dissi.

Il maggio del 1968, rispose il Maoista, in tono orgoglioso. Non dimenticherò mai come noi studenti di tutti i paesi abbiamo quasi cambiato il mondo, finché non ci siamo imbattuti in quello che Althusser - il mio maestro, Louis Althusser - chiamava «l'Apparato repressivo di Stato». Stavo studiando per il dottorato insieme a lui, ma lottavo ancora sulle barricate. Ammetto di aver tirato un paio di sampietrini. Il nostro comune amico BPD - allora nessuno lo chiamava ancora con le sue iniziali - ha fatto lo stesso. La polizia - vale a dire, una parte dell'Apparato repressivo di Stato - ci tirava i lacrimogeni e ci bastonava. Non dimenticherò mai l'impatto di quei manganelli! Mi ha insegnato tante cose quante ne ho apprese dalla teoria e dalla filosofia. Quei manganelli confermavano quanto Benjamin - Walter Benjamin - ha affermato nel suo Per una critica della violenza, ossia che a legittimare lo Stato non è la legge ma la violenza. Lo Stato ambisce al monopolio della violenza, il monopolio della violenza prende il nome di legge, e la legge legittima se stessa. La polizia non agisce per proteggere noi, i cittadini, ma per proteggere lo Stato e il suo sistema di leggi. Ed è per questo che la risposta piú adeguata al manganello è la rivoluzione nelle strade! E le rivolte studentesche nelle strade di tutto il mondo, da Tokyo a città del Messico, facevano semplicemente eco alle rivoluzioni in Algeria e in Vietnam, dove gli algerini e i vietnamiti dovevano affrontare non i manganelli, ma le pallottole. I vietnamiti si ribellavano a quel monopolio della violenza che era la colonizzazione! E colí facendo, hanno rivelato fino a che punto la colonizzazione stessa fosse illegittima. Non combattevano solo contro l'Apparato repressivo di Stato, ma anche contro quello che Althusser definiva l'Apparato ideologico di Stato, e che ci induce a credere in leggi che sono scritte contro i nostri stessi interessi! Perché altrimenti i lavoratori crederebbero che il capitalismo è fatto a loro misura? Perché i colonizzati crederebbero nella superiorità dell'uomo bianco? L'impatto di quel manganello mi ha dimostrato la verità di quanto affermava Che Guevara: avremo bisogno che altri cento Vietnam fioriscano in tutto il mondo.

Ma durante la nostra guerra sono morte almeno tre milioni di persone, dissi lentamente, dando il tempo al mio cervello annebbiato di eseguire qualche elementare calcolo aritmetico. Moltiplicando questa cifra per cento si arriverebbe a...

A quel punto le mie capacità cognitive si bloccarono, perché le mie doti matematiche non riuscivano a raggiungere un livello di sofferenza di quella portata. Non sapevo se volessi ridere, piangere, gridare o farmi rinchiudere in un manicomio. Anch'io credevo in tutto quello che aveva detto il Maoista, ma a differenza sua avevo vissuto una rivoluzione, e le sue conseguenze. E non era solo il capitalismo a creare fantasie attraverso i suoi Apparati ideologici di Stato, e a imporle con la forza attraverso gli Apparati repressivi di Stato: il comunismo faceva lo stesso. Che cos'era il campo di rieducazione se non un Apparato repressivo di Stato destinato a realizzare gli obiettivi dell'Apparato ideologico di Stato? Il compito del campo di rieducazione consisteva nel trasformare i suoi ospiti in persone pronte a giurare di essere libere anche se erano schiave, a proclamare di essere state ricreate quando in realtà erano state solo spezzate per sempre. Che Guevara e il Maoista avevano visto la rivoluzione vietnamita solo da lontano, truccata ad arte, mentre io l'avevo vista da vicino, in tutta la sua nudità. Si dava per scontato che tre milioni di morti fossero il prezzo giusto da pagare per una rivoluzione, anche se era sempre più facile dirlo per chi era rimasto vivo! Ma tre milioni di morti per quella rivoluzione? Avevamo semplicemente sostituito un Apparato repressivo di Stato con un altro, con l'unica differenza che il nuovo apparato apparteneva a noi. Immagino che per un Maoista il punto fosse che si doveva toccare il fondo, prima di trovare l'ispirazione per risalire. Forse il mio problema stava nel fatto di essermi convinto che noi vietnamiti avessimo toccato il fondo sotto i francesi, per poi scoprire che c'era un altro fondo da toccare sotto gli americani, e in realtà ce n'era addirittura un terzo ancor peggiore: il nostro.

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[...] Per buona parte della mia vita avevo costantemente e disperatamente creduto in qualcosa, solo per scoprire che nel cuore di quel qualcosa c'era il nulla. E allora, perché non dare una possibilità anche al nulla?

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Pagina 138

7.


Stordito dalla mia profondità, o forse stordito dal dolore alla testa, mi avviai a piedi verso la mia destinazione, lungo un percorso dove le case e gli appartamenti erano scatole tutte identiche, alte due o tre piani, con pochi caffè e brasserie lontani gli uni dagli altri. Le verdure depresse e la frutta amareggiata esposte fuori dai due minimarket cui passai davanti erano, a parte me, le forme di vita piú tristi lungo quella strada, e avevano l'unica brama di finire in mani scevre da qualunque giudizio. Invece di ricordare la Francia della mia immaginazione colonizzata, quel quartiere anonimo non aveva alcuna destinazione interessante anche solo da costeggiare, come se fosse stato progettato da un americano o da un vietnamita. Alla fine mi fermai davanti a una porta verde e ammaccata, in una viuzza melanconica, suonai il campanello e attesi.

Allô?

Feci un sospiro e ripetei ciò che Le Cao Boi mi aveva suggerito di dire, una frase che era stato lui stesso a escogitare: Vorrei andare in Paradiso.

Stai scherzando, vero? gli avevo detto, ma lui si era limitato a stringersi nelle spalle. Ai clienti non importa, quindi perché dovrebbe importare a te? E cosa c'è di male a nutrire qualche piccola aspirazione?

L'agente di viaggio, ne sono certo, aveva pensato la stessa cosa.

La porta verde per il Paradiso si apri e una donna sorridente, con la dentatura orrenda di chi ha trascorso l'infanzia nel Terzo mondo, mi fece segno di entrare. Era anziana, e dall'accento la si sarebbe detta filippina. Buongiorno, signore, disse in inglese. Posso prendere il suo soprabito? Posso slacciarle le scarpe? Posso accompagnarla in salotto? Posso prepararle un caffè? Un tè? O vuole del vino? O del whisky?

Whisky, dissi con un nodo in gola, perché quel tipo di offerta aveva sempre il potere di commuovermi.

L'ossequiosa governante fece un inchino e usci indietreggiando dalla sala d'attesa. Le tapparelle di alluminio alle finestre erano tutte abbassate, e la camera era illuminata grazie a delle modeste lampade da parete e a un televisore grande quasi quanto quello del Boss. I divani rilucevano come se il tessuto fosse resistente alle macchie; se non lo fosse stato, tanto peggio.

Siediti pure, amico mio, disse l'unica persona dentro la stanza. Seduto vicino al televisore c'era il buttafuori del Paradiso, grosso e nero, a gambe incrociate, impegnato a far scrocchiare le nocche con aria annoiata. Il televisore era sintonizzato su un talk show, e a giudicare dalla copertina di L'essere e il nulla di Sartre in bella evidenza sullo schermo, l'argomento di discussione era l'esistenzialismo, dibattuto da un attore e un calciatore che riconobbi per averli già visti in tv, ma anche da due uomini bene in carne, che portavano entrambi gli occhiali. Mi ci volle solo un istante per riconoscere in uno di quei due intellettuali di professione il Maoista, il quale, a giudicare dal suo aspetto sobrio e dotto, sembrava non tenere in alcuna considerazione il suo corpo, a eccezione della gola o dei polmoni, e solo perché quelle due parti gli servivano per parlare e per fumare. Penso, dunque sono era il sentimento che emanava dal suo aspetto; o forse era Parlo, dunque sono.

È la prima volta, vero?

Sí, risposi, concentrandomi sul cerotto bianco incollato a una guancia del buttafuori. Poi, nel timore di passare per inesperto, aggiunsi: È la prima volta qui.

Il buttafuori si chiuse in un silenzio meditativo mentre guardava la televisione. A un esame piú attento, il cerotto non era esattamente bianco, ma piuttosto beige. Sembrava bianco in contrasto con la nerezza della sua pelle, che a sua volta non era nera, in realtà, ma lo sembrava ben di più in contrasto con il cerotto.

Sartre non è male, disse il buttafuori. Ma io preferisco Fanon e Césaire.

Anche io, dissi.

Il buttafuori continuò a guardare il dibattito su Sartre, ma il fatto che avesse menzionato Fanon e Césaire mi riportò alla mente l'ultima volta nella quale mi ero imbattuto in loro, all'Occidental College, dove avevo trascorso sei anni per ottenere una laurea e una specializzazione in Studi americani. Il mio mentore, il professor Hammer, aveva insegnato Fanon e Césaire durante il suo seminario sulla Letteratura del Terzo mondo. Era il 1964, erano trascorsi solo due anni dall'indipendenza dell'Algeria dalla Francia, e l'anticolonialismo si stava diffondendo in tutto il Terzo mondo. Comprendere I dannati della terra era cruciale, diceva il professor Hammer, citando il titolo del libro nel quale Fanon aveva narrato le sue esperienze durante la guerra d'Algeria. I dannati si stavano sollevando, come proclamava L'Internazionale. Approfittai di una pausa pubblicitaria per dire: Mi piacciono Fanon e Césaire. Discorso sul colonialismo. E quando Fanon parla della violenza. Parla dell'Algeria. Ma parla anche del Vietnam.

Io preferisco Pelle nera, maschere bianche.

Mi imbarazzava ammettere di non averlo letto, ma il buttafuori scrollò le spalle.

Posso prestartelo. E hai mai letto Una tempesta, di Césaire? No? Hai ancora molte cose da scoprire. Quei libri sono vere lezioni sulla vita e sulla morte, mentre la maggior parte delle persone vuole parlare solo della vita.

Be', a me piace parlare anche della morte, ribattei.

E allora andremo d'accordo, disse lui. Era un escatologo autoproclamato, il cui interesse principale era smontare il significato di termini come giudizio universale e aldilà, da sempre considerati il destino stesso del genere umano. Erano argomenti impegnativi, e fui felice di veder tornare la governante con un bicchiere pieno di whisky. A parte il rimedio, l'unica cosa che riuscisse a trattenermi nella calda terra dei vivi era quell'antigelo, sempre pronto ad assicurarsi che il mio sangue continuasse a scorrere. Oh, whisky! Quanto avevo bisogno di te, e del ricordo di mia madre, che aveva sopportato tanto eppure non si era mai affidata al whisky o a qualsiasi altra dipendenza. Forse avevo ereditato le mie debolezze da mio padre, un bastardo in senso morale, se non razziale.

Da dove vieni? mi chiese il buttafuori escatologo.

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Pagina 170

Il Maoista disse: Non mi piace il fatto che questi rifugiati siano spesso degli affaristi che hanno partecipato alla colonizzazione del loro stesso paese. Ma questo non vuol dire che non siano umani. Lo sono, e molto, perciò meritano il nostro aiuto, soprattutto perché siamo stati noi più di chiunque altro, in quanto colonizzatori, a mandare in rovina il vostro paese.

Su questo non posso che essere d'accordo, osservai.

Non è cambiato, intervenne BFD. È troppo modesto per dirtelo, ma negli anni Sessanta è stato presidente del comitato maoista contro la guerra imperialista degli americani nel vostro paese.

Era la cosa giusta da fare, disse il Maoista.

Era il piú maoista di tutti i maoisti, un Mao-Mao, diciamo, commentò BFD. In effetti, era maoista al punto che lo avevamo soprannominato...

Presidente Mao, dissi.

No, meglio ancora: Le Chinois!

Scoppiarono a ridere e io accennai un debole sorriso, confuso. Le Chinois? Era un complimento, un insulto o entrambe le cose? Ma poiché era evidentemente l'esperto piú autorevole sul maoismo gli chiesi: Pensi di poter essere ancora un maoista, dopo la Rivoluzione culturale? O dopo il Grande balzo in avanti? Non credi che la morte di tutti quei cinesi sgraditi all'Apparato ideologico di Stato e all'Apparato repressivo di Stato dovrebbe importi un ripensamento sul maoismo? E che mi dici di quello che è successo in Cambogia? aggiunsi, mostrandogli il giornale con la foto delle fosse comuni e delle ossa. I cinesi appoggiano gli Khmer Rouge. Non ti fa venire almeno un po' di voltastomaco, quando pensi alla rivoluzione comunista?

Il Maoista scosse tristemente il capo guardando la foto. L'ho visto stamattina, il giornale, disse. Si, ovvio, la rivoluzione commette degli errori, che in alcuni casi possono provocare milioni di morti. È un fatto tragico? Certo. Un errore? Naturale. Ma se interrompi qui la tua analisi, cadi semplicemente nella trappola dei capitalisti. Ah-ah! diranno. Ci sei cascato! Ora la tua unica scelta è il capitalismo e la sua pseudodemocrazia, o la sua ingannevole libertà di scelta. Se il comunismo è cattivo il capitalismo dev'essere per forza buono, giusto? No, invece! I capitalisti adorano puntualizzare come sotto Stalin e Mao siano morte decine di milioni di persone, e si dimenticano di proposito delle centinaia di milioni di morti sotto il capitalismo. Cosa sono stati il colonialismo e lo schiavismo se non altrettante forme di capitalismo? Che cosa è stato il genocidio dei nativi americani se non capitalismo? Dimentichiamoci però di tutte le terribili contraddizioni del capitalismo, e concentriamoci su quello che hanno combinato i comunisti!

Che cosa ti dicevo? lo interruppe BFD, versandosi un altro bicchiere di vino. Le Chinois!

Le so, queste cose, dissi. Ma è tutta teoria...

No. È prassi, invece. Mi hai chiesto di Mao e della Rivoluzione culturale. Non sono convinto che sia stata un errore, perché Mao non era dalla parte dello Stato. Stava cercando di purgare lo Stato dai suoi elementi reazionari e ridare il potere a chi aveva il diritto di esercitarlo: il popolo, le masse. In futuro guarderemo alla Rivoluzione culturale come guardiamo alla Comune di Parigi: una sconfitta sul momento, ma alla fine dei conti un trionfo per il popolo! Quanto a Mao, la sua visione era infinitamente dialettica perché si era reso conto, a differenza di Stalin, punto di riferimento dei comunisti vietnamiti, che non si deve permettere alla rivoluzione di calcificarsi nella forma dello Stato. Quando ciò accade la rivoluzione viene corrotta dal suo stesso potere, ed è per questo che tu sei finito in un campo di rieducazione. La rivoluzione, come la dialettica, deve essere perpetua!

Mia zia mi offri un'altra sigaretta all'hashish. Accettai, stordito e incapace di rispondere a quel fuoco di sbarramento teoretico, neppure in inglese.

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Pagina 178

Prendemmo tutte le parole sconosciute utilizzate da Césaire, Fanon e altri, componemmo delle schede didattiche sul vocabolario francese e trasformammo lo studio in gioco: la sera Bon ci interrogava ed eravamo costretti a bere un bicchierino di cognac per ogni parola che non ricordavamo. "Costretti", ovviamente, è un eufemismo che racchiude il significato opposto: esattamente come "pacificazione", che di solito implicava un grado elevato di violenza omicida nei confronti dei nativi piú riottosi. La storia era piena di esempi in questo senso, dalla pacificazione cinese del Vietnam, che avevamo apprezzato cosí tanto da farla durare un millennio; alla pacificazione vietnamita del Cham, cosí fruttuosa che il Cham non esisteva praticamente piú; alla pacificazione francese dell'Indocina, realizzata attraverso quella religione di pace, il cattolicesimo, cui i francesi contemporanei non sembravano credere neanche piú; alla pacificazione americana del Delta del Mekong, dove migliaia di "guerriglieri" erano stati uccisi dagli americani ma erano state trovate solo poche decine di armi. Dov'erano finite tutte le armi dei guerriglieri? La loro sparizione era stata un autentico miracolo tropicale! Ma era cosí che accadeva, con le pacificazioni.

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Pagina 189

Rimasi disteso a faccia in giú sul freddo pavimento di cemento, nudo e tremante, con la guancia immersa in una pozza di liquido che poteva provenire da me come da uno di loro. Mi chiesi se mia madre potesse vedermi, in quel momento. Ripensai al piacere che provavamo entrambi quando, a quattro o cinque anni, me ne stavo disteso in quel modo su un tappetino di bambú, con la testa sul suo grembo, facendo le fusa mentre lei mi grattava lentamente la spina dorsale, partendo dalle natiche e salendo fino a fermarsi all'altezza delle scapole e ripartire daccapo, in un crescendo di piacere.

E poi mi resi conto, con una nuova fitta di dolore al fianco già ferito, di avere qualche anno in piú rispetto a mia madre quando era morta a trentaquattro anni, sola, nella stessa baracca in cui mi aveva cresciuto, senza nessuno che si prendesse cura di lei, o cosí immaginai quando alla fine, dopo sei anni in America come studente straniero, tornai al mio villaggio. Indossavo l'uniforme da tenente di fresca nomina. Nessuno nel villaggio osava incrociare il mio sguardo o darmi del "bastardo" come tutti avevano fatto quando ero bambino: non ora che portavo alla cintola una pistola di fabbricazione americana. La baracca era cosí misera che nessuno si era preso la briga di saccheggiarla o di rubarne una qualsiasi parte, visto che era stata edificata con bastoncini di legno, fango e paglia, stracci e pezzi di cartone strappati alle scatole che contenevano l'equipaggiamento e le razioni degli americani. Senza nessuno che se ne prendesse cura, la baracca era gradualmente crollata su se stessa, fino a ridursi a poco piú di un guscio vuoto. Mi affacciai per vedere il piccolo letto di legno sul quale avevo dormito insieme a mia madre, il materasso di bambù ridotto in brandelli, e vidi la piccola mensola sulla quale mia madre teneva un'immagine di Gesù Cristo e un crocifisso. Era orfana e non aveva una madre e un padre da onorare, perciò le era rimasto soltanto Gesú Cristo, e il quadretto che lo rappresentava era il suo bene piú prezioso, a parte me.

Dalla porta, grazie al tappeto di luce che penetrava nei recessi piú bui della baracca, potei vedere il cuore rosso sul petto di un Gesù anglo in modo quasi sospetto, con i suoi capelli castani, la barbetta marrone, gli occhi marroni e la pelle chiara. Era stata salvata mia madre, lei che aveva salvato me grazie a tutto l'amore che mi aveva dato senza mai lamentarsi? Da dove veniva tutto il suo amore, se lei non era mai stata amata a sua volta? Da chi aveva imparato gli affetti, le carezze, le parole gentili con le quali mi aveva blandito quotidianamente e senza risparmiarsi, fino a quando non avevo assorbito quella piccola dose di umanità che ora possedevo?

Una parte di me, il comunista recalcitrante, era convinta che non fosse stata salvata perché non esisteva nessun Dio e nessuna vita eterna. Ma un'altra parte di me, il cattolico recalcitrante, credeva che fosse ascesa in Paradiso insieme a tutti gli altri rifugiati, ossia a tutte le persone che erano morte nel suo stesso giorno. Che cosa eravamo noi tutti, una volta morti, se non rifugiati che abbandonavano la terra maledetta per trovare rifugio nella vita eterna? Che cos'era la terra intera se non un Terzo mondo rispetto al Secondo mondo del Purgatorio e al Primo mondo del Paradiso? La parte piú timorata e fedele di me si vergognava al pensiero che, dal suo balcone in Paradiso, il piú esclusivo dei comprensori, lei potesse vedermi.

Disteso a faccia in giú in quella cantina potei rivedermi mentre tornavo al mio villaggio e al cimitero dove era sepolta mia madre. Mi ero inginocchiato e avevo toccato il suo nome. Almeno, un nome ce l'aveva. Sulla mia lapide, se mai ne avessi avuta una, ci sarebbe stato scritto probabilmente VO DANH. Vedendo il suo nome e le sue date di nascita e di morte, incise con un inchiostro vermiglio che stava scolorendo come la memoria stessa, mi ritrovai su una zattera, trascinata da un torrente di amore represso e dannato. Alla fine smisi di piangere. Facendo leva sulla robusta trave d'acciaio della mia rabbia omicida mi asciugai gli occhi e contemplai come la memoria di mia madre fosse stata profanata. La sua tomba si trovava in un margine paludoso del cimitero, dove era stata esiliata nella morte come le era accaduto in vita. Aveva sopportato la croce di partorirmi sola, rifiutata dai parenti e dagli abitanti del villaggio, ignari che mio padre fosse il loro sacerdote. Mia madre lo aveva protetto per una malriposta fede cattolica nella bontà e nella gentilezza, che era stato quello stesso sacerdote a instillare in lei. E per la sua fede in Dio e in lui era stata consegnata, nella morte, a un lotto distante da tutte le altre tombe, lontano dai morti onorevoli e da chi, non meno onorevole, era sopravvissuto e non sopportava l'idea che i suoi amati riposassero vicini a quella donna: una donna che era stata la piú onesta tra tutti loro, vista la sua totale mancanza di quell'ipocrisia che era fondamentale per chiunque volesse mantenere anche solo un minimo di rispettabilità.

Tornai alla baracca dove ero vissuto con mia madre, l'unica casa dove avessi conosciuto un po' d'amore, e le diedi fuoco accostando uno zippo alla paglia secca.

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