Copertina
Autore Renato Nisticò
Titolo La biblioteca
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 1999, Alfabeto Letterario 11 , pag. 102, cop.fle., dim. 10x17,4x0,8 cm , Isbn 978-88-420-5795-6
LettoreRenato di Stefano, 2011
Classe libri , musei , storia letteraria
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Indice


1. Il tema della biblioteca in letteratura              5

   Un luogo comune                                      5

   Libri nei libri: un 'effetto di reale'               8

   Biblioteca Universale e biblioteca parziale         13

   Una ipotesi sulla funzione antropologica
       della biblioteca parziale                       18

   Una ipotesi funzionale della biblioteca parziale    22

   Tipologia delle biblioteche letterarie              24


2. Esempi di biblioteche letterarie:
   dal prototipo don Chisciotte ai nostri giorni       27

   La biblioteca moderna: Cervantes e Swift            27

   Dalla biblioteca romantica a quella scapigliata:
       Manzoni, Nievo, Dossi                           39

   Novecento: le biblioteche della 'crisi'.
       Da Jarry a Sartre                               49

   La biblioteca postmoderna: Borges ed Eco            67

   Non per chiudere, semmai per aprire                 83


3. Bibliografia                                        87

   Fonti                                               87
   Percorso critico                                    89
   Approfondimenti                                     92


 

 

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1
Il tema della biblioteca
in letteratura



Un luogo comune

Ai lettori di opere letterarie capita abbastanza spesso di imbattersi in descrizioni di biblioteche e bibliotecari. Si tratta di un tema ricorrente, improntato il più delle volte anche a triti luoghi comuni; il cui rovesciamento, praticato sempre più spesso ai nostri giorni, al fine di spiazzare l'orizzonte d'attesa dei lettori, non fa che confermarne la secolare validità e, entro certi limiti, la fondatezza. Le biblioteche sono in genere rappresentate come luoghi bui, criptici e labirintici, difficilmente accessibili. Esse conservano quantità immani di libri, per la gran parte antichi e quasi mai consultati, dove si depositano archeologici strati di polvere. Sono invariabilmente frequentate da topi, nella doppia obbligatoria accezione di habitués incalliti e di animali roditori. I bibliotecari sono quasi sempre anziani, spesso deformi, comunque poco attraenti, coltissimi, o, viceversa, assai ignoranti, sadicamente inclini ad imporre assurde discipline regolamentari ai disorientati utenti.

Soprattutto nella produzione letteraria di genere o nella paraletteratura le biblioteche nascondono un accesso privilegiato ai territori inesplorati del mistero, trattengono nelle loro latebre esemplari proibiti su cui è gravata la messa all'indice, suggeriscono un erotismo allucinato e perverso. In letteratura, in particolare ai nostri giorni, si riscontrano anche dei veri e propri rovesciamenti di questi cliché: il grande diventa piccolo, il buio luce, il vecchio giovane, il deforme bellissimo, il disordine ordine, l'irrazionale razionale, e così via. Una cosa è certa: a scrittori e lettori non interessa una biblioteca normale, che funzioni regolarmente per i fini cui è preposta. Per il particolare tipo di oggetti che ospita essa mette in moto meccanismi consci e inconsci di elaborazione fantastica, che sono riconducibili tutti a un unico comun denominatore: la sacertà, o, in subordine, il valore simbolico – dunque non referenziale – del luogo in quanto proiezione del potere fascinatorio degli oggetti che racchiude. Ciò avviene sia perché non v'è luogo comune che non abbia qualche fondamento nella realtà effettuale (le biblioteche sono state e sono, anzitutto, enormi e caotici magazzini del sapere), sia perché, come suggeriscono due bibliotecarie francesi che si sono prese la briga di approntare un repertorio delle opere letterarie e cinematografiche di argomento bibliotecario, ogni autore è stato anzitutto un utente di biblioteca ed ha quindi elaborato particolari sentimenti sul campo, accumulando una svariata messe di osservazioni su quell'ambiente che ha cullato il suo ingresso nel mondo della cultura. Diversi fra loro sono stati anche in prima persona bibliotecari. Faccio i primi nomi che mi vengono in mente: Anatole France (1844-1924), Jorge Luis Borges (1899-1986), Robert Musil (1880-1942), in casa nostra Federico De Roberto (1861-1927), Luciano Bianciardi (1922-1971), e così via. Tutti loro, comunque, conoscono la doppia valenza, di attrazione e di repulsione, di fascino e di frustrazione, esercitati dall'ambiente-biblioteca, da sempre sospeso fra lo status positivo di tempio della conservazione, e quello negativo di cimitero della vita vera, di tutte quelle buone idee che, trasferite sulla carta, vi sono rimaste imbalsamate, lettera morta. Tuttavia, deve esistere una qualche ragione più profonda e significativa di queste, legate alla sfera psicologica e ai vissuti di autori e lettori, se il tema delle biblioteche e dei bibliotecari continua a riscuotere tanto successo nonostante essi siano intesi come depositari del brutto, del desueto, del deforme, e benché evochino, magari, la noia derivante da settennati di studi matti e disperatissimi. Ci riferiamo, ovviamente, al caso del contino Giacomo Leopardi (1798-1837). Si tratta certo di qualcosa che va al di là della mera resistenza del passato, del fascino esercitato da una memoria dovuta alla presenza muta di testimoni assenti, lontani, la maggior parte morti (gli autori dei libri e i personaggi che li abitano).


Libri nei libri: un 'effetto di reale'

La ragione del successo del tema delle biblioteche, più che in caratteri estrinseci alla letteratura, di tipo psicologico o sociologico, deve essere cercata in ciò che fa di questo tema un argomento squisitamente letterario. Per avere una qualche validità generale essa dovrebbe rispondere al seguente quesito: che ruolo giocano le descrizioni di biblioteche, pubbliche o private, sotto la forma specifica dell' 'elenco di libri', nell'economia del significato delle opere letterarie? Vorrei infatti prendere congedo dalla rappresentazione della biblioteca come ambiente e sfondo di eventi e personaggi, moltiplicatore delle possibilità combinatorie nella narrativa, se pure è ovvio che questi continuano ad essere aspetti quasi inevitabili della ricerca. Per fare un esempio della differenza ricorriamo al libro di Italo Calvino (1923-1985) Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979). In questo libro, il cui argomento è proprio la lettura e il rapporto che l'uomo intrattiene col mondo dei libri e con la produzione letteraria in questo ultimo scorcio del millennio, sono almeno tre i momenti in cui il lettore trova descritta una biblioteca. Un primo, quando all'inizio del romanzo Calvino racconta l'avventura del personaggio-lettore all'interno di una libreria, e fa un elenco delle varie tipologie di libri che egli si trova di fronte in questo frangente; il secondo, quando descrive la biblioteca domestica di Ludmilla, la lettrice, tentando di ricavarne alcuni tratti della personalità; il terzo, quando il lettore entra in una vera biblioteca a cercare i romanzi la cui lettura gli è stata resa fino a quel momento impossibile. Di queste tre descrizioni della biblioteca quella che cattura maggiormente la mia attenzione è la prima, perché l'elenco di libri che vi si trova dà un buon esempio di ciò che chiamerò biblioteca assente (libri cioè che è impossibile leggere, in quanto non appartenenti al reale patrimonio bibliografico dell'umanità); la seconda è pur sempre interessante perché costituisce un esempio di biblioteca funzionale alla ricostruzione del personaggio; la terza direi che non lo è quasi affatto, perché non fa che confermare, forse pretestuosamente, alcuni luoghi comuni sulle biblioteche, riducendo anzi la biblioteca stessa a luogo comune: prigione o labirinto dell'informazione.

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Pagina 27

2
Esempi di biblioteche letterarie:
dal prototipo don Chisciotte
ai nostri giorni



La biblioteca moderna: Cervantes e Swift

Le avventure dell'ingegnoso gentiluomo don Chisciotte della Mancia (El ingenìoso hidalgo Don Quixote de la Mancha), di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), pubblicate fra il 1605 e il 1615, narrano di un nobile decaduto della provincia spagnola della Mancia, Alonso Chisciano, che in pieno diciassettesimo secolo si invaghisce delle opere di gesta cavalleresche, al punto che, dapprima, spende tutti i suoi averi nel fornirsene una ingente biblioteca e, dopo, decide di emularne le eroiche azioni. Si ordina pertanto Cavaliere della Mancia, si dota di uno scudiere – Sancio Pancia, un povero cristo che invano attenderà da lui favolose ricompense per il suo servizio – e, sulla groppa del suo Ronzinante, munito di elmo (una scodella) e di lancia, parte per il mondo alla ricerca di avventure col fine proprio di tutti i cavalieri: fare trionfare giustizia e virtù. La vicenda, ormai quasi proverbiale, è troppo nota per dover essere riassunta; in essa riveste un ruolo fondamentale la raccolta di libri del nobile spagnolo.

La biblioteca di don Chisciotte è, in qualche modo, l'origine di tutta la vicenda chisciottesca; essa viene descritta nei primi capitoli del romanzo, ma rimane operante per tutta l'opera a causa del singolare destino del suo proprietario. Egli, infatti, contrariamente a quel che accade al comune lettore, che nutre la propria realtà del mondo ipotetico dei libri di invenzione, abbandona la miserabile, prosastica realtà quotidiana ed entra definitivamente nel mondo dei libri: forma di insania che egli riconosce ed abiura solo in punto di morte, alle ultime pagine del romanzo. La biblioteca è, dunque, l'oggetto del racconto almeno quanto la fonte di ogni evento raccontato. Il tratto più saliente dal punto di vista formale consiste nel fatto che non è una biblioteca statica – non sta ferma, cioè, alle spalle dei protagonisti – ma è invece dinamica, diacronica, si svolge cioè nel tempo: ne viene, infatti, tracciata la genesi rappresentandone il processo di formazione. Quando nel sesto capitolo perviene alla vera e propria descrizione della biblioteca di don Chisciotte e al suo catalogo, il lettore è già provvisto della sua storia. I suoi pezzi sono soldati vivi di un esercito di ombre che ha stretto d'assedio e conquistata la cittadella della mente di Chisciano.

La descrizione procede anzitutto da un fulmineo ritratto del proprietario, di cui si forniscono precisi addentellati sociologici. Il prestigio sociale perduto da Chisciano e dalla sua classe, vuole essere fantasticamente riacquistato impadronendosi di quel patrimonio spirituale che fa riferimento a passati valori aristocratici: la cavalleria. La qual cosa non fa che aggravare la situazione economica di don Chisciotte, che nell'impresa della biblioteca spende tutti i suoi averi. È, questa, una costante di lungo periodo della rappresentazione della biblioteca: quasi sempre il valore dei libri posseduti si contrappone all'utile economico assoluto, e la formazione o la cura di una biblioteca sanciscono, forse a compenso di un rimorso di ordine pratico per l'attività intellettuale svolta, una cattiva condizione economica del proprietario.

Per don Chisciotte, perdere coscienza del suo vecchio sé, era il primo passo necessario alla conquista della nuova, difficile e incerta identità. Si evidenzia con chiarezza quel processo di problematico affievolimento della presenza che si accompagna, come dicevamo prima, implicitamente o esplicitamente, alla rappresentazione di una biblioteca. Qui, in maniera macroscopica, in quanto il possesso e la lettura dei libri comporta a don Chisciotte l'ingresso in una personalità vicaria e la fama di follia.

[Chisciano] si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così a forza di dormir poco e di legger molto, gli si prosciugò talmente il cervello, che perse la ragione. Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri [...]; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell'arsenale di sogni e di invenzioni lette ne' libri fosse verità pure, che secondo lui non c'era nel mondo storia più certa. E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè gli parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e d'andare per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure [...]

Il registro stilistico prevalente nell'opera è l'ironia verso il personaggio che il narratore sembra condividere con l'autore implicito (l'autore che sta dietro all'operazione narrativa, cioè, e che siamo in grado di ricostruire attraverso l'analisi del romanzo); il quale, per distanziarsi dal punto di vista del suo eroe, e straniare teatralmente la vicenda, utilizza lo stratagemma classico del 'manoscritto ritrovato'. Non si può tuttavia escludere un intento autoironico dell'autore. Cervantes infatti si mette in scena a un certo punto come autore di un poema cavalleresco, la Galatea, che egli inserisce nella biblioteca di don Chisciotte. Lo scrittore mette così in atto quel meccanismo di ingresso del libro-cornice nella biblioteca tramite un altro suo libro (procedimento che la retorica psicoanalitica definisce 'spostamento'). Altro grande luogo comune della biblioteca chisciottesca, che appartiene alla storia di questo tema letterario (e che discende da episodi storici, tristemente veri, a partire dall'incendio della grande biblioteca di Alessandria), è il rogo di libri. La rappresentazione vera e propria di questa biblioteca è infatti tutta iscritta nel processo che il barbiere ed il curato istruiscono nei confronti dei singoli volumi. I libri sono trattati animisticamente come individui umani; come dice la nipote dell'hidalgo essi «meriterebbero di essere bruciati al rogo come eretici».

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La biblioteca postmoderna: Borges ed Eco

Un posto del tutto particolare occupa in questo panorama la Biblioteca di Babele (La biblioteca de Babel), racconto denso fino al trattato e alla profezia, scritto da Jorge Luis Borges nel 1941. Ad essa ho dovuto riservare una categoria apposita, definendola 'ideale', perché essa è sicuramente la biblioteca che esprime l'ideologia letteraria di Borges — ed è pertanto 'parziale', ma per i suoi contenuti finisce per rappresentare una incarnazione particolare della Biblioteca Universale. Bisogna ricordare che nei secoli quest'ultima è stata tanta parte dell'immaginario collettivo: dai tempi della biblioteca di Alessandria, che avrebbe dovuto inglobare tutto il patrimonio bibliografico conosciuto (allora volumi e papiri), ai progetti delle altrettanto vaste biblioteche reali della Francia illuministica, all'afflato enciclopedico delle biblioteche virtuali oggi diffuse nelle reti di comunicazione informatica (Internet, ecc.).

La biblioteca di Borges è del tipo coestensivo. Il narratore che è l'unico eroe (vi sono altri personaggi, ma ridotti a poco più che pure ipotesi logico-narrative, o quasi oniriche proiezioni del pensiero del narratore), è intradiegetico: sta cioè dentro gli eventi narrati. Senza altre specificazioni storiche, geografiche e contestuali, egli esordisce ex abrupto con la descrizione della biblioteca, di cui si evidenzia subito il fondamento logico: se il linguaggio simbolico è l'unico modo di designare una realtà che abbia senso umano, poiché la biblioteca è la somma di tutti i possibili significati, essa coincide con l'universo-mondo:

L'universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d'un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione degli oggetti nelle gallerie è invariabile. Venticinque scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno [...]. Il lato libero dà su un angusto territorio che porta a un'altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l'altro di soddisfare le necessità fecali. Di qui passa la scala spirale, che s'inabissa e s'innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l'infinito.

Altro dato: il registro è quello fantastico, fra l'onirico e il visionario. Il narratore ammette che egli può star sognando, non raccontando, ciò che vede. Più che alla descrizione di una realtà, seppure una realtà, come in tutta la letteratura 'di finzione', si assiste qui alla esposizione di un progetto, dai connotati filosofici: una specie di ontologia del segno, di metafisica del libro (memore dell'archetipo don Chisciotte), che si affida alle infinite possibilità combinatorie dei simboli linguistici. Come in molta della successiva produzione borgesiana, il mondo è una costruzione intellettuale. L'esperienza che l'uomo può avere di esso è una forma di conoscenza interna ai propri schemi intellettuali e culturali; ogni rapporto e conflitto fra esseri umani è ridotto (o elevato) a disputa.

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In questa visione così minuziosa da sembrare addirittura una sorta di plastico del sogno, il libro come semplice medium di esperienza sembra scomparso: in suo luogo sta una sorta di concentrato simbolico che si arresta alle soglie del kitsch. In alcuni dei tratti esibiti riposa l'aspetto 'postumo', il sapore tipicamente postmoderno della prosa di Borges, dove l'impianto visionario si sposa a filosofemi, la linguistica moderna alla ricerca del Santo Graal, il mito del Libro del Mondo al culto del Catalogo dei Cataloghi. Se ne coglie insomma, in una parola, il pathos tutto sommato illusionistico; che sembra però largamente anticipatore e, entro certi limiti, anche propulsore di alcuni tratti dell'immaginario contemporaneo. Fra questi ultimi possiamo elencare: la struttura combinatoria della narrativa assunta a ideologia letteraria (di cui in Italia fu paladino soprattutto Calvino: Se una notte d'inverno un viaggiatore ha molti tratti in comune con la Biblioteca di Babele); lo sfondo arcano e la sostanza indiziaria dell'impresa intellettuale, che mescola alti e bassi strati della cultura; la porta lasciata aperta per questa via al sostrato tecnologico, para- e fantascientifico di alcune frange dell'immaginario attuale, come ad esempio quello vicino alla cultura cyber (dove non si deve tralasciare tanta produzione fumettistica talvolta anche assai pregevole); infine alcune parole d'ordine correnti, come la circolarità della rete e il nomadismo culturale che sostituirebbero la pluriversalità e trasversalità anarcoide alla circolarità chiusa della produzione intellettuale tradizionale.

Se è possibile congetturare che le biblioteche degli ultimi quattro autori che abbiamo analizzato (Musil, Canetti, Sartre, Borges) siano state ideate negli stessi anni, ognuno probabilmente all'oscuro degli altri, potremmo quasi postulare l'incidenza di alcune particolari condizioni storiche che hanno determinato una necessità della rappresentazione o, se si vuole, l'esistenza di universali fantastici in cui è comunque evidente il legame fra la biblioteca, l'ordinamento della realtà, l'angoscia di sparizione, la prefigurazione apocalittica ed esorcistica del futuro.

La metafisica del libro di Borges, coi suoi toni profetici, cui sicuramente pure si rivolge come a un importante antecedente, viene filtrata da Umberto Eco (n. 1932) nel Nome della rosa (1980), attraverso il ricorso ai modelli della letteratura di genere quale è soprattutto lo Sherlock Holmes di sir Arthur Conan Doyle (1859-1930). L'impasto che se ne ricava, calato nella cultura accademica di un autore particolarmente versato in studi di estetica medievale e di semiotica, dagli accentuati risvolti ludici, fornisce all'opera il carattere squisitamente postmoderno che molti interpreti hanno voluto assegnargli. La forma mitica, babelico-matematica della biblioteca di Borges, viene ridotta qui a quella storica del «labirinto», di cui l'uomo, per averlo creato, riesce sempre a trovare il senso, la via d'uscita; anche se ciò non serve a neutralizzare il peso talora schiacciante degli eventi collettivi, che impongono all'individuo, anche geniale, una forma, quasi stizzita, di umiltà, e una sorta di relativismo della ragione.

La vicenda del libro è ambientata nel 1327, in uno scorcio di Medioevo che vede il trasferimento del soglio papale da Roma ad Avignone, con le conseguenti iniziative imperiali per conquistare il Caput Mundi, e accese, a volte rissose e violente, dispute sui fondamenti dottrinali ed ecclesiastici del Cristianesimo. Un frate francescano, intellettuale maturo e di grande esperienza inquisitoria, Guglielmo di Baskerville, si reca, insieme a un giovane novizio domenicano, Adso da Melk, in una imprecisata abbazia dell'Italia settentrionale, perché chiamatovi dall'abate Abbone a causa di alcuni strani accadimenti culminati nella morte di un monaco. Incaricati di indagare sul caso, Guglielmo e il suo fido assistente Adso (coppia che richiama il celebre 'duo' Holmes e Watson), si rendono velocemente conto che il mistero delle morti – se ne verifica una al giorno fino al numero di sette – è tutto legato alla misteriosa biblioteca che è il centro motore della vita dell'intera abbazia. In quel momento essa è, infatti, la più grande biblioteca dell'occidente e custodisce, fra l'altro, parecchi esemplari unici di opere, soprattutto dell'antichità pagana e delle origini della Chiesa, nonché importanti testi della tradizione cristiana e di altre religioni, oltreché di retorica, di scienza e delle varie arti liberali. Il maestoso edificio che domina l'intera abbazia, di pianta ottagonale, racchiude al suo interno lo scriptorium e, al piano più alto, la biblioteca vera e propria. La regola vuole che nessuno, se non il bibliotecario e il vicebibliotecario (scelti in maniera selezionatissima: hanno la fiducia dell'abate e si tramandano oralmente il patrimonio di conoscenze necessarie all'ufficio), possa avere l'accesso nella biblioteca stessa. Tuttavia Guglielmo e Adso, sfidando il pericolo, si introducono varie volte, nottetempo, nell'edificio e riescono alla fine, non senza mille difficoltà e peripezie, a venire a capo del mistero. Il vegliardo Jorge de Burgo, già bibliotecario, ora cieco, al fine di nascondere alla curiosità del mondo l'esistenza del secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia e nobilitante la funzione estetica e sociale del riso, tramite un potente veleno distribuito sulle pagine del codice, ha ucciso tutti coloro che vi si sono interessati. Scoperto, in una notte carica di tensioni e minacciosi presentimenti, tenta di avvelenare Guglielmo, ma non riuscendoci, dà alle fiamme la prodigiosa biblioteca, condannando al rogo anche se stesso. Come nella tradizione del romanzo storico e in particolare nel modello manzoniano, la narrazione degli eventi, contesta di humour e di suspence, è intervallata a digressioni di ordine storico, estetico, sapienziale, filosofico, pedagogico e a quadri di sapore erotico, comico-burlesco, gotico, avventuroso. La narrazione è affidata ad Adso, vegliardo, memorante; e utilizza anch'essa il quasi canonico stratagemma del manoscritto ritrovato. Si tratta, dunque, di un narratore che questa volta è fra i protagonisti dei fatti raccontati (è, cioè, secondo la definizione narratologica, 'intradiegetico'); e, sebbene sia al centro degli eventi praticamente dall'inizio alla fine, non direi che si tratta in questo caso di una biblioteca coestensiva, proprio per i varchi lasciati aperti che precipitano l'attenzione del lettore fino ai più profondi recessi storici. L'opera ha un probabile antecedente e modello nel film cinese Raining in the Mountain di King Hu (1978) che narra eventi quasi del tutto analoghi, ma ambientati nel lontano Oriente, in epoca però sempre medievale.

In coerenza con il suo carattere postmoderno di enciclopedia dei vari generi letterari, Il nome della rosa rappresenta, anche, una sorta di catalogo dei luoghi comuni sulla biblioteca. Su di essa sembra anzi quasi incrostata una patina di déja vu che ne deve avere però anche decretato il successo presso il vasto pubblico. Fra questi motivi, costanti di lungo periodo, possiamo indicare: l'inaccessibilità della biblioteca, magazzino del sapere universale; il mistero legato alla gelosa custodia di alcuni testi, che immettono a un sapere arcano e dai connotati diabolici; l'antichità e sacertà del luogo; l'uso di metafore congelate, come quella del libro-mondo; l'ordinamento della biblioteca quale figura dell'ordine mondano, del sapere universale.

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Non per chiudere, semmai per aprire

Riflettendo, in chiave diacronica, sugli esempi che vi ho sottoposto, possiamo notare come, a parte l'archetipo cervantiano del Chisciotte, le forme storiche della rappresentazione bibliotecaria evolvono da un primo periodo, quello del moderno, vissuto alla luce del conflitto di generazioni e poetiche, a un secondo periodo in cui subentra la crisi del rapporto fra uomo, linguaggio e significato, e si acuisce il sintomo della perdita della presenza. La biblioteca diventa luogo privilegiato della crisi. Tutto questo ha un discrimine cronologico che può essere fissato nel passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo. Soltanto in ultimo, quasi ai nostri giorni, prende maggiore rilievo l'uso prevalentemente parodistico e autoreferenziale del tema, con un'accentuazione dei toni kitsch, in cui il genere e la citazione stereotipa subentrano al desiderio di rappresentare il rapporto fra un certo tipo o tipi umani e una determinata forma storica della cultura. La biblioteca si scopre un universo circolare, autosufficiente, sottoposto a una definitiva quanto assoluta deriva temporale. È, questo, uno dei capisaldi della particolare forma di poetica, oggi predominante, detta 'postmodernismo'. In essa trova sempre maggiore spazio il motivo apocalittico della fine del libro; alla presenza del quale il tema della biblioteca prende un sentore di desuetudine, precipita in un'atmosfera 'postuma'. La biblioteca è incalzata dall'avvento di nuovi luoghi simbolici, che ad essa contendono un ruolo di primo piano nell'immaginario, come ad esempio le reti informatiche e tutti gli ambienti dove hanno grande rilievo le nuove tecnologie (si pensi alla televisione e al cinema dell'era digitale), che veicolano il concetto di 'realtà virtuale'. Di tali formazioni simboliche è, però, altrettanto difficile nascondere gli evidenti risvolti ideologici, alla luce, fra l'altro, dell'attuale, vivace resistenza del libro, quale mezzo di comunicazione, e dei rapporti sociali che gli sono connessi. Tale resistenza indica uno scenario del legame fra l'uomo e la conservazione-diffusione della sua cultura dai contorni tuttora indefiniti, in cui lo schema della variazione nella continuità sembra avere maggiori chances di successo di uno fondato sulla rottura e il cambiamento assoluti.

Ciò dimostra che ci troviamo in un ulteriore snodo storico, il quale sta sì mutando la nostra cultura, nonché i modelli e le gerarchie al suo interno, ma reca alla base conflitti sociali ancora aperti causati dal progressivo mutamento dello spazio umano su scala planetaria, in cui la cultura stessa gioca un ruolo talvolta apertamente antagonistico.

Non sorprenderà, a questo punto, scoprire che i tre passaggi sopra indicati si verificano in corrispondenza di tre grandi fasi del modo di produzione capitalistico: l'avvio della civiltà moderna (scoperte, tecnologia, commerci, stati nazionali); la fase dell'industrializzazione pesante, del monopolio e dell'imperialismo colonialista; la fase del 'terzo capitalismo', l'attuale società, come è detta, 'postindustriale'.

Ulteriori specificazioni storiche e partizioni tipologiche sono tuttavia da attendersi per un maggiore sviluppo critico e teorico del tema. A niente di diverso dal sollecitarle deve servire un lavoro come questo, soltanto un preludio.

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