Copertina
Autore Charles Nodier
CoautoreJohn William Polidori
Titolo Lord Ruthwen il Vampiro
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2010, Grande Fiabesca , pag. 230, ill., cop.fle., dim. 15x21x1,5 cm , Isbn 978-88-6222-143-6
OriginaleLord Ruthwen, ou Les Vampires [1820] - The Vampyre [1819]
CuratoreFabio Giovannini
TraduttoreFabio Giovannini
LettoreGiovanna Bacci, 2010
Classe classici francesi , classici inglesi , fantasy
PrimaPagina


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Indice


7
Introduzione FABIO GIOVANNINI
35
Lord Ruthwen il vampiro CHARLES NODIER
159
Il Vampiro JOHN WILLIAM POLIDORI
183
Una breve nota biografica su Charles Nodier
184
La carriera di Lord Ruthwen
196
Il bibliofilo vampirizzato
199
Vampireide
 

 

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Pagina 7

Introduzione
FABIO GIOVANNINI



Oggi le librerie, anche in Italia, traboccano di romanzi sui vampiri. Il successo tra i giovanissimi del film Twilight e della saga letteraria di Stephenie Meyer ha convinto gli editori a offrire decine di titoli di fronte alla richiesta di nuove storie sui succhiasangue. La bibliografia sui vampiri in letteratura è ormai infinita, con titoli pubblicati in ogni latitudine e in ogni lingua. Ma il libro che avete tra le mani in questo momento racchiude i primi vampiri in assoluto nella storia della letteratura. O meglio, il primo racconto imperniato sui vampiri (la novella Il vampiro di John William Polidori, già nota in Italia in varie traduzioni) e soprattutto il primo romanzo che sia mai stato pubblicato in tema di vampiri (Lord Ruthwen il vampiro). Entrambi hanno lo stesso protagonista, uno spietato vampiro, perché Lord Ruthwen è uno dei primi casi in cui un'opera letteraria ha partorito una "continuazione", un sequel si direbbe oggi.

Ma questi due testi sono anche casi clamorosi di truffa editoriale. Il racconto di Polidori venne edito nel 1819 come opera di Lord Byron. Nonostante le smentite dello stesso Byron e la "confessione" di Polidori (il vero autore), nelle opere complete di Lord Byron Il vampiro continuerà ad apparire per anni. Lord Ruthwen a sua volta fu tradotto in Italia come opera di Byron, nonostante sia stato scritto in francese... Di più: la vera identità dell'autore di Lord Ruthwen è ancora incerta, gli studiosi sono divisi.

Dunque intorno al vampiro Ruthwen (o Ruthven, come vedremo) e ai testi che lo riguardano si sono moltiplicati i misteri e le false attribuzioni. Vediamo di svelare questi misteri uno alla volta. Cominciamo da qualche anno prima di quel febbraio 1820 che vedeva la pubblicazione di Lord Ruthwen. Andiamo all'estate del 1816.

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Pagina 8

L'incubazione di Lord Ruthwen:
l'estate svizzera del 1816


Nei primi anni dell'Ottocento l'emblema della trasgressione e dell'immoralità era rappresentato da George Byron, autore di opere di successo, ma anche Uomo Fatale per antonomasia, accusato dai gossip dell'epoca addirittura di aver ucciso la sua amante e averne bevuto il sangue dal cranio trasformato in una coppa. Bersagliato di accuse per i suoi comportamenti scandalosi, Lord Byron aveva lasciato l'Inghilterra nell'aprile del 1816, "sofferente nella mente, nel corpo e nelle circostanze", come scriveva lui stesso. L'unico compagno del suo viaggio era un giovane medico, che secondo Byron doveva ancora farsi strada e "aveva visto poco del mondo". Per questo il Lord si prestò a fargli da guida in un Grand Tour, il desiderato viaggio nel continente dei benestanti britannici. Il giovane medico si chiamava John William Polidori e apparteneva a un'antica famiglia italiana (a Orvieto c'è tuttora Palazzo Polidori). Il padre Gaetano Polidori, prima di trasferirsi in Inghilterra, era stato segretario di Vittorio Alfieri e aveva tradotto in italiano il capolavoro gotico The Castle of Otranto di Horace Walpole e le opere di John Milton. Laureato in medicina a soli 19 anni con una tesi sul sonnambulismo e il mesmerismo (uno dei più giovani dottori della Edinburgh University), John William aveva velleità letterarie e si prestò a fungere da medico personale per Lord Byron, ma anche da segretario.

Arrivati in Svizzera, Byron prese residenza a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, e diede a Polidori delle lettere di presentazione da consegnare ad alcuni gentiluomini ginevrini che potevano aiutare il giovane nelle sue aspirazioni editoriali. I due però non andavano d'accordo, il carattere difficile del Lord si scontrava con le ambizioni del giovane medico. Del resto, chiunque entrava in contatto con Byron doveva fare i conti con la sua personalità estrema.

Ma Byron e Polidori non erano soli, in quell'estate al lago. In Svizzera si trovava anche il poeta Percy Bysshe Shelley, che era partito dall'Inghilterra dopo aver abbandonato la moglie e i due figli, con la giovane compagna Mary Wollstonecraft Godwin (sua futura sposa) e la sorellastra di lei Claire Clairmont.

L'incontro con il terzetto non migliorò certo l'umore di Polidori, l'unico del gruppo senza una compagna. Dovette subire i dileggi di Shelley e Byron, i loro scherzi pesanti (un giorno lo fecero persino cadere da un balcone). Polidori probabilmente era invaghito di Mary e non sopportava Shelley, con il quale litigava spesso fino al punto di sfidarlo a duello. Di certo i suoi sentimenti per Mary non erano ricambiati: nell'introduzione del 1831 a Frankenstein, Mary Shelley ha raccontato i suoi ricordi dell'estate ginevrina, citando una sola volta Polidori con l'epiteto "poor Polidori", il povero Polidori.

Mentre il gruppo di cinque intellettuali soggiornava sul lago, alcuni vicini di casa, anche loro inglesi, gridavano allo scandalo. Conoscevano bene la fama di Byron, ritenuto ateo e bisessuale, accusato di comportamenti licenziosi per il discusso legame con la sorellastra Augusta Leigh e per le tante donne che lo circondavano, e fecero girare la voce che in quella villa avvenissero cose terribili e che il Lord intrattenesse relazioni promiscue con due sorelle, ventilando la parola 'incesto'. Come si è detto Mary e Claire erano in realtà sorellastre, e solo Claire aveva una relazione con Byron, ma la leggenda nera di Lord Byron si alimentava di quelle dicerie.

In realtà non accadeva nulla di estremo a Villa Diodati. Il gruppo di intellettuali faceva passeggiate, andava in barca sul lago e discettava di letteratura. La stagione, però, era eccezionalmente piovosa (c'è chi attribuisce quel clima inusuale all'eruzione di un vulcano indonesiano alcuni mesi prima) e si cercava di passare il tempo con ogni espediente. Così un giorno, verso la metà di giugno, si sfidarono a scrivere ognuno un racconto di fantasmi. Shelley si limitò a un appunto, Mary Wollstonecraft iniziò in quell'occasione il suo Frankenstein, Byron abbozzò un frammento sui vampiri e Polidori una storia che trasformerà anni dopo nel romanzo Ernestus Berchtold. È da quel gioco di società tra scrittori che prenderà origine il vampiro Lord Ruthven. Ma dovranno passare alcuni anni.

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Pagina 35

CHARLES NODIER


Lord Ruthwen il Vampiro



PRIMA PARTE



Venezia, la cui posizione ardita sembra al di sopra del pensiero umano, si innalza tra le acque come per incanto. La sua fama risale a secoli ormai remoti: temuta da tutti i popoli, il suo stendardo per lungo tempo ha segnalato alle terre straniere la sua potenza rispettata sui mari, il numero dei suoi marinai e i ricordi imponenti di una gloria che non è più. Contemporaneamente minacciata e protetta dalle onde dell'Adriatico che l'attornia da ogni parte, Venezia presenta all'occhio stupefatto uno spettacolo terribilmente austero. Ma non lontano dalle sue lagune, con un contrasto che incanta il cuore e la vista, dei boschi ospitali abbelliscono una natura già bella e adornano il Lido con siti luminosi di verzura smagliante e d'una freschezza incantevole. È in quell'isola felice che viveva la giovane Bettina. È là che impaziente di speranza e d'amore ella attendeva l'innamorato di cui aveva pianto l'assenza e al quale avrebbe desiderato unirsi per sempre.

Era mezzanotte. Il bel cielo d'Italia, puro, stellato, schiariva ancora i dintorni di Venezia. La luna disegnava da lontano l'architettura maestosa del palazzo dei dogi, prezioso monumento del medioevo, e il suo chiarore malinconico cadeva sulle capanne dei gondolieri. Al Lido la dimora del loro capo, che si distingueva per le dimensioni, brillava di un nuovo splendore. Le ghirlande di fiori sospese agli alberi, le tavole imbandite, le barche elegantemente ornate e attraccate vicino alla riva, i preparativi apprestati ovunque annunciavano che era imminente una festa.

Tutto era calmo, tutto dormiva. Solo un vento leggero turbava il silenzio dei boschi vicini. L'ora era propizia ai dolci sogni, ai misteri amorosi. Una finestra si aprì lentamente. Apparve Bettina. Sola, nel mezzo della notte, nessun vestito faceva velo alla sua avvenenza. Il lino che la proteggeva senza nasconderla ne aumentava ulteriormente la bellezza. I capelli neri, liberi sulle spalle, accrescevano il pallore del viso e davano a tutti i suoi tratti la più toccante espressione. Il giaciglio che aveva abbandonato la richiamava invano. Quale dispiacere la sottraeva al sonno? Qual era dunque il sentimento che l'agitava? Era il rimpianto per qualcosa che aveva perso per sempre o l'ebrezza che precede una felicità desiderata da lungo tempo? Una vaga inquietudine le si dipinse negli occhi. Vigile, respirando appena, guardava il mare che faceva scorrere davanti ai suoi occhi una distanza ignota. Il minimo rumore che si perdeva nell'aria, il suono della campana solitaria, il grido di un uccello nel bosco, il flutto in fuga, l'onda impetuosa, tutto le portava un'immagine che la affascinava, una speranza che la emozionava. D'improvviso il suo seno si gonfiò, il suo viso prese colore, la sua voce risuonò. Ella aveva scorto e indicava con un gesto un oggetto lontano che sembrava avvicinarsi. Credette di vedere una barca galleggiare. Lo credeva, e già chiamava l'amante adorato. Vana illusione!... Era uno scoglio solitario la cui ombra, riflessa sull'acqua, dapprima sembrava muoversi e presto restò immobile. Bettina riconobbe il suo errore e dal cuore oppresso lasciò sfuggire un sospiro.

Ma, sorpresa!... Una dolce armonia si fece udire. Chi veniva a quell'ora per intonare una canzone d'amore? Perché si nascondeva? Era un innamorato sconosciuto? Era Leonti? Il bosco lo celava agli sguardi di Bettina. Quale mistero! Lei ascoltò. Ahimè! Era una voce che non conosceva.

«Ah! qual piacere delizioso,
Quando al ritorno dal lungo viaggio,
Nel lontano orizzonte radioso
Si scopre la riva natìa,
E ai nostri occhi infine appare
Il vecchio campanile del villaggio.
Per l'impaziente viaggiatore
Tutto è piacere ed è gioia,
E tutto incanta l'anima commossa.
Ogni luogo incanta la vista,
Ogni passo fa battere il cuore.
Tutto rammenta la gioventù:
Il fiore del bosco, la pianta verde,
L'albero, la collina e il luogo
Dove fece la prima dichiarazione,
Dove gemette il suo primo addio
Bettina!...»

«Oh cielo!», esclamò Bettina, «Leonti!...»

Appena le sfuggì quel grido, il canto, l'armonia, cessò subito. Come un sogno, vago delirio dei sensi del quale un improvviso risveglio distrugge l'illusione passeggera, tutto era sparito. Bettina tese ancora l'orecchio. Profondo silenzio. Solo l'eco rispondeva alla sua voce e il nome di Leonti si estingueva distante sulla riva. Dunque non era lui. Allora chi era quell'innamorato misterioso, scappato appena aveva sentito il nome di un rivale a lui preferito? Sarebbe stato abbastanza generoso da non farla pentire di essersi imprudentemente tradita con una sola parola, indiscreta confessione di un cuore troppo pieno d'amore?

Abbandonarsi a dei sentimenti che bisogna volta a volta nascondere e percepire, fare delle preoccupazioni un bisogno, delle costrizioni un'abitudine, trovare nel sogno dei propri affanni un fascino costante e negli affetti più cari un tormento continuo, rattristarsi per uno sguardo, inquietarsi per un sorriso, tradirsi con una parola, consolarsi con una lacrima e, sul punto di ottenere la felicità promessa, vedere tutti i giorni, a ogni ora, in ciascun istante, mille timori turbare la speranza: tale è la sorte delle donne in una vita agitata da lunghi dolori e da brevi successi che scorre rapidamente senza lasciare il tempo di dirigerla e che, cominciando con degli errori, si nasconde alla noia con i ricordi, fugge attraverso l'oblio degli altri e si perde nei rimpianti.

Bettina amava Leonti. Nati sugli stessi lidi, avevano passato insieme i loro primi anni. L'amore era stato accresciuto dal tempo e dagli ostacoli. Una disputa per questioni futili e una rivalità politica avevano diviso le loro famiglie, in passato unite da legami d'amicizia apparentemente al riparo da ogni avvenimento tempestoso della vita. Presto Leonti, rifiutato dal padre della sua amata e privato ancor giovane di una madre adorata, lasciò i luoghi della sua famiglia e cercò nella carriera delle armi un rifugio contro le avversità. Sperava che la gloria asciugasse un giorno i pianti d'amore e che Torelli accordasse al difensore di Venezia ciò che un'ostilità ingiusta gli faceva rifiutare al semplice gondoliere. Aveva inoltre, per vincere le sue resistenze, un potente appoggio nella madre di Bettina. La buona Verina adorava la figlia e proteggeva i due innamorati. Era anche su quella tenera madre che la giovane veneziana contava per realizzare la propria felicità, e tutta la sua felicità era di divenire sposa di colui che aveva aperto il suo cuore all'amore, aveva fatto nascere le sue prime inquietudini e deciso della sorte di tutta la sua vita.

Leonti aveva combattuto per la patria, il suo reggimento era stato richiamato ed era tornato da pochi giorni. Aveva annunciato il suo ritorno a Venezia e promesso di partecipare alla festa dei gondolieri. Sapeva che tutto era pronto per le celebrazioni e tra tanti giochi, tra l'allegria tumultuosa e le danze veneziane, si sarebbe offerto agli occhi della sua amata e avrebbe ottenuto da lei un colloquio segreto. Ecco ciò che assorbiva tutti i pensieri di Bettina. La ragione dorme quando l'amore veglia. La figlia di Torelli aveva detto il suo segreto ai venti infedeli, aveva confidato il suo tormento alla calma della notte e i suoi desideri impazienti si erano prolungati sino all'aurora.

Infine, apparve il giorno. Grida di gioia irrompevano nell'aria. Il remo spingeva lontano dalle rive, con rapidità, la gondola preparata da abili mani. Il canto di una barcarola ripetuta si univa al suono lieve della chitarra, la cui corda docile fremeva sotto la mano che la premeva, e l'eco della riva, come uno strumento imitatore, ribadiva in lontananza che il suolo ispiratore dell'Italia è la patria dei canti melodiosi.

Ovunque c'era animazione. Tutti si abbandonavano alla gioia. Bettina, sola, era pensierosa. Insensibile ai complimenti sollecitati dal suo abbigliamento e dalla sua figura elegante, alle grida di ammirazione che scoppiavano attorno a lei, non vedeva e non sentiva nulla. Nemmeno pensava che la sua aria distratta la abbellisse, che la sua malinconia diffondesse un nuovo fascino su tutta la sua persona: lei ballava e tutti applaudivano la sua leggerezza, la sua grazia incantevole, ma lei non se ne accorgeva. Gli occhi inquieti le si inumidivano suo malgrado, una lacrima cadendo tradì il segreto della sua tristezza. Era posseduta da un solo pensiero: la festa proseguiva, ma Leonti non arrivava.

D'improvviso si presentò uno straniero. I vestiti e i modi nobili svelavano un rango elevato, ma i suoi tratti alterati, il suo sguardo scontroso, smentivano la tranquillità che si sforzava di mostrare e la sua fronte aggrottata attestava agli occhi di tutti che dei dolori terribili avevano tormentato la sua vita. Lo si accolse con una sollecitudine rispettosa, gli si chiese cosa desiderasse. Lui rispose in questi termini:

«Fuggendo il tumulto importuno delle città, sono venuto sulle coste da voi abitate. Andavo errando nei vostri boschi, dolci rifugi, freschi asili, quando all'improvviso dei suoni gioiosi hanno colpito le mie orecchie. L'immagine della gioia ha per me un'attrattiva alla quale non posso resistere. Ecco perché ho diretto i miei passi in questa direzione. Continuate i vostri festeggiamenti. Non voglio assolutamente disturbarli.»

Udendo quelle parole tutti si rassicurarono e le danze ricominciarono. Lo straniero notò subito Bettina. Alla vista di quella bellezza che aveva la freschezza del fiore novello, il suo viso rimase pallido e livido, ma un fuoco interiore arrossò le sue labbra e il suo sorriso divenne inquietante. Le si avvicinò, le si rivolse con interesse, intuì la causa dell'inquietudine di un cuore incapace di nascondere i propri tormenti. La lusingò, la consolò e si offrì di aiutarla, catturando senza fatica la sua confidenza troppo pronta ad abbandonarsi a cure premurose e amabili. Il più bel regalo del cielo è l'innocenza: ma lei era senza difesa contro il fascino avvelenato della seduzione, come il fiore dei campi battuto dal vento d'autunno che in un solo istante appassisce per sempre.

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Pagina 46

«La storia», disse, «che porta sotto i nostri occhi i ribaltamenti degli imperi e le rivoluzioni popolari, procede nei secoli tra grandi verità e molte finzioni. Le prime sono lezioni che si dimenticano, le seconde sono dei dipinti favolosi che piacciono e che si riproducono in forme diverse. Si tratta di errori cari alla credulità popolare e che nello stesso tempo contribuiscono agli svaghi delle classi sociali elevate. La sera di un rigido inverno, quando la neve cade a fiotti, la pioggia a torrenti, o il vento della tempesta scuote gli alberi della foresta, il taglialegna affaticato si riposa al chiarore intermittente d'un fuoco scoppiettante; rimprovera la sua giovane famiglia che si stringe intorno a lui impaurita, ma lui stesso, ascoltando avidamente un racconto che lo appassiona, crede di vedere fantasmi vagare tra delle rovine. E nello stesso momento al castello si ride di quelle fantasie per abbreviare la noia della serata.

A lungo si è creduto che il vampirismo fosse il simbolo della perversione umana e dell'aggressione fatale agli esseri virtuosi. Il mondo offre troppo spesso l'immagine dell'ingratitudine e della corruzione, capaci di schiacciare con i loro successi incredibili l'innocenza che soccombe e la fedeltà che geme nell'oblio. Si dice che gli uomini traditi e sfortunati in vita, morti con la vendetta nel cuore, ritornino dopo la morte segnando ovunque il loro passaggio con scene sanguinose; ma è più consolante pensare che il cielo, limitando il numero di quegli esseri spietati, abbia voluto mostrarli al mondo per imprimere con più forza, nel cuore degli altri uomini, l'orrore per il crimine e il sentimento sublime di una vita eterna. E dato che alla bontà divina ripugna di produrre due volte simili mostri, ha permesso che le stesse anime, sotto spoglie mortali, ricompaiano per portare la desolazione sulla terra. Estranei ai rimorsi e alla pietà, i vampiri scelgono come vittima l'essere più affascinante per le sue forme deliziose, più interessante per la sua debolezza, più incantevole per la sua bellezza. L'uccello del bosco, colpito da qualcosa che lo attrae, lo incanta e del quale non può evitare il pericolo, volteggia a malincuore di ramo in ramo senza poter spiccare il suo consueto volo, va avanti suo malgrado, si ferma, lancia un grido doloroso e cade infine preda del rettile che lo avvinghia: allo stesso modo la donna diventa presto la preda del vampiro che la segue passo a passo.»

«Oh cielo!», disse Leonti, «perché non si libera il mondo da questi mostri orribili?»

«Non c'è alcun segno certo per riconoscerli e, per una bizzarra contraddizione che non è senza esempi nella società, nascondono la loro perfidia sotto le apparenze più attraenti.»

«Esistono dunque?»

«Devo crederlo», continuò lo straniero, «e voi lo giudicherete da un avvenimento di cui sono stato testimone. Amo molto i viaggi e, per variare i miei piaceri, non torno mai nei Paesi che ho già visitato. Nulla amplia di più l'intelletto del quadro sempre rinnovato del carattere, dei costumi e degli usi dei popoli. Il pensiero si fa grande comparando tante cose diverse e il fuoco del genio si riaccende per dipingere a grandi tratti i luoghi romanzeschi della Provenza, le ridenti campagne dell'Italia, l'arido suolo dei deserti e il gelido clima moscovita.

Io ho attraversato il vasto impero degli Zar e quando, al ritorno, sono passato dall'antica città di Koenigsberg, bagnata dalle acque verdastre dello Spregel, l'orizzonte rivelò alla mia vista le nuvole che si confondevano con l'immensità del Baltico. Quel mare imponente, rivale dell'Adriatico e sempre coperto di marinai, arditi navigatori, apre i suoi porti industriosi alle ricchezze dei due mondi. Dopo aver dedicato qualche giorno a esaminare tutti i prodotti preziosi realizzati dall'insaziabile cupidigia degli uomini, proseguii il mio cammino e costeggiando le rive ombreggiate della Vistola portai il mio occhio osservatore nelle fertili contrade della Polonia: quella bella provincia, così gelosa della sua libertà, è popolata di agricoltori costretti a nascere e morire in servitù. Attorno a un focolare sospeso su pietre ammonticchiate, grossolano artificio di mani incapaci, i Polacchi, avvolti in spesse pellicce, sembrano intorpiditi più dalla pigrizia che dal freddo rigido dei loro inverni. I pochi castelli, uniche abitazioni disposte a offrire ospitalità, annunciano che l'opulenza è privilegio di famiglie potenti, mentre l'oppressione è la legge che un'invincibile necessità impone a tutti gli altri. Quando la brina copre la terra, una solitudine immensa regna nelle campagne della Polonia. La natura sembra un vasto deserto dove si trovano solo alberi imbiancati dalla neve, qualche resto di strade semiperdute e il soffio del vento del nord, mobile indicatore che spesso si alterna alla brezza. Il viaggiatore, errando senza guida, interroga quei deboli indizi del sentiero di cui cerca invano la traccia sperduta sotto il ghiaccio. È allora che l'aspetto fastidioso di quelle campagne disabitate ispira all'animo delle meditazioni terribili. Questa tristezza si prolunga fino alle porte di Varsavia. Là tutto cambia: una città immensa, dappertutto una fiumana di persone, delle scene variate e dei palazzi magnifici colpiscono ovunque lo sguardo. I paramenti rumorosi dei cavalli, docili alle briglie che li dirigono, annunciano da lontano il rapido passaggio delle slitte, pronte a sparire sulla neve che cede ai loro sforzi inaspettati; e l'elegante polacca, protetta da un abbigliamento attorno al quale brilla l'ermellino più bianco del suolo innevato su cui premono i suoi piedi delicati, mostra all'occhio incantato la sua figura slanciata e la sua testa affascinante... Perdonatemi se penso con trasporto a luoghi dove il mio cuore si è riempito di ricordi dei quali nulla turberebbe la dolcezza, se solo potessi dimenticare gli avvenimenti che sto per raccontarvi.

Costretto a lasciare la Polonia, ero già a venti miglia da Varsavia e la mia carrozza, sperduta in strade coperte di neve, si fermò di colpo. Era notte, i cavalli non potevano più proseguire. Il postiglione mi indicò un castello e mi spinse ad andare a cercare ospitalità: decisi di farlo. Una porta era socchiusa ed entrai, ma nessun domestico si presentò. Chiamai, nessuno rispose. Però il castello era abitato, una luce viva illuminava una stanza che si distingueva sullo sfondo attraverso gli alberi del parco; andai in quella direzione, pur esitante. Il silenzio circostante mi ispirava anche un po' di paura, tuttavia alla fine entrai e trovai, accanto a una tavola imbandita con eleganza, una donna giovane e splendente di bellezza, ma inanimata e con la testa reclinata su una poltrona come se, sorpresa dal sonno, avesse ceduto a un assopimento involontario. Ne ebbi subito la conferma: quattro bambini erano vicino a lei; uno la copriva di carezze piangendo, altri due la chiamavano e una ragazzina di età poco superiore all'infanzia si sforzava di farli tacere. Quest'ultima, appena mi vide, mi corse incontro e mi disse con ingenuità toccante:

"Signore, mamma ha bisogno di riposo, ha tanto pianto oggi, non svegliatela. Vedete, dorme."

Sorpreso dalla scena che si presentava ai miei occhi, interrogai la ragazzina e lei mi rispose:

"Stavamo cenando, un amico di maman era con noi; lui parlava, maman piangeva, le si è avvicinato e, non so perché, quell'uomo cattivo mi ha fatto paura!... Poi se ne è andato. Mamma è diventata pallida, ha scritto per un momento su questo foglio. All'improvviso ha urlato: Elisca!... è così che mi chiamo. Sono corsa alle sue ginocchia, lei m'ha guardata, il suo sguardo mi spaventava e poi... Ecco come si è addormentata."

Allora un sinistro sospetto si impadronì di me. Presi il foglio dalle mani di Elisca. Lo lessi. Conteneva poche righe tracciate a fatica. Me le ricordo. Eccole:

"Il mostro!... Io gli ho dato ospitalità... Sono perduta... mi ha tradito... Io l'amavo e lui mi uccide... Mi resta poco da vivere... le forze si estinguono. Il mio sangue è prosciugato... Oh miei poveri bambini! Cosa sarà di voi!... Oh cielo! Abbi pietà... Elisca!..."

Esaminai quella sfortunata madre, cercai di riportarla alla vita. Vani soccorsi!... ella non era più. Era stata vittima di un vampiro.»

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Pagina 61

SECONDA PARTE



Lord Ruthwen, quell'uomo misterioso che nascondeva il suo terribile segreto sotto le perfide apparenze di un'amabilità colma di fascino, aveva approfittato di una circostanza imperiosa per strappare allo sfortunato Aubrey, compagno imprudente dei suoi viaggi, il giuramento di tacere per un anno e un giorno sui crimini di cui era stato testimone. Ricordiamo con orrore quel giuramento funesto, la cui forza straordinaria aveva totalmente incatenato Aubrey, mentre suo malgrado la sorella si era fidanzata con Lord Ruthwen, diventando la vittima d'un silenzio che un potere soprannaturale e la virulenza della malattia gli fecero custodire fino in fondo. Alla fine il destino, che presiede a tutto e tiene il conto dei nostri istanti, portò a termine l'unione di quanto il mondo offre di più virtuoso e amabile con la perversione più odiosa: e il giorno delle nozze, quel primo giorno così puro, così dolce, presagio ingannevole d'una felicità che si crede eterna e che dura così poco, quel giorno pieno di vita fu la tomba della sfortunata Georgina.

Un dolore immenso lasciò a lungo Aubrey fuori di senno. Chi gli era vicino, impaurito, aveva dato la notizia della sua morte. Invece, grazie alla forza della natura, al culmine di un lungo letargo il suo polso si rianimò, gli occhi si aprirono e i battiti del suo cuore annunciarono il suo ritorno alla vita.

La vendetta fu il primo bisogno che sentì. Appena ristabilito, partì da Londra e si gettò sulle tracce di Lord Ruthwen. Sapeva che la bella Italia è l'oggetto del desiderio e la meta dei viaggi per uomini ai quali il denaro permette quelle emigrazioni volontarie. Una segreta intuizione diresse le sue ricerche verso le ridenti contrade che aveva già percorso in tempi più felici. Sbarcò a Venezia, chiese ovunque se conoscessero Lord Ruthwen, se lo avessero visto. Tutto inutile! Non riuscì a scoprire nulla. Allora la malinconia lo condusse sulle rive dell'Adriatico. Là, pieno di ricordi dolorosi, ispirato dai luoghi incantevoli che ammirava, disegnò su un foglio bagnato di lacrime i luoghi dove avrebbe desiderato passare il resto della sua vita con la cara sorella che avrebbe pianto per sempre.

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Pagina 128

TERZA PARTE


Il Ministro del Duca di Modena



Alfonso II, duca di Ferrara, morto senza figli nel 1597, proclamò per testamento Cesare d'Este suo erede universale. Il nuovo duca informò della sua incoronazione papa Clemente VIII. Ma la corte di Roma, per le più futili ragioni, pretendeva che il ducato di Ferrara fosse dovuto alla santa sede; e il pontefice, lungi dal riconoscere Cesare come legittimo successore di Alfonso II, emise una sentenza con la quale lo dichiarava incapace di succedere al ducato di Ferrara, scomunicò il principe con tutti i suoi seguaci e sottomise quella città all'interdetto.

Le truppe del papa, in numero di venticinquemila uomini, s'avvicinavano al Ferrarese. Il duca Cesare, non potendo ottenere aiuti da alcuna potenza straniera, si decise a sollecitare una sospensione delle ostilità.

Ci voleva un uomo abile per condurre quel negoziato importante. Il duca ne incaricò un signore inglese che aveva ottenuto tutta la sua fiducia. Uomo di stato, politico profondo, dotato di tutte le qualità e abile negli stratagemmi che decidono i successi nelle corti, Lord Seymour, giunto da poco tempo a Ferrara, era diventato l'amico, il confidente del principe. Accettò con sollecitudine un'ambasciata che apriva le porte alla sua ambizione. Il cardinale Aldobrandini, nipote del papa e legato pontificio a Bologna, si recò a Faenza, luogo scelto per i colloqui, e, con la sua astuzia, il ministro del duca gli fece firmare una capitolazione, a condizione che Cesare fosse assolto da tutte le censure, rinunciando al possesso del ducato di Ferrara e delle sue dipendenze, e cedendo al papa la metà dell'artiglieria e delle armi che erano in città.

Il duca lasciò Ferrara e stabilì la sua corte a Modena. Prestò le proprie cure all'abbellimento della sua nuova capitale, e la rese presto più sfavillante della città che aveva lasciato alle pretese della corte di Roma. In poco tempo Ferrara si spopolò e venne abbandonata.

Lord Seymour fu nominato primo ministro del duca di Modena. All'inizio quella corte nascente ebbe dalla sua parte tutte le speranze che si rivolgono a un nuovo governo. Ma l'amore per la novità è superficiale e non resiste alla forza delle fazioni. Lo spirito di parte, indebolito, snaturato, perduto sotto un governo forte, si risveglia, cresce, si estende e domina sotto un principe debole. In politica, il peggiore dei sistemi è non averne. Un procedere incerto che rovescia oggi ciò che ieri ha innalzato ha tutte le sembianze della slealtà, e la slealtà conduce al disordine. Tale fu presto la situazione del governo del duca di Modena. I Ferraresi, che avevano abbandonato le terre paterne, pretendevano di essere indennizzati per la loro volontaria emigrazione, mentre i Modenesi criticavano con il veleno dell'invidia quegli stranieri che aspiravano a tutti i privilegi. Il principe aveva abbandonato le redini dello Stato al suo primo ministro, che veniva accusato di un'inclinazione irresistibile per il male. Più di una volta lo si vide proteggere il vizio a spese della virtù, soffocare la voce della giustizia, il grido della doglianza, la voce dell'onore; e allora un malcontento che si estendeva ogni giorno di più avrebbe potuto condurre a delle grandi calamità sociali; ma, in quell'epoca fortunata, la fedeltà prevaleva sull'abisso delle rivoluzioni.

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Pagina 159

JOHN WILLIAM POLIDORI


Il Vampiro



Fra le dissolutezze che si succedettero in un inverno londinese fu ammirato nei tanti ricevimenti esclusivi del bel mondo un nobiluomo, notevole più per le sue stranezze che per il suo rango. Contemplava le gioie che lo circondavano, come se non potesse parteciparvi. In apparenza sembrava attirare la sua attenzione solo il lieve sorriso delle belle donne, ma un suo sguardo bastava a farlo svanire spargendo la paura in quei seni dove regnava la spensieratezza. Chi provava tale sensazione di sgomento non se ne spiegava la ragione: c'era chi l'attribuiva al suo occhio mortalmente grigio che, fissandosi sulla superficie del volto, non sembrava penetrarlo e giungere subito ai profondi meccanismi del cuore, ma si posava sulle guance con un raggio plumbeo che premeva la pelle senza oltrepassarla.

La sua originalità fece sì che venisse invitato in ogni casa: tutti desideravano vederlo e coloro che erano assuefatti alle emozioni violente e che ora sentivano il peso della noia, si compiacevano di imbattersi in qualcosa capace d'impegnare la loro attenzione. Nonostante il colorito cadaverico del suo volto, che non assumeva mai una tinta più animata né dal rossore della molestia, né dalla forza passionale delle emozioni, pure la sua fisionomia e i suoi tratti erano belli: molte donne a caccia di notorietà tentavano di catturare le sue attenzioni e di meritarsi, almeno, qualche segno di ciò che esse avrebbero chiamato sentimento. Lady Mercer, che dopo il matrimonio era divenuta bersaglio di tutti i mostri che popolano i salotti, s'accinse a quell'impresa e per attirarsi la sua ammirazione fece qualsiasi cosa, salvo vestirsi da saltimbanco: ma invano. Quando lei gli stava di fronte i suoi sguardi sembravano apparentemente fissarla, eppure era come se non si accorgesse nemmeno della sua presenza; persino la sua sfrenata impudenza rimase delusa ed ella abbandonò il campo.

Benché la volgare adultera non riuscisse nemmeno a intercettare i suoi sguardi, non era però che il sesso femminile gli fosse indifferente; ma tale era l'apparente riserbo con cui si rivolgeva alle mogli virtuose e alle figlie innocenti, che pochi s'accorsero ch'egli fosse mai stato interessato a una donna. Aveva fama, comunque, d'essere un conversatore affascinante, e sia che fosse questo a dissipare i timori suscitati dal suo carattere bizzarro, sia che fossero attratte dal suo apparente odio per il vizio, egli frequentava tanto le donne che onorano il loro sesso con le virtù domestiche, quanto quelle che lo deturpano con i loro vizi.

Più o meno nello stesso periodo arrivò a Londra un giovane gentiluomo di nome Aubrey: era orfano e, con la sua unica sorella, era entrato in possesso di grandi ricchezze ereditate dai genitori, morti quando era ancora fanciullo. Anche i tutori lo lasciarono in balia di se stesso, convinti che fosse loro dovere occuparsi esclusivamente del suo patrimonio, e affidarono il più importante incarico di educare il suo spirito alla cura di istitutori a pagamento. Così egli si dedicò più a coltivare le fantasie che l'intelletto. Aveva, però, quel romanticissimo sentimento dell'onore e della purezza che ogni giorno porta alla rovina tante giovani apprendiste di bottega. Credeva che tutti aspirassero alla virtù e pensava che il vizio fosse mandato dalla Provvidenza solo per dare un effetto pittoresco alla scena, come in certi romanzi: pensava che la miseria di quanti vivono in povertà consistesse solo nel tipo di vestiti che indossavano, capaci di tener caldo ma che con le loro fogge irregolari e con le toppe a vari colori erano più adatti agli sguardi di un pittore. Pensava, in una parola, che i sogni dei poeti fossero la realtà della vita.

Era bello, sincero e ricco: per queste ragioni, al momento del suo ingresso nei circoli mondani molte madri gli si fecero intorno, in gara fra loro per dipingergli coi colori più seducenti le loro languide o vivaci pupille. Le figlie d'altronde, con i loro modi disinvolti quando si avvicinava e il luccicare degli occhi quando apriva le labbra, suscitarono presto in lui un'opinione errata dei propri meriti e dei propri talenti.

Abituato com'era ai romanticismi delle sue ore solitarie, si meravigliava di scoprire che – a parte il tremolare delle candele di cera e sego, dovuto non alla presenza di un fantasma, ma al bisogno di smoccolatura – nella vita reale non si verificavano quei ritratti e quelle descrizioni dilettevoli contenuti nei libri che erano stati l'oggetto dei suoi studi. Tuttavia, trovando abbastanza gratificata la sua vanità, stava per congedarsi da quei sogni, allorquando s'imbatté nell'uomo straordinario che abbiamo prima descritto.

Si mise a studiarlo. Era davvero impossibile formarsi un'idea del carattere di un uomo totalmente assorto in se stesso, che dava ben pochi segni di avvedersi degli oggetti che lo attorniavano, se non la tacita ammissione della loro esistenza, visto lo sforzo che faceva per evitarli. Concedendo all'immaginazione di abbandonarsi a qualsiasi cosa che lusingasse la sua propensione alle idee stravaganti, lo trasformò presto in un eroe da romanzo e si dedicò ad ammirare il frutto della sua fantasia anziché la persona reale che gli stava di fronte. Cominciò a frequentarlo, lo trattò con ogni riguardo e si fece tanto notare che la sua presenza non passava mai inosservata.

A poco a poco apprese che le finanze di Lord Ruthven erano in difficoltà, e dai preparativi che si facevano in **** Street presto si accorse che stava per mettersi in viaggio. Desideroso di acquisire qualche informazione su quel personaggio singolare che finora aveva soltanto solleticato la sua curiosità, avvertì i suoi tutori che era giunto il momento per lui di compiere un tour in Europa: si trattava del viaggio che per molte generazioni è stato considerato indispensabile affinché un giovane faccia qualche rapido passo avanti sulla strada del vizio fino a mettersi al pari con gli adulti, senza far la figura di cadere dalle nuvole quando si parla di scandalosi intrighi in modo scherzoso o compiaciuto a seconda del grado di abilità dimostrata nel realizzarli.

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