Copertina
Autore Florence Noiville
Titolo Ho studiato economia e me ne pento
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2010, incipit 48 , pag. 92, cop.fle., dim. 11x17,7x1 cm , Isbn 978-88-339-2155-6
OriginaleJ'ai fait hec et je m'en excuse
EdizioneStock, Paris, 2009
TraduttoreMaddalena Togliani
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe economia , globalizzazione , universita'
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Indice


  7         Prologo

  9    1.   Quadri, avanti tutta!

 15    2.   Il modello MMPRDC

 20    3.   Qualche danno devastante causato dallo MMPRDC

 30    4.   Aldous, eccoci qui!

 33    5.   E la natura, in tutto questo?

 37    6.   Che senso ha?

 44    7.   Grazie, Mahfouz!

 47    8.   Colpevoli ma non responsabili?

 50    9.   Colpevoli ma incapaci?

 54   10.   «L'etica? Tutte balle!»

 59   11.   Colloquio con il professor Y

 66   12.   «I bave a dream...»

 75   13.   «Tu sogni, non cambierà niente»

 83         Epilogo

 87         Ringraziamenti


 

 

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Pagina 9

1.

Quadri, avanti tutta!


Venticinque anni fa mi diplomavo all' École des Hautes Etudes Commerciales (HEC). In occasione del venticinquesimo anniversario sono previste una festa e diverse celebrazioni a ricordo del nostro diploma, battezzato con il nome un po' ridicolo di «Quadri, avanti tutta!».

Era il 1984. Uscivamo da una scuola in cui, – almeno per alcuni di noi era così – eravamo entrati per caso. Non che gli anni trascorsi nello splendido campus di Jouy-en-Josas non fossero stati felici, ma la nostra presenza lì non era sempre motivata da una necessità, né tantomeno da una vocazione. Piuttosto da una concatenazione di circostanze. Finisci gli studi superiori con buoni risultati, scegli una prépa a indirizzo generale per non precluderti nessuno sbocco. Sei accettato per la prépa in un liceo «a cui non puoi dire di no»: Louis-le-Grand, nel mio caso. Entri come gli altri nelle aziende che, a detta di tutti, sapranno formarti meglio: Procter e Gamble, Colgate, L'Oréal, IBM o Arthur, che non si chiamava ancora Accenture. E la via è segnata...

Allora, quelli che avevano più fretta di arricchirsi partivano per Londra a lavorare in finanza, per fondi d'investimento o banche d'affari. Erano chiamati golden boys o yuppies, parole oggi decisamente svalutate, è il caso di dirlo. Chi era alla ricerca di un lavoro divertente si orientava verso la pubblicità o il market'. Faceva più tendenza dire market' che marketing, e noi eravamo smart, quick e chi più ne ha, più ne metta. Un'amica americana ci chiamava addirittura high pots invece di high potentials. Gli altri erano dei mediocri, incapaci di capire la modernità e perfino la bellezza dell'economia mondiale!

Ecco, erano proprio quelle le due strade migliori, le discipline regine della scuola: la finanza e il marketing. E, soprattutto, erano gli anni ottanta. A noi giovani neodiplomati veniva steso il tappeto rosso: perché mettersi a riflettere? Perché mettere in dubbio le finalità di quel bell'edificio?

In effetti, allora sarebbe stato ben difficile immaginare, venticinque anni dopo, il cataclisma della crisi attuale. Pur diffidando dell'illusione retrospettiva, non è possibile non interrogarsi sulla parte di responsabilità imputabile, in questo disastro, all'insegnamento delle grandi scuole di finanza. Il nocciolo del problema non è tanto l'insegnamento impartito negli anni ottanta, ma l'incapacità di quelle scuole di cogliere, nell'ultimo decennio, i molti segnali di un possibile crollo dell'economia capitalista spinta ai suoi limiti estremi. Queste scuole, in totale osmosi con il mondo degli affari, non godevano forse di una posizione privilegiata, che avrebbe consentito loro di individuare per prime la catastrofe in arrivo?


Per alcuni economisti l'onda d'urto della crisi del 2009 avrà ripercussioni più profonde e più drammatiche di quella del 1929. Questa crisi, d'altronde, è indissociabile dal tipo di formazione ricevuta dalle élite economiche e finanziarie. È stata causata in gran parte, se non dall'applicazione di tecniche imparate nelle business schools, almeno da quello che potremmo chiamare lo spirito di un capitalismo senza limiti che, in ultima analisi, ci hanno insegnato a portare avanti.

Con queste parole non intendo stigmatizzare una scuola né tutte le scuole di management. Ancora meno intendo condannare retrospettivamente l'insegnamento ricevuto alla HEC. Desiderio piuttosto sollevare la questione della responsabilità delle grandi scuole di economia: devono modificare oggi stesso il proprio modo d'insegnare per dimostrare di avere tratto delle conclusioni dalla crisi del 2009.

Ripensiamo alle due «discipline regine». Vediamo cos'ha prodotto la finanza. «L'intera economia mondiale è fondata oggi su gigantesche piramidi di debiti, che si appoggiano le une alle altre in un fragile equilibrio. Mai in passato si era osservato un tale accumulo di "pagherò". Mai, certo, si era manifestata un simile potenziale di instabilità, tale da minacciare il crollo totale». Lo scrive il premio Nobel per l'economia Maurice Allais sul «Figaro» fin dal 1998, durante la crisi finanziaria asiatica. Maurice Allais: un vecchio eccentrico, avranno senz'altro pensato i miei colleghi che, a quei tempi, nella City, a Wall Street o a Hong Kong, pensavano soprattutto a guadagnare fior di bonus.

E il marketing cos'ha prodotto? Un sovraconsumo febbrile. Una «gigantesca piramide» di falsi bisogni e di pesanti frustrazioni che, oggi più che mai, comportano rischi di sovrapproduzione, di disoccupazione massiccia, di spreco irreversibile delle risorse naturali. In breve, una società che agisce in modo assurdo, sopravvalutando i commercianti a danno dei ricercatori, degli infermieri, dei professori...


Qualche mese fa, ho dato un'occhiata ai casi di finanza e di marketing che propongono a HEC: come ad Harvard, l'insegnamento si basa sull'analisi dei «casi». Come temevo, nulla o quasi è cambiato a Jouy-en-Josas negli ultimi venticinque anni. Certo, sono state introdotte alcune nuove cattedre di commercio equo, di filantropia, di social business... Certo, esiste ormai una specializzazione in management alternativo. Ma tutto questo resta marginale. I «fondamentali» delle discipline regine sono sempre gli stessi!


Lo scopo di questo libro? Suonare l'allarme, dare uno scossone. Ricordare che ciò che s'impara nelle scuole di management non può più essere considerato come il fondamento di un'economia duratura, e ancora meno di una «politica culturale». Contribuire a fare in modo che questo messaggio non venga dimenticato quando l'andamento della Borsa sarà risalito.

Il paradosso attuale è che gli studenti migliori continuano a orientarsi compatti verso i corsi preparatori per le scuole di finanza da sempre più ambite. Se gli studenti le metteranno sotto pressione, quelle scuole finiranno per rimettersi in discussione radicalmente? Si convinceranno una buona volta che spetta a loro trasmettere ai futuri dirigenti non solo delle tecniche, ma anche dei princìpi e dei valori? Se non corriamo ai ripari, continueranno a insegnare ai migliori una visione del mondo secondo un modello che, come vediamo tutti i giorni, non funziona.

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Pagina 30

4.

Aldous, eccoci qui!


Dov'è finito Sébastien? Di tanto in tanto me lo chiedo. Sébastien e io eravamo piuttosto amici a Jouy-en-Josas. Adoravo le sue battute dette con aria seria e il suo amore per le cose belle, impazzivo per le nostre gite a Roma sotto la pioggia. E poi, dopo la scuola, basta, volatilizzato. Sébastien era andato a lavorare sul lago Lemano per l'orologeria svizzera: aveva rilanciato e poi rivenduto una grossa azienda, facendo fortuna in poco tempo. O almeno erano queste le voci di corridoio: la fortuna accumulata gli aveva permesso di andare in pensione molto presto. Non ancora trentenne, viveva di rendita: eravamo in molti tra gli ex-compagni di studi ad ammirarlo e invidiarlo.

Il mio problema era che Sébastien era scomparso. Sempre in viaggio tra la Svizzera e altri paesi, viveva in aereo e non c'era mai. Un giorno, miracolo, si è fatto vivo. «Vieni a cena in rue Vieille-du-Temple?» Quella sera sono arrivata di corsa e ho trovato la tavola apparecchiata in un magnifico hôtel particulier del Marais: puro Settecento, cortile lastricato, soffitti altissimi, candelabri, mobili antichi, arredamento splendido.

Allora, la leggenda era vera. Seb aveva davvero fatto fortuna ma, intelligente e modesto com'era, questo non era per lui motivo di vanto particolare. Quella sera, si faceva due domande. Appassionato di sci, aveva visitato tutte le stazioni del mondo, tutti gli spots immaginabili. Dalle più improbabili piste libanesi ai rilievi più pericolosi nelle Ande. Dove andare, su che pendii sfrecciare per provare un brivido, dove comprarsi un altro chalet? E poi – e questo mi riguardava più da vicino – voleva sapere cosa leggere. A torto o a ragione, sentiva di avere in letteratura «un ritardo pazzesco». Gli ho fornito qualche pista, è il caso di dirlo, abbiamo scambiato gli indirizzi mail e l'ho perso un'altra volta. «Che fine ha fatto Sébastien?», mi chiedo regolarmente.


Forse, anzi certamente, starà nelle statistiche che ho letto poco tempo fa sul «Financial Times». L'articolo spiegava che – manco a farlo apposta – nel corso degli ultimi venticinque anni la differenza media di stipendio tra un direttore generale e un dipendente negli Stati Uniti era cresciuta a dismisura: da 1 a 40 nel 1980, era passata da 1 a 411 nel 2005. Con la conseguenza spettacolare che i 300000 americani in cima alla scala guadagnano quanto i 150 milioni di americani che si trovano in basso. Ho ritrovato queste cifre su «Le Monde». Per la Francia, l'economista Camille Landais aveva fatto questi calcoli: tra il 1998 e il 2006, «mentre il reddito medio del 90 per cento dei francesi più poveri era quasi fermo, quello dell'altro 10 per cento della popolazione (i più ricchi) aumentava dell'8,7 per cento e, soprattutto, il reddito dello 0,01 per cento (i più abbienti di tutti) cresceva vertiginosamente del 42,6 per cento»: Naturalmente Sébastien come persona non c'entrava niente in tutto ciò. Che mi perdoni, anzi, se legge queste righe, per averlo citato a titolo di esempio. Eppure, non posso — e forse non può farlo neanche lui — non interrogarmi. In che misura noi della HEC e simili abbiamo contribuito a questa macchina infernale che produce da una parte dei «megaricchi» e all'altro estremo dei «lavoratori poveri»? In che misura saremmo responsabili se si realizzasse la terribile profezia di Aldous Huxley, da una parte «gli alfa del denaro» e dall'altra «gli omega della miseria»? E, soprattutto, che polveriera sociale lasceremmo in eredità ai nostri figli?

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Pagina 40

Da un punto di vista più generale, gli altri miei ex-compagni di studio non sono meno severi. Cos'hanno imparato sul campus? Non molto, e a volte addirittura «niente», a parte qualche «punto di riferimento in fatto di arte contemporanea», «l'arte di cavarsela» e... «il rock-and-roll»! Lamentano anche le «gravi lacune», nelle risorse umane in particolare, in quello che chiamano «quoziente emotivo» o «intelligenza relazionale». Peggio ancora, considerano in genere che la HEC e le grandes écoles di management spesso catapultino in posizioni importanti dei quadri che hanno smarrito il senso della realtà, compiaciuti della propria importanza e poco sensibili alle «conseguenze umane degli atti di management». In poche parole, dei futuri dirigenti ai quali, come dice Juliette, «è stato insegnato a brillare nel momento presente piuttosto che a costruire a lungo termine».


Nessuno è ingenuo o idealista. Nessuno crede a un mondo perfetto, ma ognuno avverte, dentro di sé, i limiti del modello che la formazione – formattazione? – ricevuta vorrebbe fargli riprodurre, e la necessità di associarlo a un nuovo progetto di società. Ognuno, con parole sue, chiede il ritorno delle materie umanistiche, filosofia, psicologia e scienze umane, storia economica, etica... Insomma, vere forme di sapere, non solo tecniche avulse dal contesto. Tutti sottolineano soprattutto quanto sia urgente che le grandes écoles, formatrici dei leader di domani, propongano «un'apertura a modelli di successo differenti» e «ricchi di senso».


Fare HEC non ha allora nessun senso? Sarebbe un progetto «insensato»? Jean-Philippe fa osservare che «dare un senso significa rispondere alla domanda "per-che", in due parole». «Non mi sembra che finora HEC abbia risposto in modo esauriente a questa domanda» osserva. «O meglio, diciamo che ha risposto come le altre, senza mettere in dubbio il paradigma del Progresso che oggi sta crollando».

Questo paradigma sappiamo bene dove ci ha portati, insiste Jean-Philippe: «Sovraconsumo, individualismo sfrenato, culto esacerbato della giovinezza, paura della vecchiaia, della malattia, tabù della morte...» Stiamo andando fuori tema? «Non proprio, perché i diplomati di HEC sono in prima linea nella costruzione di questa società». Una società che si basa su una promessa semplicistica e seducente: «Grazie al progresso, l'uomo eliminerà la componente tragica dalla vita e raggiungerà la felicità». Una promessa che ha incontrato un grande successo, anche perché i suoi sostenitori non possono essere colti in fallo: «A tutt'oggi la promessa non è stata mantenuta? Lo sarà domani, grazie a un progresso ancora maggiore».

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Pagina 56

È Antoine che, per primo, distrugge ogni mia speranza. Studente del terzo anno (indirizzo strategic management), sembra non capire di cosa parlo.

L'insegnamento? Resta, mi dice, «piuttosto concentrato su materie quantitative come la finanza e la contabilità», anche se, purtroppo, «le offerte di lavoro sono molto meno numerose di prima». La crisi? Ah, la crisi! Secondo lui, non si può rimproverare alla HEC di non averla anticipata. Con gli stipendi che girano in queste professioni, gli studenti si affollano nei corsi degli indirizzi di finanza e strategia, alimentando così l'euforia finanziaria...»

Resto perplessa. Si tratta di ironia? Autoderisione? Antoine vuole dirmi che la HEC ha contribuito alla crisi?

Senza volere, altri studenti, Alix e David, mi danno il colpo di grazia. Mentre parlo con loro del corso di etica degli affari che, immagino, sarà diventato una pietra miliare nel piano di studi a Jouy-en-Josas, uno di loro si stupisce: «Non credo che esista un corso del genere, o almeno non nel mio indirizzo». Aggiunge, dubbioso: «Immagino che [un corso del genere] susciterebbe reazioni contrastanti: un mucchio di balle per qualcuno, una necessità per i più altruisti». Un altro studente mi fornisce la risposta che cercavo: il corso di etica degli affari non è obbligatorio. È «solo una materia facoltativa». Ai miei tempi, si diceva «facoltativo di apertura». Sono rimasta senza parole. E come per darmi la mazzata finale, Alix mi informa che «il corso sul commercio sostenibile è stato annullato l'anno scorso... per mancanza di partecipanti».


Nelle testimonianze di questi studenti, percepisco un filo di incredulità. Come se venissi dalla luna. Come se mi rendessi conto, venticinque anni dopo, che un' école de commerce serve a insegnare... i fondamenti del commercio. Sì, insomma, quelli che sono alla base degli scambi dai tempi dell'Antichità. Penso alla lontana parentela che lega, attraverso le epoche, il mercante fenicio, il grande commerciante della strada della seta, dell'avorio o delle spezie, e il trader (letteralmente commerciante) di Wall Street... In quel momento Antoine interrompe le mie fantasticherie. La sua conclusione ha il merito di essere chiara. «Sa, si tratta di una scuola dove si insiste sulla creazione di valore, principalmente finanziario. Il denaro occupa un posto fondamentale negli insegnamenti e nelle preoccupazioni degli studenti!»

Ecco la conclusione. Perché la scuola dovrebbe cambiare atteggiamento se la domanda non muta e se continua a guadagnare soldi fabbricando lo stesso prodotto? A prima vista, ci sono ben pochi segni della rivoluzione intellettuale che, a mio avviso, dovrebbe dilagare nei campus delle business schools francesi dopo la crisi peggiore dopo quella del 1929.


Tomasi di Lampedusa aveva ragione, allora? Bisogna che cambi tutto perché non cambi niente?

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Pagina 66

12.

«I have a dream...»


«Pensate, rispose Martin, che gli sparvieri abbiano sempre mangiato piccioni, quando ne trovavano?» «Sì, senza dubbio», disse Candido. «Ebbene, replicò Martin, se gli sparvieri hanno sempre avuto la stessa indole, come potete pensare che gli uomini abbiano modificato la loro?» Voltaire, Candido (1759)


Dopo quella cena faccio un sogno. Un sogno in forma di econo-fiction. Sono sul campus, siamo nel 2019 e riconosco tutto: l'uscita a Vauhallan, l'edificio delle lezioni, il parco. Mi pare che sia cambiato qualcosa, ma non saprei dire cosa: la scuola non è esattamente uguale ma non si può dire che sia diversa.

Uno studente mi propone di seguire un corso. Un corso del suo indirizzo «povertà». Povertà? Sì, mi spiega. Ogni indirizzo corrisponde ormai a una questione sociale: ambiente, lavoro, salute, povertà... Mi stupisco: le opzioni classiche, finanza, marketing, strategia... sono sparite? Mi dice di no, si trovano in tutti i corsi, ma le tecniche sono messe al servizio dei problemi che affliggono la società nel suo complesso.

«So», dice, «che nel secolo Novecento era il contrario. Ma crediamo che sia proprio quell'inversione assurda ad avere causato il distacco dell'insegnamento dal mondo reale e la catastrofe economica del 2008. L'abbiamo imparato in storia. E poi, è molto più motivante contribuire a risolvere dei...»

S'interrompe. È appena arrivato il professore e comincia l'analisi del caso del giorno. Si tratta di un problema di banca e di credito formulato in questo modo: «Siete a capo di un istituto di credito e il vostro obbiettivo è limitare il più possibile il sovraindebitamento. Dovete calcolare il profitto più alto che riuscite a generare con il minor numero possibile di famiglie sovraindebitate. Dovete costruite un business model nel quale:

1. lo stipendio dei vostri quadri dipende da quest'obbiettivo;

2. rendete pubblico ogni anno il numero di sovraindebitati;

3. immaginate una partnership di tipo nuovo con un assicuratore.

Per concludere, vi interrogherete sul modo in cui queste innovazioni vi permettono di sottrarre fette di mercato ai vostri concorrenti. Non dimenticate di argomentare la necessità di una regolamentazione più severa».


Il problema analizzato nell'indirizzo «lavoro» riguarda un'azienda della grande distribuzione. Questa volta gli studenti devono concepire «un sistema di produzione che incorpori il più alto numero di posti di lavoro, in periodo di crescita o in fase di rallentamento economico». Per questo sono invitati a interrogarsi su:

1. un cambiamento nel modo di remunerazione dei dirigenti;

2. un rapporto diverso con la produttività;

3. l'introduzione di un sistema di democrazia nell'azienda rispetto alle principali scelte strategiche o altro.


Nel mio sogno, passo da un'aula all'altra e da un motivo di stupore all'altro. In «salute», agli studenti viene chiesto di lavorare per una multinazionale del settore agroalimentare, e uno dei loro obbiettivi è «contribuire alla riduzione dell'obesità». Quanto agli studenti che si specializzano nell'«ambiente», si concentrano con estrema serietà sullo sviluppo di una logica di business con concetti come «decrescita» e «società frugale».


C'è una cosa che mi colpisce: non si parla mai di capitalismo né di postcapitalismo, né di neo-, ultra- o metaliberalismo. Idem per socialismo, comunismo, spartachismo, altermondialismo, situazionismo o non so che altro. Pragmatismo, forse. Sorpreso dalle mie domande, uno degli studenti mi risponde con semplicità stupefacente: «Ci sono dei problemi, cerchiamo di risolverli senza scartare nessuna pista, ecco tutto».

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Pagina 79

Nel corso della conversazione, Vincent mi spiega che, in generale, «la finanziarizzazione ha provocato metastasi perfino nell'educazione». Che l'insegnamento del management è «una successione di corsi da scegliere à la carte, al di fuori di un progetto globale». Che l'ossessione della scuola è il ranking, cioè la posizione (eccellente, peraltro) nelle classifiche internazionali. «Però», sospira, «un ranking non crea di per sé un progetto pedagogico. Detto questo, sta' tranquilla. Succede lo stesso all'ESSEC o all'ESCP...»

Stare tranquilla? Niente di ciò che mi dice Vincent mi fa stare tranquilla. Anzi, tutto il contrario. E l'arrivo, al momento del caffè, di Philippe, uno dei suoi più cari amici, professore anche lui alla HEC nel tempo libero, non migliora la situazione.

Infatti si lanciano entrambi in una critica del corpo docente. «Anche nell'educazione», spiega Philippe, «e non solo da Lazard o da Lehman Brothers, la finanziarizzazione crea dei disastri. Una volta all'anno, a San Diego, si svolge un mercato di professori. Un bravo insegnante in materie finaziarie, anche giovane, viene ingaggiato per 150-200000 curo. La scuola lo assume non certo per insegnare, ma per fare ricerca e pubblicare degli articoli nelle riviste che le faranno guadagnare dei punti nelle classifiche, e tiene le dita incrociate perché nel frattempo non glielo porti via un'altra business school che lo paga di più! Nel frattempo, sono i "vecchi" come me che fanno lezione. I professori che guadagnano di più sono quelli "globalizzati", che possono insegnare in Messico o in Kazakhstan perché la loro materia è globale. Un fiscalista costa meno, a causa delle particolarità nazionali. Insomma, ti ritrovi con dei professori messicani che parlano male l'inglese e vengono a insegnare la finanza a dei pakistani che parlano male inglese, il tutto qui a Jouy-en-Josas. E lo chiamano progresso! È un modello insostenibile...»


Ascoltandoli, ripenso al progetto di questo libro. No, decisamente non si tratta di mettere in discussione una scuola, ma – Vincent e Philippe me lo confermano – l'insegnamento standardizzato impartito in tutti i campus delle business schools del mondo, che è uguale da Jouy-en-Josas a Hong Kong, da Philadelphia a Hyderabad. Un copia-incolla gigantesco che, ci vogliono far credere, funziona e continuerà a funzionare a tutte le latitudini. Un modello insostenibile? «Insostenibile perché forma dei cretini», precisa Vincent. «Della gente per cui l'azienda è un foglio Excel, la lingua il globish e il progetto l'arricchimento personale».

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