Autore Cees Nooteboom
CoautoreSimone Sassen [fotografie]
Titolo Venezia
SottotitoloIl leone, la città e l'acqua
EdizioneIperborea, Milano, 2021, Gli Iperborei 340 , pag. 256, ill., cop.fle., dim. 13x20x2 cm , Isbn 978-88-7091-640-9
OriginaleVenetië. De leeuw, de stad en het water
EdizioneDe Bezige Bij, Amsterdam, 2019
TraduttoreFulvio Ferrari
LettoreGiovanna Bacci, 2022
Classe citta': Venezia , narrativa olandese , narrativa nederlandese












 

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Indice


La prima volta                      7
Un lento arrivo                     9
Un sogno di potere e denaro        17
Il labirinto sgretolato            35
Turismo antico                     50

Immagini narrate I                 59
Due poesie                         72
La cena scomparsa                  77
Voci, organo, pioggia              82
La città liquida                   86

Nomi                              101
Sulle tracce dei pittori          130
Il giardino di Teresa             145
Giacomo e Teresa                  156
Gioco senza carte                 169

Tra i leoni                       183
La morte e Venezia                188
Il cimitero ebraico               192
Alpinismo postumo                 195
Immagini narrate II               205

Commiato incompiuto               212
Ultimo giorno                     240


 

 

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Pagina 9

Un lento arrivo


Nell'ora di allora c'è nebbia in Val Padana. Non ho voglia di leggere e guardo fuori i quadri che si succedono l'uno all'altro: una specie di palma, un arancio rapato a zero con i frutti che pendono assurdamente come un rimprovero, ma a chi? Salici piangenti lungo un fiume inquinato, marrone; cipressi ben curati; un cimitero con cappelle enormi, come se vi abitassero dei morti sbruffoni; lenzuola rosa stese ad asciugare; un battello capovolto, con la chiglia marcia; poi l'acqua: lo specchio biancastro e nebbioso della Laguna. Premo la fronte contro il finestrino freddo e vedo in lontananza il grigio accenno di qualcosa che dev'essere una città, ma che per ora ha l'aspetto deIl'intensificazione del nulla, Venezia.

[...]

Cammino lungo la riva degli Schiavoni. Se dovessi girare a sinistra mi perderei in un labirinto, ma non voglio andare a sinistra, voglio continuare a percorrere questa frontiera già quasi nascosta tra la terra e l'acqua fino al monumento alla Partigiana, alla forma distesa a terra di una donna morta, contro cui battono le piccole onde del bacino di San Marco. È crudele e triste, quel monumento. Il buio oscura quel corpo grande e cupo che sembra oscillare piano avanti e indietro, le onde e la nebbia mi ingannano, ho l'impressione che i capelli vengano sparsi dal movimento dell'acqua, l'impressione che la guerra sia adesso, non allora. È perché parla alla nostra memoria che è così grande, una donna troppo grande a cui hanno sparato e che continuerà a giacere nell'acqua fino a quando, come accade a tutti i monumenti, non sarà più triste ricordo di una specifica guerra e di una specifica resistenza, ma segno del perpetuarsi di guerre e resistenze. E tuttavia, com'è facile separare una guerra dal suo sangue, se è passato abbastanza tempo. Nel libro che porto con me, The Imperial Age of Venice, 1380-1580, le battaglie, il sangue e gli stati sono resi astrazioni raffigurate da tratteggi, frecce e confini mobili sulla carta dell'Italia, del Nord Africa, della Turchia, di Cipro e di quelli che oggi sono il Libano e lo Stato di Israele; le frecce arrivano fino a Tana e a Trebisonda, sul Mar Nero, fino ad Alessandria e a Tripoli, e sulle rotte segnate da quelle frecce le navi tornavano cariche di bottino e di mercanzie che fecero della città sull'acqua un tesoro bizantino.

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Pagina 17

Un sogno di potere e denaro


Un altro allora, un altro ora. Il tempo qui non pesa nulla. Oggi mi devo occupare dell'acqua. Tutto è un esercizio di ripetizione, la città deve essere riconquistata ogni volta. Palude del Monte, bacino di Chioggia, canale di Malamocco, valle Palezza, come sarebbe bello arrivare di nuovo a Venezia per la prima volta, però furtivamente, navigando verso il labirinto attraverso l'altro labirinto, quello delle paludi, tra gli animali acquatici, nella nebbia del primo mattino in un giorno di gennaio come questo, con nient'altro che il suono degli uccelli e lo sciabordio dei remi, l'acqua salmastra ferma e scintillante, la visione in lontananza ancora velata, la città avvolta nel suo segreto. Palude della Rosa, coa della Latte, canale Carbonera, sulla grande carta della Laguna le vie d'acqua appaiono disegnate come alghe ondeggianti, come piante dotate di curvi tentacoli mobili, ma sono vie d'acqua nell'acqua, percorsi che bisogna conoscere come un pesce conosce la sua strada, canali in un'acqua che con la bassa marea torna a essere terra, terra bagnata, fango risucchiante, terreno di caccia del totano moro, della pettegola e degli scolopacidi alla perenne ricerca di vermi e piccole conchiglie nelle loro dimore di acqua e di sabbia. Erano loro i primi abitanti e se un giorno la città, come un Titanic di infinita lentezza, tornerà a sprofondare nel molle terreno su cui sembra ancora galleggiare, saranno forse anche gli ultimi, come se tra quei due istanti il mondo avesse sognato qualcosa di impossibile, un sogno di palazzi e chiese, di potere e denaro, di potenza e declino, un paradiso di bellezza che ha cacciato via da se stesso perché la terra non poteva sopportare una tale meraviglia.

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Pagina 26

Una giornata di piccole cose. Starsene seduto a prua, sul vaporetto, nonostante il freddo e il vento, tormentato dalla pioggia; saltare sul ponte dal molo e poi dal ponte sul molo; desiderare di muoversi tutti i giorni così; sempre con il mobile elemento dell'acqua intorno, la promessa di un viaggio. Qui, nel vestibolo di San Marco, nel 1177 i potenti veneziani hanno costretto il Barbarossa a baciare il piede a papa Alessandro III e poi, sulla piazza, a reggere la staffa a Sua Santità al momento di montare sulla mula papale. Come ringraziamento, il papa ha fatto dono al doge di un anello con cui celebrare, il giorno dell'Ascensione, il matrimonio con il mare: «Ti sposiamo, mare, in segno di vero e perpetuo dominio.» In seguito il mare ha ripetutamente tradito la sua sposa, sempre la stessa e sempre rinnovata, ma almeno sotto un aspetto le è rimasto fedele: ancora oggi, ogni mattina, un tesoro argenteo si sparge sui banchi in pietra del mercato del pesce, orate e spigole, caponi e sogliole, e poi tutti gli altri colori, la seppia imbrattata d'inchiostro, come se uno scrittore avesse tentato invano di tirarne fuori qualcosa, l'anguilla ancora viva, serpeggiante, rossa per il sangue sgorgato dai tagli praticati dal coltello, il granchio che, con le sue otto zampe, cerca ancora la vita, le pietre viventi di mitili, ostriche, cuori di mare: qualsiasi uomo del Medioevo li riconoscerebbe, e riconoscerebbe anche la Pescheria, collocata da più di mille anni qui sul Canal Grande, vicino al ponte di Rialto, nei pressi della più antica chiesa di Venezia, San Giacometo. Sono entrato sotto l'orologio troppo grande con l'unica lancetta e i ventiquattro imponenti numeri romani, passando lungo le cinque colonne slanciate, con i capitelli corinzi che dal 900 sorvegliano pesce e verdure.

[...]

[...] io però ho un appuntamento alla Scuola di San Giorgio degli Schiavoni con il più grande di tutti i pittori veneziani: Vittore Carpaccio. All'Accademia ha una sala tutta sua dove si resta imprigionati nel suo universo mentre su tutt'e quattro le pareti racconta la leggenda di sant'Orsola, una serie di dipinti su cui si dovrebbe scrivere un libro. Qui alla Scuola la meraviglia non è minore, ma oggi sono tornato in questo spazio più piccolo, intimo, per vedere un quadro in particolare: la visione del più grande santo tra gli scrittori e del più grande scrittore tra i santi, Agostino d'Ippona. Forse è perché il quadro raffigura la stanza di uno scrittore in cui vorrei stabilirmi immediatamente. Certo, della mitra sull'altare, del pastorale e della statua di Cristo con croce e stendardo non potrei appropriarmi, ma quella luce perfetta, i libri aperti, la partitura, la conchiglia (si direbbe una Cypræa tigris ), le splendide cartelle rilegate appoggiate al muro di sinistra, che forse custodiscono dei manoscritti, il leggio, la misteriosa lettera lasciata lì per terra in mezzo alla stanza e il cagnolino pelosetto, con le zampine tese in avanti, il naso dritto in aria e gli occhi brillanti come nere ciliegie... no, se uno non riesce a scrivere in un posto come questo può fare a meno di provarci da qualsiasi altra parte. Il santo è colto nel momento più segreto, quello dell'ispirazione. Tiene la penna sollevata in aria, la luce si riversa dall'esterno, lui sente formarsi le parole e già intuisce come le scriverà. Un attimo dopo, quando Carpaccio se n'è andato, intinge la penna nell'inchiostro di seppia e scrive la frase ora conservata in tutte le biblioteche del mondo in un suo libro.

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Pagina 36

Ma non siamo ancora a quel punto. Sono appena arrivato e nel mio viaggio ho già mescolato tre dei quattro elementi: ho attraversato l'aria, ho camminato sulla terra verso l'acqua scintillante di luce e ora sono qua davanti, su un pontile in attesa di un taxi. Del quarto elemento, il fuoco, non oso dire niente, anche se la luce del sole fiammeggia sulle onde. In fin dei conti l'arte della descrizione ha al giorno d'oggi dei limiti, limiti dovuti alla pazienza del nuovo lettore. Prima di partire mi sono comprato un libro di Hippolyte Taine del 1858, e i brani che ho segnato parlano tutti dello scintillio sulle onde, lezione di umiltà anche questa, perché nella sua descrizione l'acqua scintilla davvero. Mentre me ne sto qui mi rendo conto di quant'è difficile fare ciò che l'Ottocento faceva senza alcun imbarazzo: descrivere nei particolari più minuti le nostre impressioni di quel che c'è da vedere.

[...]

Non mi fraintendete, io a Venezia sono felice, ma questa felicità ha un retrogusto, forse per via dell'ammasso di passato, della sovrabbondanza di bellezza, forse per l'eccesso di felicità, per la tensione in un labirinto in cui può capitarti più volte al giorno di trovarti all'improvviso in un cortile chiuso, davanti a un muro di mattoni e a un canale senza ponti, e quel che doveva aprirsi, inaspettatamente, non si apre e sei costretto a voltarti e tornare al punto di partenza. Per un momento la città ti ha catturato, per un attimo sei stato la mosca nella tela, il prigioniero di Borges, ti ha trattenuto nella rete di mille chiese e palazzi, ti ha rinchiuso tra vicoli bui e ora, di colpo, tutto è finito, sei sotto il sole, sul molo, vedi le navi muoversi in ogni direzione in tutta quella luce e, dietro di esse, la miniatura di Murano, scintillante nel caldo di settembre. Più vicina, dall'altra parte dell'acqua, c'è l'isola dei morti, San Michele, a cui fanno da guardiani gli alti cipressi, ma non ti mette tristezza, perché sai che Brodskij, Stravinskij e Diaghilev canticchiano canzoni russe intorno alla tomba di Pound, fino alla fine dei tempi.

[...]

La testa è piena, non ce la fa a compiere il salto tra le epoche e poco più tardi mi ritrovo seduto nella penombra di un piccolo, bellissimo caffè e sento il più bel saluto che mi sia capitato di ascoltare da anni. C'è poca gente nel locale, due uomini anziani con la faccia da marinaio, una coppia di giovani sposi innamorati, l'uomo dietro il bancone che chiacchiera con un amico e che mi ha appena portato un grande bicchiere di vino quasi viola e una scodella di olive nere. Evidentemente sono l'unico straniero e me ne sto lì a riflettere su tutte le forme assunte dall'istituzione ecclesiastica in duemila anni e su cosa accadrà in futuro quando entra un uomo pieno di allegria e, senza guardare nessuno in particolare, grida con un sorriso smagliante: «Buona sera, quasi a tutti!» Insieme a me ci sono sedute sette persone nel piccolo spazio buio tra i grandi barili di vino. Quasi a tutti. Chi è che non vuole salutare? Non che io abbia complessi, ma ha subito riconosciuto in me un turista? Nel centro di Amsterdam anche a me danno spesso fastidio tutti i turisti che ti stanno tra i piedi, e a Venezia deve essere cento volte peggio. Buona sera, quasi a tutti! Una volta devo provare a dirlo anch'io nel mio caffè, nel quartiere Jordaan.

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Pagina 97

Gente d'acqua


Sulla forma di Venezia - il «ginocchio fratturato» di Valeria Luiselli o il «gamberetto spaccato» che un altro poeta ha visto nella celebre pianta prospettica di Jacopo de' Barbari, conservata al museo Correr - si può discutere a lungo, ma ora che sono davanti a un'enorme carta della Laguna, la forma della città colpisce soprattutto per la sua piccolezza. Certo, la carta è grande e il suo oggetto non è quel grumo che chiamiamo Venezia, ma la Laguna che ha protetto la città attraverso i secoli e che ora a volte la minaccia. Per un migliaio d'anni nessuno ha potuto attaccare Venezia: paludi, bassifondi, passaggi sconosciuti, banchi di sabbia, tutto cospirava con lei per renderla inavvicinabile, e quanto più si osserva la carta, tanto più appare strana la città che sappiamo circondarci, con tutte le sue chiese e i suoi palazzi. Santo Dio, com'è possibile che in quell'area di fango e paludi sia sorto qualcosa di così compatto, una specie di pugno serrato nel nulla. Ginocchio, pugno, gamberetto, basta passeggiare per qualche ora e quei paragoni appaiono completamente assurdi, ma sulla carta resistono. Spazi bianchi, tratteggi azzurri, numeri che indicano i bassifondi, tutto segnala il pericolo per lo straniero che si spinge troppo avanti. Nei mesi scorsi ho letto la storia di Venezia nell'opera magistrale di John Julius Norwich, guerre, battaglie navali, la lenta colonizzazione dell'Adriatico, la lotta con le popolazioni costiere della Dalmazia, l'occupazione delle isole greche, le relazioni sempre mutevoli con Bisanzio, la partecipazione alle crociate, l'annientamento fisico della capitale dell'altro impero e poi la susseguente vendetta dell'Islam, una serie interminabile di conquiste e di sconfitte in cui, alla fin fine, l'esistenza della Laguna restò sempre l'arma segreta a disposizione di Venezia fino a quando una diversa forma di guerra annullò quella difesa e l'ultimo doge depose il suo strano copricapo con le parole «di questo non ho più bisogno».

Arte della marineria, ingegno nautico, eroismo e cantieri dell'Arsenale, dove si potevano costruire imbarcazioni sempre più innovative, basta una giornata al Museo Navale per rendersene conto. Mi sono aggirato per ore tra stendardi e polene, modelli di nave e rampini, ritratti di eroi del mare, bandiere e onorificenze del passato, osservando gli strani congegni e gli oggetti inventati dagli esseri umani per ammazzarsi a vicenda, ma anche ammirando le navi a forma di pesce e di uccello con cui i veneziani hanno dominato per secoli il mare che li circondava. Deve essersi trattato di un rapporto intimo, un uomo vestito in pompa magna su un'alta nave decorata e un'impetuosa sposa d'acqua: così, tutti gli anni, il doge si inoltrava nel mare sul suo Bucintoro per suggellare con una fede nuziale il loro legame. Una lontanissima eco di tutto questo la percepisco ancora oggi nel modo in cui maneggiano la cima il giovane o la giovane che a ogni fermata devono ormeggiare il vaporetto, perché anche questo è, letteralmente, un legame. Sono corde robuste, fibrose, color paglia, di notevole spessore, con cui loro formano un cappio che passano poi intorno a un punto di attracco, fanno un nodo e tirano il battello a riva, così che si possa scendere o salire. Sono gesti di routine, probabilmente non ci pensano nemmeno e a me sembra una specie di balletto, una serie di movimenti eleganti che tradiscono l'intimità con la cima e con il battello, e con l'acqua sempre in movimento con cui sono sposati tutti i veneziani. A volte, se resto a guardare a lungo, penso, o sogno, che sarei capace di farlo anch'io, ma dev'essere un frutto dell'immaginazione. Se il battello ondeggia forte, oppure se la distanza o il dislivello tra battello e molo sono consistenti, il passeggero che deve sbarcare o vuole salire a bordo prende parte anche lui al balletto nel momento in cui il braccio del marinaio gli viene in aiuto. Dondolio, movimento, oscillazione, una spruzzata di neve, acqua alta, pioggia che batte sul ponte, vento che carezza contropelo le onde, il passaggio di una nave troppo grande, il nervoso aggirarsi dei taxi d'acqua, gondole che richiedono rispetto nel loro incedere solenne, le chiatte cariche di immondizia, il grande traghetto per la terraferma che ha l'aspetto di un'alta nave vichinga, l'ingorgo di più imbarcazioni e il frenare del motore in prossimità degli attracchi, tutto quello che, a velocità molto diverse, accade contemporaneamente sull'acqua diviene così parte del grande balletto che va qui in scena giorno e notte da secoli, i tipi di nave sono cambiati, l'essenza è rimasta la stessa, l'interazione tra gli esseri umani e l'acqua, con le navi che sono prolungamenti di quegli esseri umani o viceversa. I veneziani sono cittadini ondeggianti, gente d'acqua, abitanti di una città liquida, anfibia.

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Pagina 117

Benché io sia nato all'Aia e per tutta la vita abbia passato buona parte dell'anno in viaggi all'estero, resto graniticamente uno di Amsterdam. È impossibile dimostrarlo, dipende dalla sicurezza con cui si entra in un bar sconosciuto come se fosse casa propria. Anche se si tratta di uno di quei bar tipici di Amsterdam che sembrano salotti, la lingua fa da lasciapassare, e il paradosso è che non vale per uno che viene da Tilburg. Hai abitato in una città per più di cinquant'anni, lì c'è il tuo letto, ci sono la tua casa e i tuoi libri, e anche se tu non ci sei, non sei un forestiero. Quello che acutamente vede Brodskij è che, per quanto di frequente sia venuto a Venezia, è sempre stato un viaggiatore di passaggio, un ospite temporaneo che non è mai diventato parte della storia, mentre - e questo è il punto -, la città adriatica è diventata parte inalienabile della sua vita. Una volta ho scritto un libro intitolato Voorbije Passages (Passaggi d'un tempo), un libro sul viaggio come forma di vita. Sei rimasto sulla riva della Laguna, il movimento sempre mutevole dell'acqua ti è penetrato nell'anima, non te ne libererai mai più, mentre la città e l'acqua andranno avanti senza di te, la tua ombra è svanita tra le piazze, i ponti, le chiese e i palazzi, sono stati loro a scrivere le parole che credevi di avere scritto tu, e invece non eri che la fugace statua su un ponte o su una gondola, parte provvisoria di una città che da più di mille anni finge che il tempo non esista. Ora che anche Amsterdam è invasa da orde di turisti, capisco ancora meglio cosa pensano i veneziani: i turisti, soprattutto se disposti in fila dietro una bandiera, sono una sciagura che va sopportata, come le orribili grandi navi che si insinuano tra la Giudecca e Dorsoduro per condurli a godersi quell'unico giorno divino in cui potranno fotografare ininterrottamente tutto quello che non potranno vedere mai più. Sempre, tra il loro sguardo e la città, ci sarà un telefono o un apparecchio che mostrerà il loro volto e, dietro, la città che avevano tanto desiderato vedere.

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Pagina 164

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Pagina 219

È tutta colpa del pilone caduto sul ponte. I giorni liberi che mi sono regalato mi conducono in luoghi dove non sono mai stato e che mi suscitano strani pensieri. Con la testa ancora ingombra delle statue dei Giardini pubblici ho passeggiato per mezza città, senza starci molto a pensare mi sono ritrovato al Museo di storia naturale, al Fontego dei turchi, e ora osservo un enorme gorilla appeso con le braccia spalancate alla parete di un vago color rosa. Il gorilla è furibondo, le fauci mostrano tutti i denti, al petto nudo è attaccata una targhetta di rame con la scritta GORILLA, i piedi e le mani di nero cuoio sono simili; alla sua sinistra c'è il carapace di una tartaruga gigante, cosa ci faccio io qui?

Sono stato tante volte in questa città traboccante di musei con quadri e opere d'arte realizzate dagli esseri umani e ora, all'improvviso, mi ritrovo qui, in questo museo pieno di cose non fabbricate da mano umana, tra scheletri di animali antidiluviani, tavole raffiguranti uccelli che sembrano potersi mettere a cantare da un momento all'altro, il fossile di un pesce del cenozoico che pare un'orata presa stamattina al mercato e che potrei stufare stasera nel vino bianco.

Sbagliato, il pesce in effetti viene dalla zona di Verona, dove ora il mare non c'è, ma c'era sessantasei milioni di anni fa, quando io e Verona ancora non esistevamo, ma questo pesce sì. E così sarà comunque una mattinata meditativa. In questa città fatta di tante epoche ci sta bene anche questa, oggi niente Tintoretto o Carpaccio, oggi in questo magnifico museo sarò sbattuto avanti e indietro tra ere e specie estinte, esploratori veneziani e nobili cacciatori che hanno riportato le loro prede alla città sulla Laguna. Dei veneziani erano di nuovo partiti alla scoperta del mondo, il loro bottino è esposto qui e io mi trovo davanti a una teca che contiene due mummie di coccodrillo completamente laccate di nero insieme alla lucida mummia di una donna, anch'essa laccata di nero. È la sala dedicata all'esploratore veneziano Giovanni Miani. Nel suo ritratto ottocentesco mi guarda con aria un po' malinconica, l'imponente figura è avvolta in abiti probabilmente arabi. Tra il 1859 e il 1861 era andato in cerca delle fonti del Nilo, ma non le aveva trovate, ci sarebbero riusciti degli inglesi un anno dopo. In compenso aveva riportato litografie, appunti, disegni, diari scritti a mano in cui parlava delle tribù che aveva incontrato, delle cose che aveva visto: una miniera d'oro per gli etnologi. Armi, strumenti musicali, attrezzi agricoli, tutto conservato per noi in ampie, chiare vetrine dietro le mummie dei coccodrilli e l'aristocratico cranio laccato di nero della donna stesa lì accanto, secondo Miani poteva essere una sacerdotessa come quelle descritte da Erodoto: donne che avevano il compito di nutrire i coccodrilli sacri, e se i coccodrilli morivano venivano immediatamente uccise, mummificate e sepolte insieme alle loro bestie. Quando la trovò, il volto era coperto da una maschera d'oro. I coccodrilli accanto a lei puntano nella direzione opposta, come se volessero oltrepassarla a nuoto, diretti verso un inimmaginabile futuro. Provo a figurarmi la donna viva, il suono di una voce che parla una lingua dimenticata, mai più udita, ma la lucentezza d'onice della pelle di quelle mani e di quei piedi affusolati me lo impedisce, troppo tempo è passato tra lei e me.

Ancora più strana è la particolarissima sala dei trofei di caccia del conte de Reali. Non è l'ambiente adatto al partito animalista, ma l'allestimento è perfetto. In un certo senso la morte è assente, anche se si possono vedere solo animali morti. I colli interminabili di due giraffe si slanciano al di sopra delle loro cornici addossate al muro; scimmie, zebre, teste di cervo con le immense corna, serpenti impagliati, ritti in piedi con la lingua biforcuta rivolta minacciosamente contro di me, pelli di leone e di tigre per terra e alla parete, zanne d'avorio, il lungo collo di uno struzzo di fronte al gorilla, zampe mozze d'elefante a far da tavolini, un panorama assurdo ed esilarante che però, grazie alla splendida simmetria, sembra trasformarsi in una specie di omaggio alla folle varietà che la natura ha escogitato per se stessa, una camera delle meraviglie dell'evoluzione. In un angolo è appeso il ritratto a olio del conte che ha raccolto, e probabilmente anche ucciso, tutto questo: un signore già un po' calvo, in cravatta, sotto uno spesso strato di colore, con uno sguardo penetrante che sembra ancora prendere la mira; i baffi orizzontali, sporgenti ben oltre le guance, lo fanno assomigliare a una delle sue strane vittime. Alla sua morte, la famiglia ha fatto dono di questo tesoro alla città. Passo accanto allo scheletro dell' Ouranosaurus nigeriensis, ancora terrificante con i suoi tre metri di altezza e sette di lunghezza, e mi reimmergo nel pomeriggio veneziano; vedo sulla banchina, vicino all'acqua, un grosso gabbiano che con il suo becco violento fa a pezzi quel che resta di un piccione prima di gettarlo in acqua; rientrando a casa vedo il mio cormorano immergersi nell'acqua grigia e, dopo un po', ritornare in superficie molto più in là. Tra quanti milioni di anni potrà entrare in un museo?

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Pagina 240

Ultimo giorno


Un ultimo giorno, o qualcosa che gli assomiglia. Dove andrò a prendere commiato? Caffè del mattino con Il Gazzettino in un bar di campo Santa Margherita. Per l'ultima volta mi camuffo da veneziano, cerco di ordinare qualcosa senza accento, voglio restare nascosto, mimetismo, me ne sto seduto alla debole luce del sole accanto alla vetrina, un uomo con il giornale, guardo la bancarella del pesce dove oggi non comprerò niente. Quando tornerò? Dalla mia prima visita, nel 1964, ho viaggiato cinquant'anni per il mondo, ma sono sempre tornato, una strana forma di nostalgia. Eppure non ho mai deciso di venire ad abitare qui, forse perché per tutta la vita ho avuto la sensazione di non aver mai abitato davvero da nessuna parte. Ma allora cos'è che ti fa amare questo posto più di tanti altri? Provo a riflettere e arrivo solo a «singolare», ma nel senso letterale della parola: singolo, unico. Questa città non la si può paragonare a nessun'altra per il suo carattere, la sua storia, la sua gente, i suoi edifici, non però edifici, fatti, caratteri presi uno a uno, ma nella loro totalità, nell'accumularsi di cose molto grandi e cose molto piccole. È la città in quanto tale, sono le persone che l'hanno costruita, questa assurda combinazione di potenza, denaro, genio e grande arte. Prima hanno conquistato la loro città sulla Laguna, poi si sono spinti sulle grandi distese marine per fare sempre ritorno alla città che era la loro casa, sempre protetta dalla saggia, vasta, a volte immobile, altre volte pericolosa acqua che la circonda tutta e che in questo secolo, con l'innalzamento della superficie del mare, si è trasformata in una minaccia come mai in passato, e mentre penso tutto questo capisco che voglio trascorrere questa giornata sull'acqua, ma non a Murano o a Torcello, voglio andare su un'isola che ancora non conosco, Sant'Erasmo, l'orto di Venezia.

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