Autore Paolo Nori
Titolo Repertorio dei matti della città di Milano
EdizioneMarcos y Marcos, Milano, 2015, Ultra 18 , pag. 176, cop.fle., dim. 10,7x16,5x1 cm , Isbn 978-88-7168-722-3
CuratorePaolo Nori
LettoreGiorgio Crepe, 2015
Classe citta': Milano , psichiatria












 

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Pagina 9

I repertori dei matti delle città
di Bologna, Milano, Torino,
Genova, Roma, Cagliari e Napoli, forse





Qualche mese fa ero a Genova a fare un seminario di letteratura, e a me a Genova, non so perché, la gente, mi sembrano tutti un po' squinternati, e ai ragazzi che facevano il seminario, quando ho letto dei pezzi dal Repertorio dei pazzi della città di Palermo, di Roberto Alajmo, ho chiesto ai ragazzi che facevano il seminario "Ma perché non fate il Repertorio dei pazzi della città di Genova?"

Il giorno dopo son tornato a Bologna, a guardarmi intorno a Bologna ho pensato che anche a Bologna, c'era pieno di squinternati, e mi sono chiesto "Ma perché non facciamo il Repertorio dei pazzi della città di Bologna?"

Dopo quando sono andato a Milano, da quelli di Marcos y Marcos, intanto che mi guardavo intorno pensavo che anche a Milano, c'era pieno di squinternati, e che si poteva fare anche il Repertorio dei matti della città di Milano e ho proposto la cosa alla Marcos y Marcos, e gli ho citato un libro che so che a loro piace molto, Le opere complete di Learco Pignagnoli, un libro di Daniele Benati, in particolare l'opera numero 13, quella che fa così:

    Opera numero 13.

    Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana.
    E poi anche te sei un po' strano.



E ci è venuto in mente che tutte le città potrebbero avere il loro repertorio dei matti e abbiamo trovato un altro libro, sempre a cura di Roberto Alajmo, che si chiama Repertorio dei pazzi d'Italia dove nell'introduzione Alajmo dice che "Forse ogni città dovrebbe possedere un repertorio dei pazzi, così come di ogni città esistono le guide dei ristoranti e degli alberghi".

E allora abbiamo chiesto a Alajmo l'autorizzazione, e Alajmo ci ha dato l'autorizzazione, e abbiamo cominciato dei seminari e abbiamo fatto il Repertorio dei matti della città di Bologna, di Milano, di Torino e di Roma e faremo il Repertorio dei matti della città di Genova, di Cagliari e di Napoli, forse, che daranno vita, questi seminari, ognuno a un libretto, come una guida dei ristoranti o degli alberghi, che saranno però anche dei piccoli libretti di storia, una storia laterale e insignificante ma che potrebbe essere anche molto bella, ci sembra. E i partecipanti a questi seminari ci sembra che si debbano tutti un po' trasformare in cronisti medievali ma della contemporaneità.

Paolo Nori

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Pagina 16

Uno è quello che da anni scrive "Lucifero culo" e "Baal culo" sui manifesti pubblicitari e sui muri di Milano. Quando gli hanno chiesto se sapeva chi fosse a lasciare quei messaggi, ha risposto "Sarà un matto".




Uno era un ragioniere in pensione che aveva deciso di ammazzare il cane perché non abbaiava più al postino.




Uno abitava a Lambrate e considerava il suo quartiere il più bello del mondo. La gelateria più buona? A Lambrate. La birra? Solo al Birrificio Lambrate. La pasticceria siciliana migliore? Quella di Lambrate. Quando gli capitava di passare delle serate in un quartiere diverso, magari in Bovisa, si lamentava dell'enorme distanza da casa. Un tempo era stato fidanzato con una ragazza che prima viveva vicino a lui e poi si era trasferita al gallaratese, ma la storia finì presto perché lui non sopportava le relazioni a distanza.




Uno si chiamava C.T. Era un omino piccolo, con un cappotto e un cappello nero. Negli anni Settanta si vedeva fra via Ponte Vetero e il Castello Sforzesco. Dentro un megafono ripeteva in continuazione "Il clero ti uccide con l'onda" mentre spingeva a piedi una bicicletta a tre ruote, con varie cassette davanti e dietro. A volte a uccidere con l'onda erano i russi, gli americani, il Vaticano. Inveiva senza belligeranza. Ripeteva le sue ossessioni come delle nenie confortevoli per chi le ascoltava. Nelle cassette teneva tre cagnolini oltre a pennelli e pittura. I cani, dicono che li avesse chiamati Liberté, Égalité, Fraternité. Lasciava molti testi per strada, inconfondibili anche per la forma: uno stampatello bianco, regolare e riquadrato, la firma C.T. in basso a destra. Si dice che avesse iniziato da marmista a Laveno.

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Uno si faceva chiamare Jimmy, ma aveva un altro nome tunisino più difficile da pronunciare. Era venuto in Italia da clandestino nel Novanta, perché voleva a tutti i costi vedere una partita dei Mondiali, e poi era rimasto bloccato. A quel punto s'era fatto tutto lo stivale a risalire, dalla Sicilia a Milano, dormendo sui treni e lavorando come bracciante dove capitava. Per qualche anno s'era spaccato la schiena raccogliendo pomodori nel foggiano. Di giorno rimaneva lì, chino sui filari dall'alba al tramonto, che ancora oggi se lo fai arrabbiare lo sentirai masticare un chitemmuort, e tutte le sere saliva sul diretto per Napoli, dove s'era fatto amico un controllore che lo lasciava in pace. Certi giorni si sentiva un disperato, certi altri un uomo libero, talmente libero che nessuno lo rivoleva indietro. Alla famiglia diceva che aveva fatto fortuna, che aveva moglie, figli e una villa con piscina, e che era sempre troppo occupato per poter tornare al paese, anche solo per una vacanza. Adesso vende tè e spezie in una bottega di via Padova, e ogni volta che entra un nuovo cliente ripete con orgoglio che lui non è certo emigrato per bisogno, ma per le notti magiche di Italia '90.

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Pagina 45

Uno era Enzo. Da parte di padre, era per metà pugliese e per metà macedone. Aveva studiato medicina all'Università di Milano e si era specializzato in chirurgia generale. Era stato medico volontario in Sudafrica. Contemporaneamente portava avanti gli studi di pianoforte al Conservatorio e frequentava gli ambienti del cabaret. Negli anni Cinquanta iniziava la sua carriera come musicista e intrattenitore, fondava con il suo storico amico Giorgio il duo de I due corsari con il quale mescolavano il tono umoristico al sound ai tempi emergente del rock 'n' roll. Dopo pochi anni scioglieva il duo e iniziava la carriera solista. Nel corso del tempo era riuscito ad affermarsi come paroliere, cantautore, intrattenitore e cabarettista. Però non abbandonava mai la professione di medico. Le due arti si intrecciavano ed era difficile anche per lui dichiarare la sua professione. In un'intervista diceva "Una volta sulla carta d'identità avevo fatto mettere 'Fantasista', poi però ridevano... 'È pazzo', allora adesso ho fatto scrivere 'Medico', perché se metti 'Artista' o 'Giocoliere', la polizia e i carabinieri quando ti fermano ti fanno subito scendere". Il bello della sua vita era il saper mescolare le due arti, come quando affermò "La medicina moderna ha fatto veramente enormi progressi: pensate a quante nuove malattie ha saputo inventare".

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Pagina 48

Dipingeva monocromi bianchi. Gonfiava palloncini con il suo respiro, cagava nei barattoli di latta e immaginava una tela lunghissima che per farcela stare dentro una cornice la piegava e con questo stratagemma voleva parlarci dello spazio incommensurabile e della dimensione indefinita del cosmo. Frequentava il bar Jamaica a due passi dall'Accademia di Brera, le donne, i fotografi emergenti di Milano, Ugo Mulas, gli artisti tedeschi del Gruppo Zero.

I galleristi impazzivano per lui. Firmò con un pennarello nero i corpi nudi di giovani modelle trasformandoli in sculture viventi. Fondò con il suo amico Enrico una rivista dal titolo vagamente astronomico, qualcosa che aveva a che fare con la distanza angolare di un punto, calcolato in senso antiorario partendo dal polo sud celeste. L'ultimo numero della rivista, il secondo, uscì nel gennaio del 1960.

Diventò amico di un altro tizio che di nome faceva Lucio. Questo italo-argentino invece di piegarle, le tele, le tagliava con un rasoio o le bucava con un punteruolo. Insieme guardavano oltre la superficie immacolata dei quadri perché dicevano che dietro, se guardavi bene, potevi vedere l'infinito.

Morì nemmeno trentenne in una notte d'inverno del 1963.

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Ce n'era uno che una volta aveva comperato cinque capannoni industriali e dentro ci aveva costruito una Bat-casa con una piscina con il ponte levatoio, con una Bat-botola automatizzata che si apriva su un bunker sotterraneo, con un poligono di tiro insonorizzato e un ring da boxe, probabilmente per allenarsi a combattere i nemici della sua città, Milano.

Poi però si dimenticò di pagare un fornitore e quando gli ufficiali giudiziari entrarono nella Bat-casa da quattrocentoquarantasette metri quadri e si resero conto che era tutto abusivo, la sua mamma disse che comunque avrebbe dato tutto in beneficenza.

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Pagina 56

Era soprannominato come la marca di sigarette più esotica prodotta dalla Reynolds Tobacco Company. Quando guidava, una sigaretta gli pendeva immancabilmente dalle labbra.

La faccia te la ricordavi per quel paio di baffi asimmetrici disegnati male e due occhi chiari da potenziale seduttore. Indossava per sei mesi l'anno un cappotto cammello sbottonato come Alain Delon in un film del '72, nel quale l'attore francese moriva in un incidente stradale lasciando gli spettatori nel dubbio.

Ogni giorno, con la sua Vespa 50, percorreva lentamente viale Monza fino a raggiungere piazzale Loreto, il motore a giri bassi, i piedi appoggiati a papera sulla pedana, sussurrando: "Figafigafigafiga". Perlustrava il marciapiede a destra della carreggiata. "Figafigafigafiga" e poi quello a sinistra "Figafigafigafiga" fino a inquadrare, la sua preda: femmina, genericamente graziosa, senza limite di età. Quando le arrivava vicino lasciava cadere la sigaretta dalle labbra e sfoderando un sorriso malmesso le domandava: "Figafigafigafiga ma... ma tu ciuli?"

Un giorno una ragazza invece di scappare, abbassare gli occhi o ignorarlo gli rispose: "Sì", e allora lui rimase lì interdetto, le mani strette al manubrio, le labbra socchiuse e il cervello in palla. Riuscì a malapena a girare la Vespa in direzione di Sesto San Giovanni, dare giù di gas, attraversare la carreggiata, sbandare pericolosamente rischiando di finire contro un camion che stava sopraggiungendo dalla parte opposta, proprio come Alain Delon nell'ultima scena del film: La prima notte di quiete.

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Pagina 65

Uno la domenica sera ogni tanto passava per la strada, suonava ai citofoni e diceva "Ciao, sono un comunista! Sei felice?"

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Pagina 90

Il poeta del parco aveva una faccia da personaggio secondario di Grand Hotel. Era uno di quegli uomini noiosamente rassicuranti dei quali la protagonista femminile della storia finiva per invaghirsi intorno a pagina 25. Un uomo da un bacio solo, sguardi interdetti e affermazioni tipo: "Torna da lui, Sento che lo ami ancora..."

Poi il fotoromanzo continuava e lui rimaneva nelle retrovie, sfuocato, sullo sfondo di fotografie in bianco e nero sempre più piccole, apatico ma consapevole del proprio destino, fino a sparire per sempre dopo pagina 40.

Ordinario nei lineamenti, indossava abiti da ufficio ben stirati, una giacca a due bottoni demodé, una camicia azzurra button-up, i pantaloni grigi con la riga.

Viveva in un piccolo appartamento in zona Lambrate, era nato e cresciuto in una città del nord-est affacciata sul mare e dominata dal vento.

Aveva abbandonato una solida carriera da attuario, le cene di rappresentanza, i meeting del lunedì mattina costellati di eccessivi inglesismi. Era passato, senza rimpianti, dalla ventiquattrore in pelle, un regalo del padre dopo la laurea in statistica, a una tracolla di tela grezza: un tratto distintivo di alcuni scrittori con citazioni consolatorie del tipo: "I Love Books", "La scrittura non è morta", "Mantova Festivaletteratura decima edizione", stampate su canapa eco-green color pastello, probabilmente per non pregiudicare la stima dei lettori più sensibili alle sorti del mondo.

Aveva scelto la poesia in lingua italiana per sbarcare il lunario e Parco Sempione come libreria a cielo aperto per la promozione capillare dei suoi libri fatti a mano.

Sulla copertina azzurra del libro c'era appiccicata una girandola, di quelle che si comprano alle fiere di quartiere e poi finiscono stinte e immobili nel vaso dei gerani in balcone.

L'ultima poesia del suo libro diceva:

    Ormai tutti sono vestiti,
    di nero
    come gli arbitri,
    forse perché non han voglia
    di mettersi
    in gioco.

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Pagina 97

Uno invece era un economista liberale che voleva fermare il declino. Diffondeva le sue idee dalle colonne dei giornali e se ne andava in giro col bastone da passeggio, indossando gessati dai colori sgargianti, ai quali abbinava sempre una cravatta altrettanto vistosa o un papillon. I presentatori dei talk-show lo invitavano perché con la sua eleganza da dandy eccentrico dava una nota di colore a studi televisivi dove predominavano di norma il grigio e il blu di ordinanza dei politici e degli altri giornalisti.

Diceva di aver partecipato da bambino allo Zecchino d'Oro e di avere conseguito in seguito due lauree - una in economia e l'altra in giurisprudenza - e anche un master in finanza presso una prestigiosa università di Chicago. Un giorno divenne leader di una nuova forza politica e si candidò alla guida del Paese.

Il suo progetto andò in fumo quando un suo compagno di partito si dimise dopo aver scoperto che lui non aveva mai fatto nessun master a Chicago. Poco dopo venne fuori che si era inventato anche le due lauree in economia e giurisprudenza. A quel punto la sua carriera politica poteva dirsi già conclusa, ma il colpo di grazia glielo diede il Mago Zurlì, che, dopo una lunga ricerca di archivio, confermò che in nessuna delle cinquantasette edizioni dello Zecchino d'Oro vi era stato un concorrente che rispondeva alle sue generalità.

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Pagina 100

Uno era un uomo che in un giorno di pioggia entrò in un bar lasciando per terra l'ombrello bagnato e alla ragazza che glielo raccolse e lo appoggiò al bancone disse: "Ué, fatti i cazzi tuoi!"

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Pagina 101

Ce n'era uno che veniva dall'Albania, era ingegnere ma aveva trovato lavoro solo come muratore. L'impresa per cui lavorava ad un certo punto fallì e lui rimase senza lavoro. Dormiva al dormitorio pubblico e di giorno si aggirava nei dintorni della Bocconi. Aveva la passione per i numeri e contava tutto, i passi che faceva, le persone che incontrava, le auto, gli alberi. Poi si fermava, si sedeva su una panchina e in un quaderno scriveva complicate formule. Ogni tanto tendeva dei fili tra le cose. Tra un albero e un auto, tra una ringhiera e un palazzo, tra due lampioni. Diceva che quegli oggetti erano collegati. Gli studenti gli portavano il cibo della mensa dell'università. Lui ringraziava ed era contento perché in questo modo diceva che i fili arrivavano sino a lui.

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Pagina 112

Uno era un europarlamentare leghista che si era fatto fotografare sulla copertina di un noto settimanale, sdraiato su un letto a torso nudo e con una cravatta verde.

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Pagina 117

Una era psichiatra in un ospedale psichiatrico e passava le notti a slegare i pazienti, poi si metteva a chiacchierare con loro per tranquillizzarli e farli addormentare. I suoi colleghi però non la sopportavano e continuavano a legare i pazienti per farli stare buoni. Lei allora si era licenziata.




C'è uno che da decenni va in giro per la città e scrive dappertutto insulti al diavolo. Sulle panchine, sui corrimano o sui manifesti pubblicitari scrive per esempio: "Satana Culo", o "Baal Culo", o altre volte: "Baal cesso", "Baal fogna".

Quando cambia stile, scrive offese diverse, più sottili e criptiche, come: "Satana digiunatore", o "Baal invidioso infame".

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Pagina 127

Tre erano architetti. A un certo punto per aiutare la città a respirare avevano incastrato novecento alberi sui balconi di due palazzi nuovi.

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Pagina 128

Uno era ingegnere, aveva lavorato tutta la vita, ma quando morì la moglie andò a vivere per strada.

Stava sulle panchine di un minuscolo giardinetto, dalle parti di Brenta e passava le giornate a bere e a leggere.

Tutti gli abitanti della zona gli portavano i libri. I bambini gli portavano i libri per bambini, le signore i libri d'amore, un architetto, che stava seguendo i lavori di ristrutturazione di un palazzo lì vicino, gli portava libri di architettura. Chi finiva di leggere un romanzo passava e glielo lasciava. Lui leggeva tutto.

Era alto, con la barba bianca e gli occhi azzurri e aveva una mano finta. Non gli si poteva stare troppo vicino perché l'alcol che trasudava si sentiva a due metri di distanza. Indisturbato, trascorreva tutto il suo tempo immerso nella lettura.




Uno gestiva il bagno pubblico della fermata Lima della linea 1 e aveva attaccato al muro alcuni cartelli:

UOMO: ORINATOIO 0,30 € - CABINA 0,50 €

DONNA: CABINA 0,50 €

PAGAMENTO ANTICIPATO

BUON NATALE

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Pagina 130

Uno era talmente matto da mettere davanti al palazzo simbolo dell'economia nazionale un enorme dito medio alzato.

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Pagina 131

Uno era stato il più pericoloso criminale di Milano. Negli anni Settanta terrorizzava la città con rapine a mano armata, sequestri di persona e omicidi. Aveva messo in piedi una banda, la chiamavano la banda della Comasina. Piaceva alle donne perché era bello e aveva un debole per il lusso. Lo avevano condannato a quattro ergastoli e duecentonovantacinque anni.

Decenni dopo, lo avevano beccato in un negozio in viale Umbria a rubare un paio di slip Versace. "Non indosso roba da tre curo, io" aveva dichiarato in aula al giudice. Gli avevano dato anche dieci mesi per taccheggio di mutande.

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Pagina 134

Uno era un grande scrittore che non aveva ancora scritto niente.

In compenso aveva i sintomi dell'asma cronica come Proust, dell'ulcera perforata come Joyce, del dolore agli occhi come Leopardi; ogni tanto soffriva di dissenteria come Wilde e perdeva la parola, proprio come succedeva a Baudelaire. Era convinto che prima o poi si sarebbe ammalato di tubercolosi come Kafka e che sarebbe morto giovane e disperato.

Oppure si sarebbe suicidato come la Woolf, buttandosi una notte nel Naviglio, solo che aveva paura delle salamandre.

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Pagina 144

Uno insegnava filosofia al liceo Manzoni, si chiamava Princi e andava sempre a scuola con una patata al guinzaglio che teneva accanto alla scrivania per tutte le ore di lezione. Era fissato con i terroristi e le Brigate Rosse e a chi gli chiedeva cosa ci facesse con la patata al guinzaglio rispondeva "Non è una patata, è una bomba".




Uno faceva il musicista. Era talmente innamorato del suo violoncello che dormiva in mezzo al letto tenendo da un lato la sua compagna e dall'altro lo strumento e abbracciava alternativamente prima uno e poi l'altra.

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Pagina 155

Uno era lo scrittore Giorgio Manganelli, che equiparava la letteratura alla menzogna. Da giovane aveva amato perdutamente la poetessa Alda Merini, la quale gli aveva ispirato una poesia in cui lui la paragonava "al tetano che inchioda le mascelle". Aveva scritto poi molti libri di prosa, tutti inclassificabili. Il primo di questi, un trattato sulla natura 'discenditiva' dell'uomo, era pieno di sostantivi inquietanti, come 'abomaso' o 'litopedio', e di aggettivi vertiginosi, come 'gotisferico' e 'catalievitante'; un altro, il più famoso, conteneva invece una raccolta di cento piccoli romanzi che duravano il tempo di una pagina e che lui suggeriva di leggere "allo zero assoluto o in smarrito abitacolo spaziale".

Negli anni Settanta intervistò per il secondo canale radio della RAI il faraone Tutankhamon, il Califfo di Baghdad Hārūn al Rashīd e altri personaggi da tempo passati a miglior vita.

Aveva girato il pianeta in lungo e in largo e tratto, dai suoi lunghi viaggi, leggendari reportage in cui si dilungava su questioni impalpabili, come la reale esistenza di Ascoli Piceno o il motivo per cui Piacenza non era Singapore.

Non dava molta importanza al suo lavoro di scrittore, ma ammetteva di avere un debole per i suoi corsivi pubblicati dal «Corriere della Sera»; ogni tanto, diceva, gli capitava di rileggerli e di ridere da solo.

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