Copertina
Autore Sergej Nosov
Titolo Il volo dei corvi
EdizioneVoland, Roma, 2008, sírin 41 , pag. 266, cop.fle., dim. 14,5x20,5x1,5 cm , Isbn 978-88-6243-001-2
OriginaleGraci uleteli [2005]
TraduttoreLaura Pagliara
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa russa
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Pagina 8

CAPITOLO PRIMO



1

– Ora dieci minuti di Gestapo.

Prima di allontanarsi dalla finestra si soffiò il naso. Pioveva col sole. Il tetto dell'autobus, screziato di acqua e luce, mandava scintillii come se fosse una squama. Gli stradini continuavano a scavare, i passanti a passare. La pioggia abbondante non impediva i ruzzi di due cani bastardi dal pelo rosso: si accoppiavano in mezzo alla strada, ignorando le indolenti esortazioni del guardiano della scuola che fumava sotto la tettoia della farmacia omeopatica.

Boris Petrovic non era sadico, ma a volte gli capitava.

Il teorema di Viète.

Osservò la classe con un'espressione che non prometteva nulla di buono.

Tutti gli occhi si abbassarono. È la regola: non cercare lo sguardo dell'insegnante se non vuoi essere interrogato.

Bene, iniziamo.

– Frolov! – silenzio. – Due. Kupèenko! – mugolio. – Due. Kondratjuk! – mmiao-miagolio. – Due. Konev! – ba... ba... balbettio. – Due. Ivanova! – "Nell'equazione... di secondo grado... i cui elementi..." – sbagliato. Due.

Undici due. Sette tre. Un quattro.

Facendo stridere sgradevolmente il gesso sulla lavagna, Boris Petrovic scrisse le equazioni di secondo grado:

5x^2 + 2x – 7 = O

e

4x^2 + 6x + 15 = 0.

Boris Petrovic divideva la classe seguendo un criterio tutto suo. Al principio universalmente accettato di "gruppo A" e "gruppo B" sostituiva un vero e proprio principio sessuale: l'equazione di sinistra la risolvevano i ragazzi, quella di destra le ragazze. Neanche Boris Petrovic avrebbe saputo spiegare questo suo sessismo.

Bussarono alla porta. Era Anzela.

– Boris Petrovic, posso disturbarla un secondo?

Il sospiro di sollievo non fu udibile, ma lo percepì distintamente sulla schiena mentre dirigeva i suoi passi verso la porta. I ragazzi cominciarono a parlottare. Si metteranno sicuramente a copiare. E va bene. Amnistia.

Se Anela non è entrata in classe, si tratta di una faccenda riservata.

– C'è un messaggio telefonico per lei. Da parte di un suo parente.

– E chi sarebbe?

– Uno zio.

– Uno zio? Un mio zio?

Prese il foglio di carta dalle mani di Anzela, ancora sorpreso. Il testo era uscito dalla stampante.

"Caro Boris Petrovic', devi assolutamente venire da Scukin, nel suo ufficio (via Taskentskaja, l'indirizzo lo conosci), oggi stesso. Ti aspettiamo alle 18.00. È un incontro molto importante. Quando sarai qui, mi raccomando, non stupirti di nulla e, soprattutto, non parlare. Stammi bene. Tuo zio Tëpa."

Boris Petrovic si sentì un idiota.

Non si poteva dire che fosse un tipo noioso e non capisse gli scherzi (al contrario, quando le circostanze lo permettevano, Boris Petrovic incoraggiava con tolleranza i subordinati a rivolgersi a lui con tono moderatamente disinvolto: il direttore della scuola era un vero democratico). Ora, però, trafisse Anela con sguardo torvo: chissà se lei capisce lo spirito beffardo del messaggio in questione.

Difficile a dirsi.

Lo capisce eccome, altrimenti non si giustificherebbe:

– All'inizio ho pensato a uno scherzo. Voleva il numero del suo cellulare, ma gli ho detto che lo tiene sempre spento quando è in classe. Ha detto che era urgente. Mi ha chiesto di prendere nota del messaggio parola per parola.

Lei però il messaggio non l'aveva annotato a mano! L'aveva scritto al computer. Forse conservava ancora il file. E insieme a Varvara Dmitrievna ridacchiavano alle spalle di Boris Petrovic, c'era da giurarlo.

– Bene – disse Boris Petrovic. (Male.)

— Le devo ricordare l'appuntamento quando finisce la lezione?

– Non serve, grazie. (Lo so da me.)

Tornò in classe.

I ragazzi avevano trovato le radici: 1,2 e 1. Le ragazze non c'erano riuscite. Il discriminante ottenuto dalle ragazze era negativo. Protestarono tutte insieme.

Boris Petrovic respinse le proteste: — Anche l'assenza di radici è una soluzione.

La parte finale della lezione la dedicò a un altro argomento, e riguardo a zio Topa decise: "Non ci vado."

Durante l'intervallo andò nei bagni per scovare i fumatori imboscati, ma non sorprese nessuno. "Oppure ci vado?"

A scuola Boris Petrovic era l'unico del suo genere, cioè di sesso maschile, non aveva colleghi uomini. Come unico rappresentante del suo genere si comportava conseguentemente da uomo: si sentiva responsabile di tutto e, in primo luogo, della disciplina. Ecco perché aveva imposto alle colleghe del sesso debole un consiglio pedagogico ogni lunedì alle 15.30 (e quel giorno era proprio lunedì), una tradizione dimenticata di cui Boris Petrovic si prodigava di ripristinare l'organizzazione (ebdomadaria, una volta a settimana) in vista dell'approssimarsi della fine dell'anno scolastico.

Bisognava discutere delle innovazioni al programma didattico. Le insegnanti, inclini alla superficialità, accoglievano ogni innovazione con un'ironia offensiva nei confronti di chi elaborava le riforme. Neanche Boris Petrovic in cuor suo approvava i cambiamenti, ma ad alta voce invitava a "esaminarli e solo dopo magari a denigrarli". Fingeva di non capire che, in realtà, le insegnanti erano scontente perché lui le aveva obbligate al consiglio pedagogico del lunedì. Era in atto un sabotaggio. Invece di discutere le novità del programma, si misero a parlare delle novità in generale. Ognuna diceva la sua. Ol'ga Markovna aveva sentito alla radio di un uomo a cui avevano trovato un terzo cervello (oltre a quello nella testa e a quello nella colonna vertebrale) poco sviluppato e collocato nei tessuti dello stomaco. Margarita Ivanovna disse che il nipote, navigando in internet, ne aveva scoperta una bella sulla tenia marina: quando era affamata mangiava il novantacinque per cento di sé stessa. Tat'jana Romanovna, invece, aveva letto sul giornale che anche gli uomini hanno i loro giorni critici, a causa di scariche ormonali mensili. A questa notizia, le insegnanti si animarono. Aspettavano la smentita ufficiale da Boris Petrovic. Ma lui prese le distanze, laconico: "Non sono un biologo."

Oltre alla matematica, il direttore scolastico insegnava etnografia locale: nel caso specifico, la materia era chiamata "Storia di San Pietroburgo".

La storia di San Pietroburgo era l'hobby di Boris Petrovic. Se un giorno avesse lasciato la scuola, non avrebbe mai più pensato a tangenti e cotangenti, ma il mistero se ci fosse o no un sotterraneo nell'Accademia dei Cadetti della Nobiltà lo avrebbe sicuramente appassionato ancora.

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Pagina 94

— Boris Petrovic attraversò la strada.

Al centro del giardinetto-spiazzo, chiamato Vatruska, una cassa-custodia nascondeva agli occhi dei cittadini il busto di Lomonosov. Era in restauro per l'anniversario della città. L'iscrizione sul basso riportava i nomi dei finanziatori. Lomonosov veniva restaurato dallo stesso movimento politico che allo zoo, se la memoria non ingannava Boris Petrovic, provvedeva al sostentamento di una foca, o forse di una giraffa. Chissà se la foca-giraffa era ancora viva. E i piccioni, allora? A San Pietroburgo erano quasi scomparsi (rimpiazzati dalle cornacchie): sulla cassa-custodia ce n'erano addirittura tre. Nulla di strano, del resto anche prima su quel busto stava sempre appollaiato un piccione. La cosa strana invece è questa: perché i piccioni non si posano mai sulle sculture nuove?

Assorto in simili riflessioni, Boris Petrovic giunse in via Sadovaja. A quanto ricordava, non aveva mai visto tanti scavi nelle strade della città. Al posto della via c'è'un fossato, che a riempirlo d'acqua diventerebbe tale e quale al canale Griboedov. Con l'unica differenza che non ci sarebbero gli argini e il fiume lambirebbe i muri delle case. Be', meglio così, senza argini. Boris Petrovic immagina Venezia, con le case che spuntano dall'acqua. In piazza Sennaja stanno progettando qualcosa. Perché non costruire una piscina all'aperto? E chiamarla "Piscina dell'Anniversario"? Anzi, meglio, "Piscina Mosca".

Scendendo nei sotterranei della metro, Boris Petrovic pensava alla propria vita. Quanto c'era di artistico o di creativo in essa? Era davvero stato un artista? Se lo era stato, l'aveva dimenticato. O non se ne era reso conto. Ogni tanto si concede stravaganze da artista che lui stesso non è in grado di decifrare. Ci vorrebbe l'interpretazione della critica d'arte, sicuramente più competente. Basterebbe il viaggio in Germania come stravaganza! Oppure ecco, ad esempio, una volta ha sottratto alla moglie il basco in feltro con la coccarda per le manifestazioni (l'uniforme grigia proprio non gli piace!), l'ha messo in un sacco e gettato nell'immondizia, poi ha finto di non saperne nulla... Una spiegazione razionale è impossibile. Comunque, è stato inutile, lei ne ha avuto un altro.


In treno, ha una sorta di illuminazione.

Dal rettangolo in vetroresina, che un tempo conteneva la piantina della metropolitana, un piccolo manifesto si rivolge ai passeggeri e li esorta a compiere senza indugio il proprio dovere civico: ritirare il nuovo modello di passaporto (la campagna per la sostituzione dei passaporti è già conclusa). Sotto lo slogan, un ragazzo e una ragazza avanzano pieni di gioia e amore per la vita, con un sorriso aperto e abbagliante, quasi non si trattasse di una pubblicità sociale ma di un dentifricio. Entrambi reggono sopra la testa – ognuno il proprio – il duplicato di un fardello senza prezzo, il nuovo passaporto russo, con l'aquila, e sembrano pensare, secondo il canone: "Guardate e invidiatemi: sono un cittadino!..." Il giovane indossa una camicia bianca e pantaloni leggeri, la ragazza un top minuscolo sorretto da sottilissime spalline e una minigonna tanto mini da sembrare un copricostume. L'elegante ombelico scoperto, come esige la moda. Ogni volta che Boris Petrovic vede quel manifesto, gli viene da chiedersi: ecco, magari lui ora ripone il passaporto in tasca, ma lei? dove lo mette il passaporto? Lo dà in custodia al collega? Oppure se ne va così, disinvolta e felice, col passaporto russo in mano?

Boris Petrovic avrebbe sicuramente pensato la stessa cosa anche adesso, ma non fece in tempo: appena vide la bella ragazza, infatti, sentì una specie di botta, e si ricordò improvvisamente di un sogno. Non era sicuro di averlo sognato quella notte, forse era successo prima, non sapeva di preciso quando. Di sicuro gli era tornato in mente in quel momento.

Era in montagna, dunque, con ogni probabilità in Germania, del resto in quali altre montagne avrebbe potuto essere se non in Germania, dove era effettivamente stato nove anni prima? Lo stesso cielo, gli stessi spazi, anche se tutto diverso, molto diverso, e non molto tedesco... Nove anni prima in montagna c'era la neve, nel sogno, invece, era estate e faceva caldo, e c'era un'altra piccola differenza: al posto di Tëpin e Scukin, com'era stato nella realtà, al posto di quei due in montagna c'era una donna... la cosa più importante però era che non riusciva a rammentarne il nome e il volto, e anche ora ignorava se in sogno, mentre dormiva, conosceva quella donna, se distingueva il suo nome dagli altri nomi, il suo volto dagli altri volti... forse una tedesca, ma non era Katrin, era più giovane di Katrin... e poi, perché Katrin? cosa c'entra adesso Katrin? lui è un altro, non è Tëpin. Fosse Tëpin, allora lei sarebbe Katrin... no, assolutamente no, non è Katrin, nessuna Katrin... Con un misero avanzo di coscienza, senza trovarsi realmente su quella montagna, ma continuando a giacere con la testa sul cuscino e a sognare, si sforzava di capire, di interpretare quel sogno in cui era immerso con una penosa sensazione di inutilità, afflitto dalla spirale dell'intelletto: freud! quanto freud! un'invasione freudiana! E non riusciva a scorgere le gambe nude di lei, le sue ginocchia, ma comprendeva, sempre con i residui della sua coscienza non del tutto sopita, che le gambe di lei, come tutto l'insieme, perfino nel sogno erano meno reali di quel mostro che cresceva in lui, in Cibirëv, e che bramava di uscire fuori, pieno di gelosia, di passione, di rancore e disperato desiderio di fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Senza accento, nella lingua madre di lui (se ne ricordò solo ora), lei disse: "Ma vai al diavolo, artista!" "Sciocca, sciocca, stiamo scivolando!..." oppure era "volando"? Aveva detto "scivolando" o "volando"? scivolare o volare?... ma allora perché quella sensazione di abisso?

Il flashback durò pochi secondi, il tempo di guardare il manifesto-agitprop. La fronte, come a sproposito, gli si coprì di sudore freddo. Boris Petrovic si chiese: a cosa è dovuto? Non credeva ai sogni premonitori, altrimenti si sarebbe chiesto: a cosa condurrà?

Quando le porte si aprirono, non era più sicuro se si fosse trattato di una sorta di déjà-vu o il ricordo di un sogno fatto per qualche misterioso motivo.


La conversazione sull'arte, inaspettatamente, proseguì anche a casa. Rientrando, Boris Petrovic si accorse che la moglie aveva un'aria preoccupata. Tritava la carote per il borsc col robot da cucina. Quando lui aprì la porta, lei spense l'apparecchio.

– Pensa, ho comprato dei collant e mi sono accorta che i piedi sono girati verso l'esterno, uno da una parte e uno dall'altra.

– Ed è normale?

– No, non mi è mai successo.

– Forse sono per invalidi?

– Proprio non lo so. Andrò a cambiarli.

Detto questo Elena Grigor'evna si sedette sulla sedia e si asciugò le mani con lo strofinaccio.

– Borja, per favore, aiutami a capire... Ho letto l'articolo... quello là, quello che mi hai dato... su questi... com'è che si chiamano... che... chu...

– `Chelenukty' – disse Boris Petrovic, stupito di aver ricordato al primo tentativo un nome tanto singolare.

– Sì, cos'è? Che vuol dire?

– Vuol dire quello che vuol dire – rispose Boris Petrovic.

– Non potresti essere un po' più chiaro?

– Vediamo... come posso spiegartelo... c'è scritto, comunque... un movimento culturale di fine anni '60.... Underground.

– Borja, si sparavano addosso con pistole ad acqua.

– Sì, l'ho letto. Simulavano un duello.

– Giocavano a hockey da tavolo.

– E allora, cosa ti turba?

– Erano adulti...

– Questo è il punto, qui sta la loro genialità.

– E su questa roba ci scrivono anche delle tesi di dottorato?!

– E perché non studiarli, Lena? Dal momento che è esistito un tale fenomeno, non standardizzato, unico...

– Ma dove sta l'originalità? Nel mettere in circolazione false voci?

– Quali voci?

– Si avvicinavano alla gente in coda ai negozi e dicevano che in città non c'era più grano. E che si poteva comprare solo in un negozio all'altro capo della città. Sai come si chiama questo?

– Vedi, il tuo sguardo è unilaterale. Osserva le cose in modo diverso... da un altro punto di vista, si può considerare quasi una pratica artistica.

– Provocavano scompiglio fra la gente in coda...

– Vedi, non si tratta solo di eccessi, ma di una sorta di presa di posizione. Del tutto consapevole. Ricorda com'erano quei tempi.

– Cosa c'entrano i tempi, Borja?

– Semplice, a seconda dei tempi vediamo molte cose in modo diverso.

— Ma come, Borja? Questi andavano al cinema soltanto per burlarsi dei film sovietici... Andavano a teatro per burlarsi delle opere.

– Semplifichi troppo. Burlarsi! Devi osservare il tutto da un altro punto di vista...

– Uno è stato cacciato dalla sala perché si era messo a ridere durante una serata di musica della Carelia...

– Be', cerca di vedere il tutto... come un insieme! Bisogna guardare sistematicamente.

– Adesso dimmi, perché quello ha preso a sghignazzare alla serata di musica careliana?

– Mah, forse gli è semplicemente venuto da ridere...

– A una serata di musica careliana?

– D'altra parte era come se... almeno così la intendo io, in generale era... sì, un'azione. Artistica. Ha riso. Sai, un'iniziativa artistica. Queste persone agivano sul contesto. Lo mettevano in luce. Con le loro azioni. Ricorderai anche tu qual era il contesto allora...

– Non capisco di cosa parli... Quale contesto?

— Cosa credi? Io stesso mi permettevo certi comportamenti. Anche noi sperimentavamo. Ma già, tu non lo sai. Non ti ho mai raccontato... – aggiunse – i particolari.

– Borja, quando ci siamo conosciuti, tu non ti burlavi del prossimo.

– E neppure ora mi burlo. E poi basta con questo burlarsi e burlarsi.

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Pagina 244

"Non è lui."

Così dirà l'indomani mattina, vedendolo: "Non è lui."


Anche l'obitorio era anomalo. Un obitorio un po' strano, sembrava finto. Difficile dire se facesse parte dell'ospedale Konjasin o no, dato che l'ospedale intitolato a questo Konjasin era chiuso da tempo, soppresso, liquidato, abbandonato, ucciso. Edifici morti. Solo uno era in funzione, operativo, vivo, se così si può dire di un obitorio. Se così si può dire di un obitorio, l'obitorio viveva i suoi ultimi giorni; a breve avrebbero dismesso pure le celle frigorifere. Per il momento, i corpi venivano ancora portati lì. La camera mortuaria era in fondo a una sorta di cortile-giardino. Costeggiare la parete di mattoni, inclinata da un lato. Cibirëv zoppicava leggermente (si era infortunato un piede alla stazione di Zlobino). Scukin, sapendo dove condurre Cibirëv, lo stava portando proprio là dove sapeva. Boris Petrovic ebbe un sospetto: la camera mortuaria, cioè l'obitorio, e il magazzino di olio di semi di lino cotto, dove Scukin faceva la guardia, se non proprio uguali, almeno sul piano topografico erano eccezionalmente simili. Erano disposti pressappoco alla stessa distanza dalla Porta Moskovskaja, ma su lati diversi di viale Moskovskij. La stessa estetica suburbana che lui, Cibirëv, tanto apprezzava. Ma dovunque si vada, per quanto ci si allontani, ci si ritrova sempre in luoghi scukiniani: perché erano così vicini l'uno all'altro?... Il fatto di guardare fisso davanti a sé rendeva Cibirëv insicuro. Un'equilibrata miscela di incredulità e smarrimento si disegnò sul suo volto quando calpestò uno scricchiolante Si prega di attendere. Il guardarobiere torna subito. Per terra si può trovare proprio di tutto. Boris Petrovic aveva riposto gli occhiali con la lente rotta nella tasca della giacca e avanzava strizzando gli occhi miopi ma, a differenza di Scukin, si sforzava ostinatamente di non osservare dove metteva i piedi, quasi rifiutasse di riconoscere la realtà per come, evidentemente, appariva, ossia nel modo ormai noto, e la concepisse, invece, come un insieme di oggetti visibili o, in ogni caso, di oggetti contro cui si poteva inciampare.

Forse l'ospedale non era sparito del tutto, si era solo trasferito da un'altra parte, come persona giuridica, come collettivo di dipendenti, come insieme di metodologie, infine, come idea di quello che era prima, come idea di Ospedale Konjasin che, durante il trasloco, aveva cambiato denominazione. Si erano conservate solo le pareti. Konjasin era un medico? No, non lo era. Era un tranviere, un rivoluzionario. Anche il deposito tranviario lì accanto si chiamava Konjasin. Questo posto, invece, era rimasto senza nome.

Fuori c'erano alcune persone che fumavano, ma Boris Petrovic non sapeva chi fossero. In obitorio vide Katrin vestita di nero e, con suo grande stupore, Sveta: con stupore non perché Sveta fosse l'ex moglie di Tëpin, e insieme a lui fosse rimasta molto poco, ma perché non più tardi del giorno prima aveva parlato di lei con Antonina Evgen'evna. Scukin, che aveva in qualche modo partecipato all'organizzazione del funerale, si sentiva più libero e sicuro di Cibirëv: abbracciava ora Katrin, ora Sveta; dal canto suo, Cibirév, balbettando confuse condoglianze, gettava rapide occhiate alle casse da morto, senza soffermarsi su nessuna (nell'obitorio ce n'erano quattro, aperte): – Dov'è? – Eccola, Sveta e Katrin sono in piedi lì vicino. – Quella? – Sì, quella. – Scukin toccò il bordo (un gesto di commiato). "Non è lui" disse piano Boris Petrovic, avvicinandosi rasente alla loro bara, alla bara di lui.

Cibirév sapeva che la fisionomia dei morti cambia, ma in quel volto, in quello, non distingueva nulla che appartenesse a Tëpin, assolutamente nulla. Quei tratti appartenevano a qualcun altro: il naso, il mento, la forma del viso, le tempie incavate, i capelli rossicci sottili e radi: li avevano schiariti?... e perché?... Un'altra persona. Questa era più piccola e magra, ma soprattutto più anziana, quasi un vecchietto. Un uomo non può cambiare così rapidamente. Zio Tëpa non portava mai completi, non aveva giacche. Cosa ci faceva con un vestito nero? "Mi stanno facendo uno scherzo, o cosa?" pronunciò distintamente (fra sé) Cibirëv.

Quando uscirono nel cortile-giardino, Scukin gli disse che Katrin avrebbe preferito la cremazione. "È nascosto dietro un albero" pensava Boris Petrovic, che proprio non riusciva a capire che zio Tëpa, vivo, non c'era da nessuna parte, né dietro l'albero, né dietro l'angolo della sala caldaie.

In autobus ebbe ancora la sensazione che si trattasse di un trucco, di un inganno.

Solo quando giunsero al cimitero, si sentì piombare addosso la stanchezza di notti di sonno arretrato. Fu costretto anche a sopraffare un accenno di sbadiglio, che considerò come un ennesimo argomento a favore della non autenticità di quel funerale, dato che era impossibile sbadigliare vicino a una tomba, tanto più se la bara che scendeva sulla carrucola conteneva il corpo di un amico. Se a quel punto qualcuno avesse detto: "Basta così, ragazzi, abbiamo scherzato abbastanza, adesso andiamocene" avrebbe perdonato la burla, così pensava almeno. Invece dissero: "Gettate la terra." Allora lui prese un pugno di terra e lo gettò, come tutti.

Accanto ai genitori, nel cimitero Smolenskij.

Il compositore Ljapin aprì una bottiglia.

Degli artisti attuali non c'era nessuno. Nessuno, eccetto Scukin e Cibirëv.

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