Autore Amélie Nothomb
Titolo Gli aerostati
EdizioneVoland, Roma, 2021, amazzoni 99 , pag. 116, cop.fle.sov., dim. 14,5x20,5x1 cm , Isbn 978-88-6243-417-1
OriginaleLes aérostats
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2020
TraduttoreFederica Di Lella
LettoreCristina Lupo, 2021
Classe narrativa francese












 

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Pagina 7

Ancora non sapevo che Donate apparteneva a quel genere di persone che si irritano per un nonnulla. I suoi rimproveri mi facevano sprofondare nella vergogna.

- Non si lascia il bagno in questo stato - mi disse.

- Scusa! Che ho fatto?

- Non ho toccato niente. Devi rendertene conto da sola.

Andai a vedere. Non c'erano pozze d'acqua sul pavimento, né capelli nel piatto della doccia.

- Non capisco.

Mi raggiunse sospirando.

- Non hai tirato la tenda della doccia. Come vuoi che si asciughi se rimane piegata a soffietto?

- Ah, sì.

- E non hai chiuso il flacone dello shampoo.

- Ma è il mio.

- E allora?

Chiusi quello che io non chiamavo flacone, ma semplicemente shampoo. Mi mancava l'abbiccì delle buone maniere, era chiaro.

Me le avrebbe insegnate Donate. Avevo solo diciannove anni. Lei ne aveva ventidue. Ero ancora in un'età in cui quella differenza risulta significativa.

A poco a poco mi resi conto che si comportava così con la maggior parte delle persone. Al telefono la sentivo ribattere ai suoi interlocutori:

- Le sembra normale parlarmi con questo tono?

Oppure:

- Non accetto di essere trattata in questo modo.

Riattaccava. Le chiedevo cos'era successo.

- Come ti permetti di ascoltare le mie telefonate?

- Non ascoltavo, ho sentito.

La prima volta che usai la lavatrice, fu una tragedia.

- Ange! - chiamò.

Andai temendo il peggio.

- Che cos'è questa roba? - mi aggredì indicando i panni che avevo steso ad asciugare dove avevo trovato posto.

- Ho fatto il bucato.

- Non siamo a Napoli qui. Metti i tuoi panni da qualche altra parte.

- E dove? Se non abbiamo un'asciugatrice.

- E allora? Io per caso stendo i panni dove capita?

- Nessuno te lo impedisce.

- Non è questo il punto. Insomma, è un comportamento incivile. E ti ricordo che sei a casa mia.

- Pago anch'io l'affitto, no?

- Ah, quindi, siccome paghi, pensi che tutto ti sia permesso?

- Seriamente, che dovrei farne dei panni bagnati?

- C'è una lavanderia qui all'angolo. Con delle asciugatrici.

Registrai l'informazione, decisa a non usare mai più la sua lavatrice.


Presto entrammo nella quarta dimensione.

- Mi spieghi perché hai spostato le mie zucchine?

- Non ho spostato le tue zucchine.

- Non negare!

Quel "Non negare!" mi fece scoppiare a ridere.

- Non c'è niente di divertente. Vieni a vedere.

Nel frigorifero mi mostrò le zucchine, a sinistra dei miei broccoli.

- Ah, sì. Le ho dovute spostare per fare un po' di spazio ai broccoli.

- Hai visto! - esclamò trionfante.

- Dovevo pur mettere i broccoli da qualche parte.

- Non nel mio cassetto delle verdure!

- Ma ce n'è uno solo.

- Il cassetto delle verdure è mio. Non lo aprire.

- Perché? - chiesi stupidamente.

- Sono cose personali.

Tornai in camera mia per nascondere l'ilarità che suscitavano in me le sue parole. Detto ciò, aveva ragione: non c'era niente di divertente. Donate era una rompipalle di prim'ordine e io non avevo scelta: quella sistemazione era di gran lunga la più vantaggiosa che avessi trovato. I miei genitori abitavano troppo lontano da Bruxelles perché potessi fare la pendolare.

L'anno prima avevo preso un alloggio nell'edificio che fungeva da residenza universitaria per i filologi in erba: per niente al mondo sarei tornata in quel tugurio che condividevo con un tipaccio nauseante e che, anche in sua assenza, era così rumoroso a tutte le ore del giorno e della notte da rendermi impossibile dormire e studiare, il che per una studentessa era un bel problema. Per puro miracolo avevo superato lo stesso il primo anno, ma non avevo intenzione di correre di nuovo un rischio simile.

A casa di Donate avevo una stanza tutta per me. Virginia Woolf ha perfettamente ragione, non c'è niente di più importante. Anche se non era un granché, rappresentava comunque un lusso tale da spingermi a tollerare le angherie di Donate. Lei non ci entrava mai, più per disgusto che per rispetto del mio territorio. Ai suoi occhi io ero l'incarnazione dei "giovani": quando parlava di me avevo l'impressione di essere una teppista. Se solo toccavo qualcosa di suo, lei lo buttava immediatamente nei panni sporchi o nella spazzatura.

All'università non ero molto popolare. Gli studenti non si accorgevano nemmeno della mia esistenza. A volte prendevo il coraggio a quattro mani e rivolgevo la parola a un ragazzo o a una ragazza che mi sembravano simpatici: mi rispondevano a monosillabi.

Per fortuna la filologia mi appassionava. Passare la maggior parte del tempo a leggere o a studiare non era un problema per me. Ma certe sere mi capitava di sentirmi sola. Uscivo, me ne andavo in giro per le strade di Bruxelles. Il fermento della città mi dava alla testa. I nomi delle strade mi affascinavano: rue du Fossé-aux-Loups, rue du Marché-au-Charbon, rue des Harengs.

Spesso alla fine approdavo in un cinema dove vedevo quello che capitava. Poi tornavo a casa a piedi, il che mi prendeva circa un'ora. Quelle serate le trovavo avventurose, mi piacevano.

Nel rientrare dovevo stare molto attenta: Donate si svegliava al minimo rumore. Avevo istruzioni rigidissime: chiudere le porte con infinite cautele, non cucinare, non tirare lo sciacquone, non fare la doccia dopo le nove di sera. Anche se le rispettavo scrupolosamente, non c'era verso di scansare la ramanzina.

Aveva avuto problemi di salute? Chissà. Sosteneva di avere un bisogno di sonno superiore alla media. L'elenco delle sue allergie si allungava di giorno in giorno. Studiava scienze della nutrizione e criticava le mie abitudini alimentari con frasi del tipo:

- Pane e cioccolato? Poi non ti stupire se ti ammali.

- Sto benissimo.

- Lo credi tu. Vedrai quando avrai la mia età.

- Hai ventidue anni, non ottanta.

- Che sono queste insinuazioni? Come ti permetti di parlarmi così?

Tornavo in camera mia. Più che un rifugio in cui ritirarmi, la mia camera era il luogo dove tutto era possibile. Dava sull'angolo del boulevard: sentivo i tram affrontare rapidamente la curva con uno stridio che mi estasiava. Stesa sul letto, immaginavo di essere un tram, non tanto per chiamarmi desiderio, quanto per non conoscere la mia destinazione. Mi piaceva l'idea di non sapere dove stessi andando.

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Pagina 56

Mi sorpresi ad aspettare il giorno seguente con impazienza. Non riuscivo a impedirmi di immaginare le reazioni di Pie alla Metamorfosi. A quindici anni quel libro era stato per me una scoperta entusiasmante.

"Ogni adolescente è una versione di quel testo" pensai. Mi vennero in mente molti esempi contrari alla mia tesi. Avevo conosciuto ragazzi e ragazze che avevano vissuto l'adolescenza in modo brillante: erano belli, solari, la negazione dell'età ingrata.

A ben vedere, il loro caso non significava niente: si trattava solo di una fatalità statistica. Facevano pensare ai superstiti della battaglia della Somme. La pubertà era un po' come essere mandati al fronte, una forma di darwinismo estremo. Magari era un errore evolutivo, proprio come l'infiammabilità dell'appendice.

Quando cercavo di spiegare il mio caso specifico, una voce interiore sentenziava: "Smetti di credere di essere sopravvissuta. Che cos'hanno in comune la bambina meravigliosa e la ragazza tetra che sei diventata?" Eppure, in confronto a Pie, mi sentivo enormemente privilegiata. Avevo dei bravi genitori, né perversi né stupidi. Durante la crescita non avevo vissuto drammi particolari. La mia tragedia non era altro che l'esperienza comune: intorno ai tredici anni, in un attimo, era successo. Tutt'a un tratto nella mia testa si era rotto l'incantesimo.

Ricordo di aver cercato di restaurare la magia e di averci rinunciato dopo qualche minuto: "È inutile, ormai sarebbe solo una finzione." Avevo vissuto un prodigio durato quasi tredici anni, che si era dissolto in un batter d'occhio. Era irrimediabile.

Di conseguenza, leggere a quindici anni La metamorfosi fu una rivelazione. Svegliarsi una mattina trasformati in un gigantesco scarafaggio: già, era esattamente così. Negli altri romanzi gli adolescenti erano degli impostori: venivano descritti solo i superstiti della battaglia della Somme. Prima di Kafka nessuno aveva osato dire che la pubertà è una carneficina.

Mi sembrava che l'adolescenza di Pie fosse un incubo: non potevo paragonarla alla mia, non avevano niente in comune, ma lui si sarebbe sicuramente riconosciuto in Samsa.

Donate impazziva di curiosità riguardo alla famiglia Roussaire. Quando le dissi che avevo conosciuto la madre, mi fece il terzo grado: a ogni risposta si sbellicava dalle risate. Evitai di tirarle fuori la storia del bue e dell'asino, a cui tuttavia era impossibile non pensare.

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