Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo Attentato
EdizioneVoland, Roma, 2004 [1999], Amazzoni 8 , pag. 118, cop.fle., dim. 145x205x8 mm , Isbn 978-88-86586-46-7
OriginaleAttentat
EdizioneAlbin Michel, Paris, 1997
TraduttoreBiancamaria Bruno
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa francese
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Pagina 7

La prima volta che mi sono guardato allo specchio, mi è venuto da ridere: non credevo di essere io. Adesso, quando vedo il mio riflesso, rido: so che sono io. Tanta bruttezza ha qualcosa di buffo. Il mio soprannome è arrivato molto presto. Dovevo avere sei anni quando un ragazzino mi gridò, in cortile: "Quasimodo!" Pazzi di gioia, i bambini ripresero in coro: "Quasimodo! Quasimodo!"

Eppure nessuno di loro aveva mai sentito parlare di Victor Hugo. Ma il nome Quasimodo era così azzeccato che bastava sentirlo per capire.

Non sono mai più stato chiamato in altro modo.


Nessuno dovrebbe essere autorizzato a parlare della bellezza, solo i mostri. Sono l'essere umano più brutto che io abbia mai incontrato: ritengo dunque di avere questo diritto. È un tale privilegio che non rimpiango il mio destino.

E poi c'è una voluttà a essere mostruosi. Per esempio nessuno prova più piacere di me a passeggiare per strada. Scruto il volto dei passanti alla ricerca dell'istante magico in cui entrerò nel loro raggio visivo: adoro le loro reazioni, adoro il terrore dell'uno, il moto di disgusto dell'altro, adoro quello che distoglie lo sguardo per il fastidio, adoro la fascinazione infantile di chi non riesce a staccarmi gli occhi di dosso.

Vorrei gridare loro: "E mi vedete solo la faccia! Se poteste contemplare il mio corpo, allora sì che vi farei effetto!"

C'è qualcosa di indigesto riguardo alla bellezza: tutti si trovano d'accordo nel dire che l'aspetto esteriore ha poca importanza, è l'anima che conta, eccetera. Siamo alle solite, si continua a esaltare l'apparenza e a ignorare gli aborti della mia specie.

Così le persone mentono. Mi chiedo se ne sono consapevoli. È questo che mi irrita: l'idea che mentano senza saperlo.

Ho voglia di gridar loro in faccia: "Giocate agli spiriti puri se vi fa piacere. Affermate anche che non giudicate la gente dall'aspetto, se vi diverte. Ma almeno non credeteci!"


Il mio viso somiglia a un orecchio. È concavo, con assurdi rigonfiamenti delle cartilagini che, nel migliore dei casi, corrispondono alle zone in cui ci si aspetta di trovare un naso o un'arcata sopracciliare ma che, il più delle volte, non corrispondono ad alcun rilievo facciale conosciuto.

Al posto degli occhi, dispongo di due occhielli flosci, sempre sul punto di suppurare. Il bianco dei globi oculari è iniettato di sangue, come quello dei cattivi nella letteratura maoista. Vi galleggiano pupille grigiastre, simili a pesci morti.

La mia zazzera evoca quei tappetini sintetici che hanno l'aria sporca anche quando sono lavati di fresco. Mi raserei volentieri il cranio se non fosse ricoperto di eczema.

Per quel poco di pietà che provavo per il vicinato, pensai di farmi crescere barba e baffi. Lasciai perdere: non mi avrebbero coperto abbastanza. In verità, per essere presentabile, la barba avrebbe dovuto crescermi anche sulla fronte e sul naso.

Quanto alla mia espressione, se ne ho una, rimando a Hugo quando parla del gobbo di Notre Dame: "La smorfia era il suo volto".


Mi chiamo Epiphane Otos. Otos come gli ascensori, con i quali non ho nulla a che fare. Sono nato il giorno della festa dei Re Magi; i miei genitori, non riuscendo a decidere tra Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, hanno dunque scelto il nome che ritenevano la somma dei tre.

Ormai sono adulto, e la gente ritiene opportuno rispettarmi. Il che non toglie che soffrano le pene dell'inferno a chiamarmi Epiphane.

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Pagina 30

Accadeva al tempo in cui finivo di dissipare la mia eredità greca. Avevo avuto uno zio, non più greco di voi o di me, ma che aveva accumulato una fortuna considerevole in oscure circostanze elleniche. Quando morì, una cascata di dracme mi piombò sulla testa. Nonostante le tasse da pagare, mi restò di che vivere tranquillo per qualche stagione.

Quando mi raggiunse questo gruzzolo inatteso, la mia prima tentazione fu la chirurgia estetica. Avrebbe voluto dire spendere tutto in un colpo solo, certo; bastava però un rapido sguardo allo specchio per rendersi conto che non sarebbe stato un capriccio.

Virgilio si mise in mezzo: Timeo Danaos et dona ferentes. Bisognava riconoscere che l'origine greca di questa manna celeste la rendeva sospetta: ci si poteva leggere un avvertimento degli dèi dell'Olimpo.

Mi contemplai nudo nello specchio grande. Il problema era fin troppo evidente: non c'era nulla che non bisognasse cambiare. Una faccia normale su quel corpo mostruoso sarebbe stata fuori luogo, e avrebbe esaltato il suo impatto teratogeno. In virtù di una logica identica, una fisiologia armoniosa avrebbe reso il mio viso ancora più immondo. La mia bruttezza, per quanto estrema, aveva qualcosa di equilibrato nella sua distribuzione.

Insomma, l'operazione doveva essere totale o niente. Ora, uno può pure odiarsi dalla testa ai piedi, ma ciò non toglie che si esiti ad abbandonare il proprio intero involucro. Avevo bene o male abitato quella pelle per vent'anni, questo creava un legame tra me e lei. Se non mi restava più nulla di originario, quel corpo avrebbe potuto considerarsi comunque mio? Eliminare anche uno dei suoi difetti non equivaleva forse alla mia morte?

Non ne facevo una questione morale, ma un problema metafisico: fino a che grado di metamorfosi si resta se stessi? La sola certezza che abbiamo di fronte alla morte è la scomparsa dell'involucro carnale. Che siano il bisturi o i vermi a incaricarsene, forse non fa differenza.

Era un rischio tremendo. E se mi fossi reso conto, all'indomani dell'operazione che, per aver rinunciato al mio corpo, avevo assassinato Epiphane Otos? Lo spiritualista che mi ostinavo a essere temeva di trovarsi ad affrontare una prova tanto radiosa quanto la supremazia della materia sullo spirito.

A tali preoccupazioni ontologiche si sommavano considerazioni più banali: avevo le mie abitudini. La mia bruttezza era comoda come un paio di pantofole, e questo per la semplice ragione che era fatta apposta per la mia anima, come le scarpe per i piedi. Si torna sempre alle vecchie ciabatte, anche se sono diventate impresentabili. Ci si sta così bene.

Qui si fermava la metafora calzaturiera. Perché se le scarpe vecchie si possono nascondere in fondo all'armadio, non si può conservare nello sgabuzzino il proprio vecchio aspetto. E se la mia anima si fosse ritrovata mal calzata fino alla morte?

C'era in me, poi, un che di fatalista a trattenermi, a meno che non si trattasse di pigrizia dissimulata. Ciò in qualche modo conciliava avvilimento e disinvoltura: "Questa disgrazia è il mio destino. Dunque è ineluttabile: bisogna sottomettersi alla volontà degli dèi. Visto che non ne sfuggirò in alcun modo, tanto vale alzare le mie orribili spalle e vivere nell'indifferenza dell'accettazione."

Fu così che rinunciai all'operazione di plastica. I poveri chirurghi non sanno che cosa si sono persi. Non ho mai rimpianto questa decisione. L'economia che ne risultò mi permise di non lavorare per anni.

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Pagina 58

Ricordo quella donna, vista in una stazione: senza essere brutta quanto me, il che sarebbe stato impossibile, era però orrenda. Lei non cercava di dissimularlo e sembrava indifferente al proprio aspetto. Era rivoltante, dalla testa ai piedi.

La scrutavo costernato quando un particolare mi colpì: la signora portava lo smalto alle unghie. Color vinaccia e applicato ad arte.

Restai perplesso: quello smalto, in sé grazioso, non aveva alcuna speranza di abbellire le brutte dita di quella donna che, d'altronde, era vestita senza nessuna ricercatezza. In quel particolare, però, aveva messo una gran cura. Non si poteva dire che avesse cercato di 'sistemarsi': prima di tutto non ci aveva provato, e poi era 'insistemabile'. Cosa c'era dietro quello smalto così elegante?

In seguito mi sono accorto di fenomeni analoghi in quasi tutte le donne brutte. Non ho trovato spiegazione. Questa assurda civetteria delle brutte ha qualcosa di confortante.

Non ho rintracciato alcun paradosso equivalente negli uomini brutti, a cominciare da me. In termini generali, il maschio orribile è meno comico da guardare della femmina repellente: quest'ultima indossa spesso abiti a fiori grandi, occhiali da diva e scarpe sfavillanti. La sua biancheria è da sogno. Salvo casi eccezionali, non ha barba e non può dunque dissimulare verruche o grugno sotto un velo di peli. La donna brutta è straziante e comica; l'uomo brutto è sinistro e grigiastro.

Si tratta comunque di risposte diverse a una stessa domanda terribile: come collocare la propria anima in un corpo ributtante? Come vivere questo genere di impostura? Io me la sono cavata con una certa dignità. Ma gli altri?

Li ho osservati molto. Sono al tempo stesso ammirato e indignato nel costatare che la maggior parte di loro accetta la propria sorte. Molto spesso si sposano tra loro. Non so farmene una ragione: è come se moltiplicassero per due la loro bruttezza. Hanno intenzione di mettere al mondo i loro ritratti?

Non provano, come provo io, una inestinguibile sete di bellezza? Ne abbiamo bisogno più di qualsiasi altro essere umano, noi che ne siamo stati privati dalla nascita. Se al mondo ci fosse giustizia, verremmo sposati d'ufficio a Veneri o ad Apolli, per avere, a contatto con il loro splendore, la possibilità di lavarci.

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