Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo Biografia della fame
EdizioneVoland, Roma, 2004, Amazzoni 28 , pag. 146, cop.fle., dim. 145x205x9 mm , Isbn 978-88-88700-42-7
OriginaleBiographie de la faim
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2004
TraduttoreMonica Capuani
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe narrativa francese
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Pagina 7

L'arcipelago dell'Oceania anticamente detto delle Nuove Ebridi, che oggi risponde al nome di Vanuatu, non ha mai conosciuto la fame. Al largo della Nuova Caledonia e delle Isole Fiji, il Vanuatu ha beneficiato per millenni di due atout, rari entrambi ma la cui coesistenza è rarissima: l'abbondanza e l'isolamento. Quest'ultima virtù, trattandosi di un arcipelago, certo ha un po' del pleonasmo. Isole molto frequentate però se ne sono viste, mentre nessun arcipelago è stato così poco visitato quanto quello delle Nuove Ebridi.

È una strana verità storica: nessuno ha mai avuto voglia di recarsi nel Vanuatu. Perfino una diseredata della geografia, come l'isola della Desolazione, ha i suoi estimatori: il suo stato di totale abbandono ha qualcosa di attraente. Se ci tieni a sottolineare la tua solitudine o a recitare la parte del poeta maledetto, farai un figurone dicendo: "Sono appena tornato dall'isola della Desolazione." Se torni dalle Marchesi, susciterai una riflessione ecologica, se rientri dalla Polinesia, evocherai Gauguin, ecc. Tornare dal Vanuatu non provoca alcuna reazione.

Ed è tanto più bizzarro dal momento che le Nuove Ebridi sono isole affascinanti. Possiedono quell'attrattiva propria di tutta l'Oceania e che riesce a farti sognare: palme, spiagge di sabbia fine, noci di cocco, fiori, vita facile, ecc. Si potrebbe parodiare Vialatte e dire che sono isole estremamente insulari: perché allora la magia dell'insularità, che funzione per il più piccolo scoglio emerso, nulla può quando si tratta di Vaté e le sue sorelle?

Sembra quasi che il Vanuatu non interessi a nessuno.

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Pagina 15

Non è difficile situare il contrario del Vanuatu: è l'altrove che c'è dovunque. Se le popolazioni hanno qualcosa in comune, è che hanno inevitabilmente conosciuto la carestia nel corso della loro storia. La penuria crea legami. È un argomento di conversazione.

Il campione della pancia vuota è la Cina. Il suo passato è una serie ininterrotta di catastrofi alimentari con un'infinità di morti. La prima domanda che un cinese rivolge a un suo connazionale è: "Hai mangiato?"

I cinesi hanno dovuto imparare a mangiare l'immangiabile, e di qui la raffinatezza ineguagliata della loro arte culinaria.

Esiste una civiltà più brillante e ingegnosa? I cinesi hanno inventato tutto, pensato tutto, compreso tutto, osato tutto. Studiare la Cina è studiare l'intelligenza.

Sì, ma hanno barato. Erano sotto l'effetto del doping: avevano fame.

Non si tratta qui di stabilire una gerarchia tra i popoli. Al contrario. Bisogna dimostrare che è la fame la loro più alta forma d'identità. Dichiarare ai paesi che ci assillano con la presunta unicità della loro popolazione che ogni nazione è un'equazione che si articola intorno alla fame.

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Pagina 28

Sbarcai dunque nella tampopogumi (la classe dei piscialletto). Ricevetti l'uniforme: gonnellina blu scuro, blazer blu scuro, baschetto blu scuro e piccola cartella da portare sulle spalle. L'estate, quella divisa veniva sostituita da un grembiule che copriva il corpo a mo' di tenda e da un cappello di paglia a punta: avevo l'impressione di essere vestita di tetti. Ero una casa a più piani.

Tutto questo sembrerebbe carino, ma in realtà era orribile. Fin dal primo giorno, concepii un'avversione senza limiti per lo yochien. La tampopogumi era l'anticamera dell'esercito. Ero d'accordo nel fare la guerra, ma marciare al passo dell'oca, a colpi di fischietto, ubbidire alle voci scandite delle caporali mascherate da maestre di scuola calpestava la mia dignità e avrebbe dovuto calpestare anche quella degli altri.

Ero la sola non giapponese dello yochien. Non arriverò ad affermare che i miei condiscepoli si conformassero a quella situazione. E poi sarebbe infame pensare che, per il fatto di appartenere a questo o quel popolo, si abbia una diversa dimestichezza con la schiavitù.

In realtà, sospetto che gli altri bambini avessero le mie stesse sensazioni: tutti fingevamo. Le foto dell'epoca lo dimostrano: mi ritraggono mentre sorrido con i miei compagni, o concentrata nella lezione di cucito, con gli occhi bassi sul lavoro che pasticciavo con impegno. Ricordo benissimo quello che pensavo ai tempi della tampopogum: ero sempre indignata, furiosa e terrorizzata al tempo stesso. Le maestre erano così diametralmente diverse dalla mia dolce governante Nishio-san che le odiavo. La soavità del loro volto era un tradimento ulteriore.

Ricordo una scena. A una delle caporali stava a cuore che cantassimo, in perfetta sincronia, un piccolo ritornello pieno d'entusiasmo, strombazzando la nostra gioia di piscialletto disciplinati e sorridenti. Avevo deciso all'istante che cantare quella canzone era come andare a Canossa e approfittavo dell'effetto corale per simulare il canto così come simulavo la compiacenza scolastica: la mia bocca accennava le parole senza la minima collaborazione delle corde vocali. Ero molto fiera di quello stratagemma che costituiva una disobbedienza di grande conforto.

Alla maestra venne il sospetto che stessi facendo la furba perché, un giorno, disse:

— Faremo una variazione dell'esercizio: ogni allievo canterà a turno due frasi dell'inno dei piscialletto, poi cederà il testimone al suo vicino, e via di seguito fino alla fine.

L'allarme non squillò subito nella mia testa, quella volta. Decisi di fare uno strappo alla regola e di cantare per davvero, quella volta. Poco a poco, mi resi conto che non conoscevo affatto le parole: il mio cervello aveva rifiutato a tal punto l'inno dei piscialletto che non ne aveva memorizzata neanche una sillaba. Quando fingevo, le mie labbra non imitavano quello che avrebbero dovuto vocalizzare, ma si muovevano a casaccio in un anarchico coro muto.

Nel frattempo, la canzone avanzava inesorabile, con un effetto domino. L'unica cosa che avrebbe potuto salvarmi, oltre a un terremoto, sarebbe stata l'irruzione, prima che arrivasse il mio turno, di un altro simulatore. Trattenni il fiato.

Non ci fu un altro piccolo furbacchione e il momento fatidico arrivò: aprii la bocca e non uscì niente. L'inno dei piscialletto, che fin là era gioiosamente corso di bocca in bocca a un ritmo impeccabile, precipitò in una voragine di silenzio che portava il mio nome. Tutti gli occhi si voltarono verso di me, a cominciare da quelli della maestra.

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Pagina 60

A sette anni, ebbi la precisa sensazione che mi fosse già successo tutto.

Feci mente locale, per essere sicura di non aver dimenticato nulla del percorso umano: avevo conosciuto la divinità e la sua soddisfazione assoluta, avevo conosciuto la nascita, l'ira, l'incomprensione, il piacere, il linguaggio, le complicazioni, i fiori, gli altri, i pesci, la pioggia, il sudiciume, la salvezza, la scuola, la destituzione, lo sradicamento, l'esilio, il deserto, la malattia, la crescita e la sensazione di perdita che ne era la conseguenza, la guerra, l'ebbrezza di avere un nemico, l'alcol — last but non least — e avevo conosciuto l'amore, quella freccia così ben scagliata nel vuoto.

A parte la morte che avevo già sfiorato più volte e che avrebbe riportato il contatore a zero, cosa potevo ancora scoprire?

Mia madre mi parlò di una signora che era rimasta uccisa mangiando per sbaglio un fungo velenoso. Le chiesi quanti anni avesse. "Quarantanove," rispose. Sette volte la mia età: chi volevano prendere in giro? Era forse un problema morire dopo una vita così insensatamente lunga?

Una vertigine mi afferrò all'idea che il provvidenziale fungo forse mi avrebbe trovata a un'età così lontana: bisognava ancora subire sette volte la mia vita prima di raggiungerne il termine?

Mi rassicurai: stabilii il mio decesso a dodici anni. Un sollievo profondo si impadronì di me. Dodici anni era un'età ideale per morire. Bisognava andarsene prima dell'inizio del processo di decrepitudine.

Ciò detto, mi restavano cinque anni da scontare. Mi sarei an noiata?

Mi ricordai che all'età di tre anni, subito dopo il mio tentato suicidio, avevo già avuto questa convinzione nauseata di aver già vissuto tutto. Ora, se è vero che in quell'istante remoto non avevo più niente da imparare quanto alla suprema delusione dell'assenza di eternità, allora non avevo però ancora vissuto avventure che valessero la pena. Per esempio, mi sarebbe mancata la guerra, il cui piacere non ha eguali.

Perciò, non era da escludere che potessi ancora conoscere quello di cui non avevo fatto esperienza.

Quel pensiero era piacevole e frustrante al tempo stesso. La curiosità mi tormentava: quali cose la mia mente non avrebbe fatto in tempo ad apprendere?

A forza di riflessione, caddi su una possibilità che mi era sfuggita: avevo conosciuto l'amore, sì, ma non la felicità amorosa. Di colpo, mi parve inconcepibile morire senza aver vissuto un'ebbrezza così inimmaginabile.


Nella primavera del 1975, venimmo a sapere che, nel corso dell'estate, avremmo lasciato Pechino per New York. Quella notizia mi stupì: era possibile dunque vivere in un luogo diverso dall'Estremo Oriente?

Mio padre ne rimase contrariato. Aveva sperato che il Ministero belga lo inviasse in Malesia. L'America non lo tentava. Ma il pensiero di partire da quella Cina gli dava sollievo. E anche a noi.

Per lui, lasciare Pechino equivaleva a lasciare l'inferno del maoismo, il disgusto di intravedere crimini senza nome.

Per me, era fuggire dalla scuola che era stata testimone della mia umiliazione amorosa ed era scappare da Trê che mi tirava i capelli ogni mattina. L'unica cosa triste sarebbe stata dire addio al signor Chang, il cuoco magico.

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Pagina 104

Nel 1978, il Bangladesh era una strada piena di gente in punto di morte.

Eppure nessuna popolazione mi era mai parsa così energica. Tutti avevano il fuoco negli occhi. Morivano con ardore. La fame, onnipresente, incendiava il sangue dei bangladeshi.

La nostra casa era un brutto bunker dove c'era cibo: lusso supremo.

L'unica attività nelle giornate degli esseri umani era la lotta contro l'agonia.

I miei genitori avevano quarant'anni, l'età di rimboccarsi le maniche e mettere alla prova del lavoro la propria responsabilità. Mio padre, inebriato dall'enormità dell'impresa, realizzò laggiù cose immense.

Io avevo undici anni. Non era l'età della compassione. In quel gigantesco mortorio, provavo solo terrore. Ero come una soprano inviata nel più sanguinoso dei campi di battaglia, spettacolo che l'avrebbe convinta di colpo della sconvenienza della sua voce, senza che questo la rendesse capace di cambiare registro. Meglio tacere.


Io tacqui.

Mia sorella condivise questo silenzio. Eravamo troppo consapevoli del nostro statuto di privilegiate perché osassimo dire una parola. Uscire per strada richiedeva un coraggio senza precedenti: bisognava armarsi gli occhi, preparare loro uno scudo.

Per quanto avvertito, lo sguardo restava permeabile. Erano un pugno nello stomaco quei corpi di magrezza sconosciuta, quei moncherini che spuntavano là dove mai avresti potuto concepirli, quelle piaghe, quei gozzi, quegli edemi, ma soprattutto quella fame urlata da così tanti occhi tutti insieme che nessuna palpebra avrebbe potuto impedirne l'ascolto.

Rientrai nel bunker malata di odio, un odio indirizzato a nessuno in particolare e che riversavo dunque su tutto, conservandone per me un'equa porzione.

Cominciai a odiare la fame, tutte le fami, la mia, le altre, e tutti quelli che erano capaci di sentirla. Odiai gli uomini, gli animali, le piante. Solo le pietre venivano risparmiate. Avrei voluto essere una di loro.

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Pagina 126

Da un pezzo aspettavo il disastro. Cominciai a capire che non sarebbe accaduto da solo. Bisognava che lo provocassi. Non si poteva contare né sull'attualità – il colpo di stato si verificava soltanto quando me ne andavo da un paese – né sulla metafisica – per quanto scrutassi cielo e terra, i segni premonitori dell'Apocalisse non si manifestavano.

Avevo fame di un cataclisma, e anche Juliette. Non ne parlavamo. Eravamo già a quello stadio che è tuttora il nostro: non avevamo più bisogno di parlarci. Ognuna sapeva quello che viveva l'altra: era la stessa cosa.

Continuavo a desiderare il giovane inglese, il mio corpo continuava a crescere, la voce interiore continuava a odiarmi, Dio continuava a punirmi. A queste aggressioni, avrei opposto la più eroica resistenza di tutti i tempi.

In Bangladesh, mi era stato insegnato che la fame è un dolore che sparisce molto in fretta: se ne subiscono gli effetti senza più provare sofferenza. Forte di questa informazione, creai la Legge: il 5 gennaio 1981, giorno di Santa Amélie, avrei smesso di mangiare. Questa perdita di sé si sarebbe accompagnata a una ritenzione: la Legge stipulava anche che a partire da quel giorno non avrei più dimenticato alcuna emozione della mia vita.

Non ricordare più i dettagli tecnici dell'universo, Marignan 1515, il quadrato costruito sull'ipotenusa, l'inno nazionale americano e la classificazione degli elementi chimici era permesso. Ma dimenticare le emozioni vissute, anche le più impercettibili, era un crimine che troppi intorno a me commettevano. Ne provavo un'indignazione mentale e fisica.

La notte tra il 5 e il 6 gennaio 1981, assistetti alla prima proiezione interiore delle mie emozioni della giornata: erano caratterizzate soprattutto dalla fame. Da allora, ogni notte, alla velocità della luce, si srotolava nella mia testa la bobina delle emozioni a partire dal 5 gennaio 1981.


Era perché avevo tredici anni e mezzo, l'età in cui i bisogni alimentari sono i più demenziali? La fame fu lenta a morire in fondo al mio ventre. La sua agonia durò due mesi che mi parvero un lungo supplizio. Per la memoria non fu altrettanto facile mettersi al passo.

Dopo due mesi di dolore, il miracolo alla fine avvenne: la fame sparì, lasciando il posto a una gioia torrenziale. Avevo ucciso il mio corpo. Vissi la cosa come una vittoria strabiliante.

Juliette dimagrì ed io diventai uno scheletro. L'anoressia fu per me una grazia: la voce interiore, sottoalimentata, taceva; il mio petto era di nuovo meravigliosamente piatto; non provavo più neanche l'ombra di desiderio per il giovane inglese; a dire il vero, non provavo più niente.

Questo modo di vivere giansenista – niente cibo né per il corpo né per l'anima – mi manteneva in un'era glaciale dove i sentimenti non premevano più. Fu una tregua: non mi odiavo più.

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