Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo L'entrata di Cristo a Bruxelles
EdizioneVoland, Roma, 2008 , pag. 104, cop.ril., dim. 14,5x16,5x1 cm , Isbn 978-88-6243-018-0
OriginaleL'Entrée du Christ à Bruxelles - Sans nom
TraduttoreMonica Capuani
LettoreElisabetta Cavalli, 2009
Classe narrativa francese
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Pagina 9

La giovinezza non si confaceva a Salvator.

A vent'anni, concentrato su sé stesso fino al parossismo, non si sopportava più. Tanto meno potevano aiutarlo gli altri, visto che non lo tolleravano neanche loro. Telefonava alle persone solo se doveva chiedere favori; si offendeva se in cambio quelli ne sollecitavano il sostegno. E i suoi modi erano così poco discreti da essere insulsi.

Si convinse di essere ambizioso mentre il suo non era che smisurato orgoglio. Si buttò in una corsa al successo sociale che pareva una caricatura; ai cocktail, lo si vide fare la corte alle mogli dei potenti. Una di esse cedette al suo discutibile fascino; quando alla fine gli fu chiaro quanto valeva per lei, si rese conto che l'avventura non gli avrebbe assicurato l'incarico dei suoi sogni. La dignità non gli mancava: ne soffrì.

Uno dei suoi ricchi parenti alla lontana non aveva eredi.

Salvator prese a frequentarlo con assiduità nauseante. Lo zio era un ingenuo e pensò che Salvator fosse buono: gli propose di diventare suo segretario. Il pivello si avventò su quel posto poco brillante immaginando che alla fine lo zio lo avrebbe nominato erede universale.

Per un anno, eseguì incarichi noiosissimi pensando unicamente ai soldi. Cosa tanto più spiacevole perché Salvator non era una persona avida. La ricerca dei beni materiali era frutto solo dei suoi complessi: era convinto che la gente non avrebbe voluto saperne di lui se non disponeva di un'eccezionale agiatezza.

Perché lui voleva che la gente lo volesse. Se qualcuno gli avesse chiesto cosa intendesse di preciso, si sarebbe trovato in difficoltà. Il personaggio straordinario che ambiva diventare gli sfuggiva in continuazione.

Il suo protettore gli voleva molto bene; per quanto a lui sembrasse strano, era possibile apprezzare quel ragazzo arrogante. Quando dimenticava la sua cortigianeria nipotesca, Salvator aveva tratti di purezza maldestra che la dicevano lunga su chi era veramente – un ragazzo perduto, un paggio solitario smarrito in un'epoca che non gli si confaceva.

Lo zio Nazaire volle presentargli una ragazza. Irène aveva diciannove anni: raffinata quanto incantevole. Salvator non capì perché Nazaire l'avesse destinata a lui, ma se tale era la volontà dello zio, convenne che avrebbe potuto andargli peggio. Vide anche di buon occhio che il suo protettore si immischiasse nella sua vita privata: non era forse un modo per fargli capire che lo considerava un figlio? Il segretario si mostrò quindi molto galante nei confronti di Irène.

Costei accoglieva le sue dichiarazioni con un certo distacco.

A Salvator piaceva quel pudore: per poco non si incapricciò di lei. Se l'avesse scelta lui, avrebbe anche potuto amarla.

Da allora, Irène fu sempre con loro. Nazaire volle che imparasse a guidare; Salvator fu designato suo insegnante.

Passarono insieme ore nella Jaguar dello zio. La ragazza non era portata: "Ma perché Nazaire ci tiene tanto che io prenda la patente?" diceva.

Il ragazzo rispondeva fra sé a questa domanda: "La vecchia volpe la ritiene, giustamente, una soluzione molto naturale per farci stare spesso in compagnia l'uno dell'altra."

Un giorno, mentre le insegnava la marcia indietro, le afferrò il mento e le baciò le labbra. Fu turbato dal piacere che ne ebbe.

Irène fu docile giusto il tempo che durò lo stupore: una ventina di secondi. Subito dopo, lo guardò con terrore, scese dalla macchina e fuggì.

"Quante smorfie" si disse Salvator, divertito, riportando la Jaguar all'ovile.


La sera stessa, lo zio cenò da solo con il giovanotto.

— Per una volta che siamo noi due, ho voglia di parlarti di Irène.

— Me lo aspettavo — disse Salvator con un sorriso.

— Cosa pensi di lei?

— È meravigliosa. La ragazza ideale.

— Sono felice che la pensi come me.

— Ne dubitavi?

— No. Si vede che andate molto d'accordo.

— Non ti si può nascondere niente.

— Bene. Sono contentissimo che ti piaccia. Figurati che è incinta!

— Cosa?!

— Sì, caro mio. A cinquantotto anni, si è ancora capaci di cose del genere.

Salvator inghiottì la nausea prima di rispondere:

— E cosa hai intenzione di fare?

— Tenerlo. Riconoscerlo. Non avevo mai pensato di avere un figlio. Ma adesso che sta per arrivare, non mi dispiace.

— Sposerai Irène?

— Non esageriamo. Ho quarant'anni più di lei e il senso del ridicolo: mi immagino la faccia degli impiegati del comune mentre compilano i nostri documenti.

Salvator si chiese perché Nazaire non si immaginasse anche la faccia delle ostetriche.

— Conto sulla tua discrezione. Irène non si farà troppo vedere in giro nei mesi a venire.

— E le lezioni di guida?

— Forse è meglio interromperle, adesso. Magari la gente potrebbe credere che sei il padre del bambino!

Lo zio scoppiò a ridere come se l'ipotesi gli suonasse straordinariamente buffa. Il ragazzo pensò invece che sarebbe stata l'unica decente.


La gravidanza vide crescere l'odio di Salvator.

Odio verso Nazaire, che considerava osceno. Che quel vecchio corpo avesse fecondato un corpo giovane lo faceva già star male; che ne fosse fiero lo disgustava all'ennesima potenza.

Odio verso Irène, che lo aveva fregato come un gonzo. Si sentiva legittimato a ritenere che lei lo avesse ingannato. In più, era stato indubbiamente il denaro l'unico motivo per cui si era data allo zio.

Odio parossistico verso il nascituro. Il frutto di quell'amore ripugnante avrebbe preso il suo posto: alla fin fine, sarebbe stato lui a ricevere l'eredità.

"E io faccio il leccapiedi da più di un anno per niente!"

Neanche per un attimo ebbe la lucidità di pensare che se Irène era spregevole in quella vicenda, lui non lo era meno, e che odiare il bambino era particolarmente ingiusto.

Salvator lasciò campo libero al suo odio. Non dubitò un istante di avere ragione.


Quando Irène partorì, il giovanotto concepì il suo piano.

Avido lettore dei romanzi di Robert Van Gulik, si procurò un chiodo lungo e sottile. Nessuno lo vide entrare nella stanza della creatura profondamente addormentata. Qualche colpo di martello, e il chiodo penetrò a fondo nel cranio del bimbo che cominciò a urlare. Salvator fuggì.

Il grido del neonato lo riportò finalmente alla ragione: comprese l'orrore del suo gesto. "Ho ucciso. Ho ucciso una vita innocente per una questione di soldi."

Nella testa dell'assassino le cose accaddero alla velocità di un lampo: "O mi ammazzo subito o parto all'istante, vado il più lontano possibile, e assumo un'altra identità."

Non sentendosi in grado di uccidere un'altra volta, scelse senza riflettere la seconda soluzione. All'aeroporto prese il primo aereo per Hong Kong.

Non sapeva bene perché quella città gli fosse sembrata la destinazione ideale. Di certo combinava alcuni vantaggi: era abbastanza cinese per uno che aveva appena ucciso come un personaggio di Robert Van Gulik, era abbastanza occidentale per uno che non aveva mai lasciato l'Europa – e soprattutto, era lontana.

Salvator aveva bisogno di stare lontano dall'uomo che era stato. L'ignominia non solo del suo crimine, ma anche dei sentimenti che aveva provato, gli appariva adesso assolutamente evidente.

"Non voglio essere più niente di quello che sono stato."

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Pagina 45

Senza nome



C'è un luogo di questo pianeta che si conosce poco quanto il sud: è il nord. I discorsi che si sentono sul mezzogiorno sono aberranti; quello che si dice del settentrione lo è altrettanto. Logico: non si può screditare l'uno senza disonorare l'altro. Io ci tengo a rendere giustizia a questi due poli della nostra geografia e delle nostre metafisiche. Un giorno racconterò gli alti eventi del Grande Sud che amo tanto. Se decido di cominciare da una leggenda del nord, è per la sola ragione che ho freddo da tre notti: il mio spirito si è addentrato nel nord di sé stesso. E la mia penna lo asseconderà.


C'è un luogo di questo pianeta che mi è caro quanto il sud: è il nord. Piuttosto che dissertare sulle meraviglie boreali, mi propongo di evocarle attraverso un racconto di cui sono unico depositario, senza sapere perché mi sia toccato questo privilegio.

Ancora meno so perché questa storia mi venga alla prima persona singolare. Non chiedetemi chi si nasconda dietro questo "io" multiforme: non ne ho idea. Si sapeva già che io era un altro. La mia scoperta è che io è una moltitudine di altri che si servono della mia penna per raccontare. Lascio la parola all'io del settentrione.


La storia si svolge in Finlandia, da qualche parte tra Faaaa e Aaaaa.

Ero partito tre giorni prima, alla ricerca della dama dei miei sogni, perché nel nord, se si parte per un viaggio, è per andare a cercare la dama dei propri sogni. (È uno dei punti in comune più strani tra il nord e il sud.)

Cedendo a un impulso scioccamente romantico, non ero partito al volante della mia macchina a trazione anteriore Finlandia ZX, ma di una slitta tirata da cani esotici.

Il primo giorno mi era sembrato di una bellezza insostenibile. Eravamo nel cuore dell'inverno. Il mio tiro di cani era partito nella neve verso le sette del mattino; era notte fonda. Il giorno si era levato alle undici.

Tempo di prendere coscienza della luce, e il sole era già tramontato: alle due del pomeriggio. Quel giorno effimero mi aveva lasciato un'impressione lacerante di poesia. E i miei cani galoppavano attraverso foreste innevate, e io rimanevo sbalordito davanti a quei deserti splendori.

Verso le sette decisi di bivaccare. Preparai un fuoco: la notte prometteva di essere sublime. Mi accorsi allora che morivo di fame.

Ovviamente, non avevo portato niente da mangiare: ero troppo innamorato per pensarci. E poi di solito la fame mi piace, quel ricco vuoto dell'essere tutto intero che lascia intravedere possibilità di godimento sconosciute alle pance piene.

Quella sera scoprii la sofferenza del ventre affamato, aggravata dal freddo e dalla solitudine. Una sensazione di miseria fisica sgradevolissima. Dato che non avevo portato niente neanche per nutrire i cani, li vedevo guardarmi con appetito, l'aria di pensare che quell'umano avrebbe potuto costituire un pasto più che dignitoso. Di colpo, mi ricordai il motto della giungla: "Mangiare o essere mangiati."

Certo, non eravamo nella giungla, ma capita che un adagio del sud possa funzionare anche al nord. Mi ricordai che i cinesi mangiano i cani: osservando il più grosso della muta, calcolai un cosciotto per me e il resto per le altre bestie.

Questo avrebbe risolto due problemi: io non avrei avuto più fame e i cani sopravvissuti avrebbero smesso di lanciarmi gli sguardi teneri che ispira la carne.

Così fu fatto. La muta non si fece alcuno scrupolo di divorare l'antico collega. Quanto a me, mangiai il cosciotto arrosto con un certo disgusto: aveva davvero un sapore da cani. Una simile affermazione è assurda quando non si è mai mangiata carne canina, eppure ritrovai in quella polpa il sapore che sicuramente avrebbero avuto i bassotti e i labrador della mia vita, se avessi avuto l'idea bislacca di mangiarne una zampa.

Ma almeno il barbecue mi placò la fame.

L'indomani, stesso scenario. Il mio tiro di cani mi condusse nel profondo nord. Non sapere dove stessi andando non mi impediva di andarvi.

Giunta l'ora della cena, i cani ebbero per me occhi identici a quelli della sera precedente e il mio stomaco ebbe per il mio cervello proposte simili. Selezionai la bestia più grassa e la divisi con i miei commensali canini.

Due giorni dopo, la situazione si ripropose. Ma stavolta cenai con un solo sopravvissuto intorno al fuoco. Tentai di farlo ragionare:

- L'altro ieri, eravate in tre a dividervi un cane e avete avuto tre pasti sufficienti. Ieri, eravate in due a dividervi un cane e avete avuto due pasti abbondanti. Stasera, sei solo a mangiare quello che ti lascio dell'animale: pensa a domani. L'altro ieri ti sei accontentato di tre volte di meno. Stavolta potresti essere soddisfatto di un cosciotto, come me. Domani sera, rimarrebbe un altro cosciotto per ciascuno.

Perdevo il mio tempo. Divorò tutto il suo consimile guardandomi con aria beffarda. Sapeva di trovarsi in posizione di forza. Se avesse potuto parlare, mi avrebbe risposto:

— Basta con le chiacchiere. Domani sera, non potrai mangiarmi: hai troppo bisogno di me. Che farai senza nemmeno un cane che tiri la slitta? Io invece di te non ho alcun bisogno. Non è per generosità che ti lascio la tua parte, stasera: visto che domani ti sbranerò, quel cosciotto finirà nel mio ventre comunque. Puoi considerarti fortunato se ti lascio salva la vita fino a domani.

Sapevo che aveva ragione. Sapevo pure che se mi accordava altre ventiquattro ore non era per bontà ma per mancanza di appetito.

Dopo la scorpacciata, la bestia si addormentò profondamente. Pensai di dover approfittare di quel sonno pesante di sazietà per fuggire. Presi le cose che mi parvero più indispensabili, abbandonai le altre con una stretta al cuore e scomparvi nella notte.

Un numero indefinibile di ore più tardi, mi pentii amaramente della mia follia. Come spiegarla se non con quell'estasi del nord che si impadronisce dei sognatori? In condizioni normali, non mi comportavo da perfetto imbecille. Se stavolta lo avevo fatto, forse ero stato vittima di quelle mitologie boreali che colpiscono le anime sensibili non appena nevica. Bisognava riconoscere che i luoghi in cui passavo erano di stupefacente bellezza. Eppure non ero certo di essere pronto a morire in nome di un paesaggio, per quanto superbo.

Quando il sole si levò, verso le undici del mattino, ero già stanco morto. Avevo tre ore di luce davanti a me: pregavo le divinità nordiche di scorgere una traccia di vita umana prima del crepuscolo.

Ahimè, il sole tramontò senza che vedessi tracce umane in quelle contrade. Continuai a camminare nel buio. Mi sembrò di sentire, in lontananza, il galoppo di un cane, ma dovevano essere i battiti del mio cuore. La paura faceva le veci dell'energia.

Improvvisamente, all'orizzonte, scorsi un chiarore. Mi chiesi se non fosse frutto della mia immaginazione. Avvicinandomi, seppi di non aver sognato. Chiunque abbia camminato a lungo nella notte e abbia visto infine una luce sa quale emozione si prova. Urlai di gioia.

Errore: al mio grido solitario rispose il lontano abbaiare di un cane. Riconobbi il timbro e seppi che il mio commensale del giorno prima mi inseguiva.

Corsi verso il chiarore che si rivelò poco a poco quello di una finestra illuminata. In condizioni normali, sarei rimasto sconvolto dallo spettacolo di una casa sperduta. Il rumore del galoppo del cane nella neve non me ne lasciò il tempo.

Corsi al punto da sentire il cuore scoppiarmi. Una porta: se fosse stata chiusa a chiave, per me era la fine. Ormai sentivo il respiro della bestia, a una decina di metri.

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