Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo Né di Eva né di Adamo
EdizioneVoland, Roma, 2008, Amazzoni 45 , pag. 154, cop.fle., dim. 14,5x20,4x1,1 cm , Isbn 978-88-88700-98-4
OriginaleNi d'Eve ni d'Adam
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2007
TraduttoreMonica Capuani
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe narrativa francese , paesi: Giappone
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Pagina 7

Il mezzo più efficace per imparare il giapponese mi parve insegnare il francese. Lasciai un annuncio al supermercato: "Lezioni private di francese, prezzo interessante."

La sera stessa squillò il telefono. Prendemmo appuntamento per l'indomani, in un caffè di Omote-Sando. Io non capii come si chiamava lui, lui non capì come mi chiamavo io. Quando riattaccai, mi resi conto che non avevo idea di come lo avrei riconosciuto, e lui idem. E poiché non avevo avuto la presenza di spirito di chiedergli il numero di telefono, chissà come avremmo fatto. "Probabilmente mi richiamerà" pensai.

Non mi richiamò. Dalla voce mi era sembrato giovane. Elemento che non mi avrebbe aiutato granché. Non mancava certo la gioventù a Tokyo, nel 1989. Tanto più in quel caffè di Omote-Sando, il 26 gennaio, intorno alle tre del pomeriggio.

Non ero l'unica straniera, proprio per niente. Eppure, si diresse verso di me senza esitazioni.

– Lei è l'insegnante di francese?

– Come fa a saperlo?

Alzò le spalle. Molto rigido, si sedette e tacque. Mi resi conto che l'insegnante ero io e che toccava a me occuparmi di lui. Gli rivolsi alcune domande e appresi che aveva vent'anni, si chiamava Rinri e studiava il francese all'università. Lui apprese che io avevo ventun anni, mi chiamavo Amélie e studiavo il giapponese. Non capì di che nazionalità fossi. Ci ero abituata.

– A partire da questo momento, non si può più parlare inglese – dissi.

Conversai in francese per capire a che livello fosse: si rivelò disperante. La cosa più grave era la pronuncia: se non avessi saputo che Rinri stava parlando francese, avrei creduto di avere a che fare con un pessimo studente che cominciava a studiare il cinese. Il suo vocabolario languiva, la sua sintassi riproduceva male quella dell'inglese che tuttavia sembrava il suo assurdo referente. Eppure studiava francese da tre anni, all'università. Ebbi la conferma dell'assoluto disastro dell'insegnamento delle lingue in Giappone. A un tale livello, non si poteva neanche più parlare di insularità.

Il giovanotto probabilmente si rendeva conto della situazione perché non tardò a scusarsi, e poi a tacere. Io non riuscii ad accettare un simile smacco e cercai di nuovo di farlo parlare. Invano. Tenne la bocca chiusa come per nascondere una brutta dentatura. Eravamo a un punto morto.

Allora iniziai a parlargli in giapponese. Non lo avevo più praticato dall'età di cinque anni e i sei giorni appena trascorsi nel paese del Sol Levante, dopo sedici anni d'assenza, non erano bastati, proprio per niente, a riattivare i miei ricordi d'infanzia di quella lingua. Perciò mi produssi in uno sproloquio puerile senza capo né coda. C'erano dentro poliziotti, cani e ciliegi in fiore.

Il ragazzo mi ascoltò sbalordito e poi scoppiò a ridere. Mi chiese se il giapponese mi fosse stato insegnato da un bambino di cinque anni.

— Sì — risposi. — Quel bambino sono io.

E gli raccontai il mio percorso. Glielo narrai lentamente, in francese; in virtù di un'emozione speciale, sentii che mi capiva.

Lo avevo disinibito.

In un francese peggio che pessimo, mi disse che conosceva la regione in cui ero nata e in cui avevo vissuto i miei primi cinque anni: il Kansai.

Lui era originario di Tokyo, dove suo padre dirigeva un'importante scuola di oreficeria. Si fermò, esausto, e trangugiò il suo caffè in un sorso.

Le spiegazioni sembravano essergli costate quanto attraversare un fiume in piena utilizzando un guado di pietre a una distanza di cinque metri le une dalle altre. Mi divertii a guardarlo riprendere fiato dopo quell'impresa straordinaria.

Bisogna riconoscere che il francese è una lingua perversa. Non avrei voluto trovarmi nei panni del mio allievo. Imparare a parlare la mia lingua doveva essere difficile quanto imparare a scrivere la sua.

Gli chiesi cosa gli piacesse nella vita. Rifletté molto a lungo. Avrei voluto sapere se la sua era una riflessione di natura esistenziale o linguistica. Dopo una ricerca del genere, la risposta mi fece piombare nella perplessità:

– Giocare.

Impossibile determinare se l'ostacolo fosse lessicale o filosofico. Insistetti:

– Giocare a cosa?

Alzò le spalle.

– Giocare.

Il suo atteggiamento era sintomo di un distacco ammirevole, oppure di una pigrizia totale verso l'apprendimento della mia lingua colossale.

In entrambi i casi, mi sembrò che se la fosse cavata egregiamente e condivisi in pieno il suo parere. Dichiarai che aveva ragione, la vita era un gioco: chi credeva che giocare si limitasse a qualcosa di futile non aveva capito un bel niente, ecc.

Mi ascoltava come se gli stessi raccontando delle stramberie. Il vantaggio delle discussioni con gli stranieri è che si può sempre attribuire l'espressione più o meno costernata dell'altro alla differenza culturale.

Rinri mi chiese a sua volta cosa piacesse a me nella vita. Scandendo bene le sillabe, risposi che mi piaceva il rumore della pioggia, camminare in montagna, leggere, scrivere, ascoltare musica. Mi interruppe per dire:

— Giocare.

Perché lo ripeteva? Forse voleva consultarmi in proposito. Proseguii:

— Sì, mi piace giocare, soprattutto a carte.

Adesso, era lui a sembrare smarrito. Sulla pagina vergine di un quaderno, disegnai delle carte: asso, due, picche, quadri.

Mi fermò: sì, certo, le carte, le conosceva. Mi sentii straordinariamente stupida con la mia pedagogia da quattro soldi. Per recuperare, parlai d'altro: quali alimenti mangiava? Perentorio, rispose:

— Uoffffhhhh.

Credevo di conoscere la cucina giapponese, ma questa cosa non l'avevo mai sentita. Gli chiesi di spiegarmi. Sobriamente, ripeté:

— Uoffffhhhh.

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I miei progressi in giapponese mi meravigliavano, meno però di quelli di Rinri in francese, che erano folgoranti.

Giocavamo a sbalordirci l'un l'altra su questo terreno. Quando c'era un acquazzone, Rinri diceva:

– Viene giù come piscio di vacca.

Il che, con la sua voce sempre distinta, non mancava di comicità.

Quando lui diceva qualche stupidaggine, presi l'abitudine di esclamare:

– Nani ô shaimasu ka?

Che si traduce con – o piuttosto non si traduce, perché nessuno se non un giapponese impiegherebbe un giro di parole tanto aristocratico, al punto che neanche i giapponesi lo utilizzano più – "Cosa osa proferire così onorevolmente?"

Lui si sbellicava dalle risate. Una sera in cui i suoi genitori mi avevano invitato a cena nel loro castello di cemento, volli impressionarli. E quando Rinri disse qualcosa di interessante, esclamai in modo che mi sentissero:

– Nani ô shaimasu ka?

Passato lo stupore, Monsieur cominciò a ridere a crepapelle. I nonni, indignati, mi sgridarono, dicendo che non avevo il diritto di usare un espressione del genere. Madame attese che si fosse ristabilito il silenzio per dichiarare con un sorriso:

– Perché ti dai tanto da fare per apparire distinta, quando è evidente che con un viso così espressivo non sarai mai una signora?

Ebbi la conferma di quanto mi aveva già lasciato intravedere la sua educazione: quella donna mi odiava. Non solo le stavo rubando il figlio, ma ero pure straniera. Oltre a questi due crimini, sembrava subodorare in me qualcos'altro che le dispiaceva ancora di più.

– Se Rika fosse stata con noi, avrebbe avuto le lacrime agli occhi per le risate – disse Rinri che non si era accorto del colpo basso che mi aveva sferrato sua madre.


In passato, avevo imparato l'inglese, l'olandese, il tedesco e l'italiano. C'era una costante con quelle lingue vive: le capivo meglio di quanto non le parlassi. Era nell'ordine della logica: un comportamento si osserva, prima di adottarlo. L'intuizione linguistica funziona anche quando non si è ancora raggiunta una competenza.

In giapponese, era il contrario: la mia conoscenza attiva superava di gran lunga la mia conoscenza passiva. Questo fenomeno non è mai scomparso e non riesco a spiegarmelo. Mi sarà capitato mille volte di riuscire a esprimere in quella lingua idee così sofisticate che il mio interlocutore, credendo di avere a che fare con una docente in nipponologia, mi rispondeva con frasi alla stessa altezza. Non mi restava altra soluzione che la fuga per nascondere di non aver afferrato una parola della risposta. Quando battere in ritirata si dimostrava impossibile, potevo solo sforzarmi di immaginare cosa avrebbe potuto rispondere il mio interlocutore e così il monologo mascherato da dialogo continuava.

Ho esposto il fenomeno a dei linguisti, che mi hanno assicurato essere normale: "Non può avere un'intuizione linguistica in una lingua così lontana dalla sua." Dimenticano che fino all'età di cinque anni parlavo giapponese. E d'altronde, ho vissuto in Cina, in Bangladesh ecc. e là, come dappertutto, la mia conoscenza passiva della lingua praticata era superiore a quella attiva. Dunque nel mio caso c'è un'autentica eccezione giapponese che sono tentata di spiegare con il destino: si trattava di un paese in cui per me era impensabile la passività.


Quanto doveva accadere accadde: a giugno, Rinri mi annunciò con una faccia da funerale che la salsa alle prugne amare era finita.

– Al ritmo in cui l'abbiamo usata, non poteva essere altrimenti.

I suoi progressi in francese mi deliziavano. Risposi:

– Meglio così. Sognavo di andare a Hiroshima con te.

Da grave, il suo volto divenne terribile. Cercai una spiegazione storica e attaccai:

– Il mondo intero ha ammirato il coraggio con il quale Hiroshima e Nagasaki hanno sopportato...

– Non si tratta di questo – mi interruppe. – Ho letto quel libretto scritto da una francese, quello di cui mi avevi parlato...

– Hiroshima mon amour.

– Sì. Non ci ho capito niente.

Scoppiai a ridere.

– Non ti preoccupare. A molti francofoni è successa la stessa cosa. Ragione di più per andare a Hiroshima - inventai.

— Vuoi dire che se uno legge quel libro a Hiroshima, lo capisce?

– Sicuramente – proclamai.

– Che idiozia. Mica devo andare a Venezia per capire Morte a Venezia, o a Parma per leggere La Certosa di Parma.

– Marguerite Duras è un autore molto speciale – dissi, convinta della verità della mia affermazione.


Il sabato successivo, l'appuntamento fu fissato alle sette del mattino all'aeroporto di Haneda. Avrei preferito il treno ma per i giapponesi il treno è un'esperienza talmente quotidiana, che Rinri aveva bisogno di un cambiamento.

– E poi sorvolando Hiroshima avremo l'impressione di stare a bordo dell' Enola Gay – disse.

Era l'inizio del mese di giugno. A Tokyo, il tempo era ideale, bello, venticinque gradi. A Hiroshima, faceva cinque gradi in più e l'umidità della stagione delle piogge ristagnava nell'aria. Ma il sole ancora ci gratificava.

Già all'aeroporto di Hiroshima ebbi un'impressione molto netta: non eravamo nel 1989. Non sapevo più in che anno fossimo: certo non nel 1945, forse negli anni Cinquanta o Sessanta. Lo shock atomico aveva rallentato il corso del tempo? Non mancavano le costruzioni moderne, la gente era vestita normalmente, le macchine non erano diverse dalle altre in circolazione nel resto del Giappone. Era come se, qui, le persone vivessero in maniera più intensa che altrove. Abitare in una città con un nome che, per il pianeta intero, è simbolo di morte aveva esaltato in loro la fibra vivente; ne derivava una sensazione di ottimismo che riproduceva l'atmosfera di un'epoca in cui ancora si credeva nell'avvenire.

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– Domani ti porto in montagna – mi annunciò Rinri al telefono. Mettiti gli scarponi per camminare.

– Forse non è una buona idea – dissi.

– Perché? Non ti piace la montagna?

– Sono un'amante della montagna.

– Allora, è deciso – tagliò corto, indifferente ai miei paradossi.

Appena riagganciò, sentii salirmi la febbre: le montagne del mondo intero, tanto più quelle del Giappone, esercitano su di me una seduzione allarmante. Sapevo tuttavia che l'avventura non sarebbe stata scevra da rischi: superati i millecinquecento metri di altezza, mi trasformo in un'altra persona.

L'11 agosto, la Mercedes bianca mi aprì lo sportello.

– Dove andiamo?

– Vedrai.

Non sono mai stata portata per gli ideogrammi, ma ho sempre saputo leggere i nomi dei luoghi. Questo talento mi fu molto utile nel corso delle mie peregrinazioni nipponiche. Perciò, dopo un lunghissimo viaggio, i miei sospetti vennero confermati:

– Il monte Fuji!

Era il mio sogno. La tradizione afferma che ogni giapponese deve aver scalato il monte Fuji almeno una volta nella vita, altrimenti non merita una nazionalità così prestigiosa. Io, che desideravo ardentemente diventare giapponese, vedevo in questa ascesa un trucco geniale per acquistare quell'identità. Tanto più che la montagna era il mio territorio, il mio terreno.

Lasciammo la macchina in un gigantesco parcheggio situato su un piano di lava, al di là del quale nessun veicolo aveva diritto di circolare. L'affluenza di pullman mi colpì, testimoniava del bisogno che aveva tutta quella gente di accedere al titolo di giapponese autentico. Non era affatto una sciocchezza: si trattava di passare dal livello del mare a un'altezza di 3776 metri in meno di una giornata, perché solo alla base e in cima ci sono alberghi in cui si può pernottare. Ora, tra la folla stipata all'inizio di quella salita, c'erano vecchi, bambini, mamme con i neonati in braccio, avvistai perfino una donna incinta che sembrava all'ottavo mese di gravidanza. Vuoi o non vuoi, la nazionalità giapponese ha sempre una connotazione eroica.

Guardai in aria: era dunque questo, il monte Fuji. Alla fine avevo trovato un posto dal quale non appariva magnifico, per la semplice ragione che non si vedeva: la sua base. Altrimenti, quel vulcano è un'invenzione sublime, ed è visibile quasi ovunque, al punto che talvolta l'ho scambiato per un ologramma. Non si conta più il numero di siti sull'isola di Honshu dai quali si ha una vista superba del monte Fuji: sarebbe più facile contare i luoghi dai quali non si vede. Se i nazionalisti avessero voluto creare un simbolo unificante, avrebbero inventato il monte Fuji. Impossibile contemplarlo senza avvertire un sacro friccicore mitico: è troppo bello, troppo perfetto, troppo ideale.

Tranne ai suoi piedi: da lì somigliava a una montagna qualunque, una specie di protuberanza informe.

Rinri aveva il suo equipaggiamento: stivaletti da alpinismo, una tuta per esplorare le stelle, una piccozza. Guardò con commiserazione le mie scarpe da ginnastica e i miei jeans e si astenne da ogni commento, forse per non mettere il dito nella piaga.

– Andiamo? – disse.

Io non aspettavo che questo e lasciai libere le gambe che subito si imbizzarrirono. Era mezzogiorno, sotto il sole e nella mia testa. Salivo, felice di dover salire tanto. I primi millecinquecento metri furono i più difficili: il terreno era costituito solo di lava molle dove i piedi affondavano. Ma come dice il proverbio, volere è potere. E noi volevamo tutti. La vista dei vecchietti che salivano in fila indiana imponeva rispetto.

Dai millecinquecento metri in su, diventò vera montagna, con pietre e terra meravigliosamente dura, inframmezzata da zone di pietrisco nero. Avevo raggiunto l'altezza in cui muto specie. Aspettai Rinri che era a soli duecento metri da me e gli diedi appuntamento in vetta.

Più tardi, mi disse:

– Non ho proprio capito cosa sia successo. Sei scomparsa.

Aveva ragione. Oltre i millecinquecento metri, scompaio. Il mio corpo si trasforma in pura energia, il tempo di chiedersi dove sono finita e le mie gambe mi hanno già trasportato così lontano da farmi diventare invisibile. Altri hanno questa proprietà, ma non conosco nessuno per cui sia una qualità tanto insospettabile, visto che né da vicino né da lontano somiglio a Zarathustra.

Eppure, è proprio quello che divento. Una forza sovrumana si impadronisce di me e ascendo in linea retta verso il sole. La mia testa risuona di inni non olimpici, ma olimpiani. Ercole sembra un mio cuginetto emaciato. Per parlare solo del ramo greco della famiglia. Perché noi mazdeani siamo tutta un'altra cosa.

Se sei Zarathustra, hai piedi divini che mangiano la montagna trasformandola in cielo e, contemporaneamente, al posto delle ginocchia hai catapulte con il resto del corpo come proiettile. Al posto del ventre hai un tamburo di guerra e al posto del cuore la percussione del trionfo, hai la testa abitata da una gioia tanto terrificante che necessita di una forza sovrumana per sopportarla, possiedi tutti i poteri del mondo per l'unico motivo che li hai avocati a te e puoi contenerli nel tuo sangue, e non tocchi più terra causa il dialogo ravvicinato col sole.

Il destino, noto per il suo senso dell'umorismo, ha voluto che nascessi belga. Essere originaria del paese piatto quando appartieni alla stirpe zoroastriana è uno sberleffo che ti condanna a diventare una spia doppiogiochista.

Superai orde di giapponesi. Alcuni alzavano il naso da terra per guardare quel bolide. I vecchi dicevano: "Wakaimono" (giovane cosa) a mo' di spiegazione. I giovani invece non trovavano niente da dire.

Quando ebbi superato tutta la gente in marcia, mi accorsi di non essere sola. C'era un altro Zarathustra tra gli arrampicatori del giorno e ci teneva moltissimo a conoscermi: era un GI americano di stanza a Okinawa, era venuto tanto per vedere.

– Ero quasi convinto di essere anormale, – mi disse – ma tu sei una ragazza e sali come me.

Non volli spiegargli che gli zoroastriani esistevano dall'inizio dei secoli. Non meritava di appartenere a quel lignaggio: era linguacciuto e indifferente al sacro. Nessuna famiglia è immune a questo tipo di tara ereditaria.

Il paesaggio stava diventando sublime, e tentai di aprire gli occhi al mio cuginetto americano su quello splendore. Si accontentò di dire:

– Yeah, great country.

Immaginai che avrebbe espresso identico entusiasmo per un piatto di pancake.

Decisi di sbarazzarmi di lui passando a una velocità superiore. Ahimè, mi si attaccò alle calcagna, ripetendo:

— That's a girl!

Era simpatico, cioè per niente zoroastriano. Sognavo di ritrovare la mia solitudine per accedere al genere di stati d'animo mazdeo-wagnero-nietzschiani in sintonia con la situazione. Impossibile, col mio GI che parlava ininterrottamente e mi chiedeva se il Belgio non fosse il paese dei tulipani. Non ho mai maledetto tanto la presenza militare americana a Okinawa.

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