Autore Silvina Ocampo
Titolo Autobiografia di Irene
EdizioneSellerio, Palermo, 2000, La memoria 482 , pag. 154, cop.fle., dim. 12x16,7x1 cm , Isbn 978-88-389-1548-2
OriginaleAutobiografía de Irene [1948]
TraduttoreAngelo Morino
LettoreFlo Bertelli, 2014
Classe narrativa argentina












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Epitaffio romano                          9

La rete                                  18

L'impostore                              30

Frammenti del libro invisibile          114

Autobiografia di Irene                  128


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 18

La rete



La mia amica Kêng-Su mi diceva:

— Alla finestra della locanda brillava quella luce diafana che talvolta e fuggevolmente anticipa, in dicembre, il mese di marzo. Senti come me la presenza del mare: si estende, penetra in tutti gli oggetti, nelle fronde, nei tronchi degli alberi di tutti i giardini, nei nostri visi e nei nostri capelli. Quella sonorità, quella freschezza che c'è solo nelle grotte, due mesi fa entrò nella mia stanza luminosa, portando fra le sue pieghe azzurre e verdi qualcosa di più, oltre all'aria e allo spettacolo quotidiano delle piante e del firmamento. Portò una farfalla gialla con nervature arancioni e nere. La farfalla si posò sul fiore di un vaso: riflessa nello specchio aggiungeva petali al fiore su cui apriva e chiudeva le ali.

Mi avvicinai cercando di non proiettare un'ombra su di lei: i lepidotteri temono le ombre. Fuggì dall'ombra della mia mano per posarsi sulla cornice dello specchio. Mi avvicinai di nuovo e riuscii a imprigionare le sue ali fra le mie dita delicate. Pensai: Dovrei liberarla. Non è un fiore, non posso metterla in un vaso, non posso darle acqua, non posso conservarla tra le pagine di un libro, come una viola. Pensai: Non è un uccello, non posso rinchiuderla in una gabbia di vimini con una vaschetta e una tazzina smaltata, piena di miglio.

«Sul tavolo», continuò, «fra i miei pettini e le mie forcine, c'era uno spillo d'oro con una turchese. Lo presi e trafissi con difficoltà il corpo resistente della farfalla; adesso, quando ricordo quel momento, rabbrividisco come se avessi udito una vocina lamentarsi dentro il corpo scuro dell'insetto. Poi conficcai lo spillo con la sua preda sul coperchio di una scatola di saponette, dove tengo la lima, le forbici e lo smalto per le unghie. La farfalla apriva e chiudeva le ali, come seguendo il ritmo del mio respiro. Sulle dita mi rimase una polvere iridata e soave. La lasciai nella mia stanza mentre tentava ancora il suo immobile volo di agonia.


«La sera, quando tornai, la farfalla era volata via portandosi appresso lo spillo. La cercai nel parco davanti all'albergo, sulle margherite e sulle ginestre, sui fiori dei tigli, sull'erba, su un mucchio di foglie cadute. La cercai invano.

«Nei miei sogni provai rimorsi. Mi dicevo: Perché non l'ho rinchiusa dentro una scatola? Perché non l'ho coperta con un bicchiere di vetro? Perché non l'ho trafitta con uno spillo più grosso e più pesante?».

Kêng-Su rimase per un istante in silenzio. Eravamo sedute sulla sabbia, sotto il tendone. Ascoltavamo il rumore delle onde tranquille. Erano le sette di sera e faceva un caldo insolito.

— Per molti giorni non sono venuta alla spiaggia, - proseguì Kêng-Su annodandosi i capelli neri; — dovevo finir di ricamare un arazzo per Miss Eldington, la padrona della locanda. Sai com'è esigente. Inoltre avevo bisogno di denaro per pagare le mie spese.

«Durante molti giorni accaddero cose strane nella mia stanza. Forse le ho sognate.


«La mia biblioteca è composta di quattro o cinque libri che porto sempre con me in villeggiatura. La lettura non è uno dei miei svaghi preferiti, ma mia madre mi consigliava sempre, affinché i miei sogni fossero piacevoli, la lettura di questi libri: Il libro di Mencio, La festa delle lanterne, Hoeï-Lan-Ki (Storia del cerchio di gesso) e Il libro delle ricompense e dei castighi.

«Più volte trovai l'ultimo di questi libri aperto sul mio tavolo, con alcuni brani segnati da piccoli puntini che sembravano fatti con uno spillo. Poi, senza volere, io ripetevo a memoria questi brani. Non riesco a dimenticarli».

— Kêng-Su, ripetili, per favore. Non conosco quei libri e mi piacerebbe ascoltare quelle parole dalle tue labbra.

Kêng-Su impallidì lievemente e giocando con la sabbia mi disse:

— Non ho nulla in contrario. A ogni giorno corrispondeva un brano. Era sufficiente che io uscissi per un momento dalla mia stanza, e trovavo il libro aperto e la frase segnata con gli inspiegabili puntini. La prima frase che lessi fu la seguente:

«"Se desideriamo sinceramente accumulare virtù e tesoreggiare meriti, dobbiamo amare non solo gli uomini, ma anche gli animali, uccelli, pesci, insetti, e in genere tutte le creature diverse dagli uomini, che volano, corrono e si muovono".

«Il giorno dopo lessi:

«"Per piccoli che siamo, ci anima lo stesso principio di vita: siamo tutti radicati nell'esistenza e temiamo la morte allo stesso modo".

«Riposi il libro nell'armadio, ma il giorno dopo lo trovai sul mio letto, con questo brano segnato:

«"Camminando, in piedi, seduta o coricata, se vedi un insetto morente cerca di liberarlo e di salvargli la vita. Se lo uccidi, con le tue stesse mani, non sai quale sorte ti aspetta!...".

«Nascosi il libro nel cassetto del comò, che chiusi a chiave; il giorno dopo il libro stava sopra il comò, con questo brano sottolineato:

«"Un giorno Song-Kiao, che visse sotto la dinastia dei Song, costruì un ponte con piccole canne affinché alcune formiche potessero attraversare un ruscello, e ottenne il primo grado di Choang-Youen (primo dottore fra i dottori). Kêng-Su, che cosa otterrai per il tuo oscuro delitto?...".

«Il giorno del mio compleanno, alle due del mattino, credetti di impazzire mentre leggevo:

«"Chi riceve un castigo ingiusto conserva nell'anima un rancore".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 30

L'impostore



Faceva un caldo soffocante. Alle quattro arrivai alla stazione di Constitución. I libri infilati fra le cinghie della valigia, e la valigia, pesavano molto. Mi fermai a mangiare il resto di un gelato alla fragola accanto a uno dei leoni di pietra che sorvegliano la scalinata dell'ingresso. Salii su per la scalinata. Mancavano venti minuti alla partenza del treno. Feci un giro per la stazione, curiosai nelle vetrine dei negozi. Attrasse la mia attenzione, nella libreria, una matita Eversharp, che costava poco: la comprai; comprai pure una boccetta di brillantina. Non uso la brillantina, ma pensai che in campagna, nei giorni di vento, avrei potuto averne bisogno. Nei riflessi di una vetrina vidi, come un obbrobrio, i miei capelli ricci. Reminiscenze vaghe delle prime sofferenze a scuola mi tornarono alla memoria.

Avevo dimenticato qualcosa, qualcosa di importante. Mi guardai il polso, per assicurarmi di avere l'orologio; guardai il fazzoletto che avevo in tasca, la sciarpa di lana scozzese strizzata fra le cinghie della valigia. Avevo dimenticato le pillole di bromuro. Prima e dopo gli esami soffro spesso di insonnia, ma forse l'aria, il sole della campagna, come aveva detto mia madre al momento di salutarmi, avrebbero agito sui miei nervi meglio di un sedativo. Lei non approvava che un ragazzo della mia età prendesse medicine. Tuttavia, io avevo dimenticato qualcosa, qualcosa di più importante delle pillole di bromuro. Avevo dimenticato il mio libro di algebra; lo rimpiansi mentre guardavo dal marciapiede il cerchio dell'orologio (la sua perfetta rotondità mi ricordava i più bei teoremi). Lo rimpiansi, perché l'algebra era la mia materia prediletta.

Quando salii sul treno, gli inservienti non avevano ancora finito di sistemare i sedili. Alzavano strepitosamente i finestrini, con lunghi piumini sollevavano nuvole di polvere e di mosche. Il vagone era pregno di odori, di calori consecutivi. La luce ardente del giorno posava il suo chiarore celeste sui vetri, sulle maniglie di metallo, sui ventilatori immobili, sui sedili di pelle.

Nello scompartimento che avevo scelto si sedettero, qualche minuto dopo, una donna e una ragazza molto giovane. Avevano un canestro e un mazzo di fiori avvolto in un foglio di giornale. Presi uno dei miei libri e finsi di leggere, ma osservavo le mie vicine, che, dopo aver messo a posto i fiori ed essersi sedute, con laboriosi movimenti aprirono la cesta e scartarono un pacchetto di biscotti. Mentre mangiavano, parlavano a voce bassa; sicuramente parlavano di me, perché la ragazza, che non era sgradevole come avevo pensato in un primo momento, mi guardava di sottecchi, con un movimento impercettibile, interrogativo, dei sopraccigli.

La signora, chinandosi verso di me e offrendomi un biscotto, mi disse confidenzialmente:

— Sono col dolce di latte. Se non mi sbaglio, lei è il figlio di Jorge Maidana.

Esitando, accettai il biscotto. La signora non aspettò la mia risposta:

— Siamo stati come fratelli -. Pulendosi le labbra con una salvietta di carta, proseguì: — Il tempo, le circostanze, non sempre favorevoli, talvolta separano gli amici di gioventù. Lei era molto piccolo; non si ricorderà di quei giorni a Tandil, quando ci riunivamo per le feste di Carnevale e di Pasqua.

In un labirinto di ricordi vidi l'albergo di Tandil, dipinto di verde, i numerosi tavolini sulla veranda, le altalene, le pietre gigantesche del giardino, le ombre, il sole infinito dello spazio, che si mescolavano a quegli indelebili odori di incenso e di malinconici gelsomini: in quell'eden confuso, una signora vestita con un chimono coperto di rampicanti mi aveva iniziato alla proibita ascensione di certe montagne.

Annuii col capo.

— Che bei ricordi! — proseguì la signora. — Io ero fidanzata. Sua madre mi accompagnava di sera alla sfilata dei carri. Nel pomeriggio, come due farfalle, giocavamo a tennis. Facevamo le Sette Chiese e la Via Crucis insieme.

La ragazza mi guardava. La signora sospirò lievemente, fece sventolare un fazzoletto, si asciugò la fronte e, come volendo cambiare argomento, domandò:

— Amante della lettura? L'ho sempre detto: nei viaggi non è mai di troppo portare un libro. Va molto lontano?

— A Cacharí, — risposi senza entusiasmo.

— Il mio paese! Cacharí, Cacharí, Cacharí.

La guardai con stupore. Lei continuò:

— Non conosce la leggenda? Cacharí era un temibile capo indiano. I soldati lo uccisero vicino al villaggio, un secolo fa. Cadde ferito e per tre notti e tre giorni gridò: «Cacharí, Cacharí, Cacharí. Cacharí è qui». Nessuno osò avvicinarsi al luogo dove l'indiano agonizzava. Dicono che ancora oggi quando soffia il vento, a mezzanotte, d'inverno, si sente il grido di Cacharí. Va a passare le vacanze? Tutto solo? Sarò curiosa: dove?

— Alla tenuta «I Cigni».

— Ma non l'hanno data in affitto, la campagna? Chi c'è lì?

— Armando Heredia, — risposi con impazienza.

La signora mugolò più volte il nome e infine indagò:

— Armando Heredia, il vecchio?

— Ha diciotto anni, — risposi, guardando dal finestrino.

— Ha già diciotto anni?

La guardai con odio: prima mi domandava se era Armando Heredia il vecchio, poi (per prolungare vanamente il dialogo) si stupiva che avesse già diciotto anni.

— Come passa il tempo! — sospirò di nuovo la signora lisciando con leggeri tocchi le pieghe del bavero bianco, di mussolina, sulla protuberanza del suo petto. — È una tenuta triste «I Cigni». L'edificio è abbandonato e ci sono più pipistrelli che mobili. Ma è naturale, un ragazzo della sua età non si lascia spaventare da queste cose. È inutile, io dico sempre che le amicizie rimangono, nelle famiglie. I genitori si separano, ma i figli di quegli stessi genitori si riuniscono. Armando Heredia è un suo compagno?

— Non lo conosco.

— Non lo conosce! Dicono che quel ragazzo sia mezzo matto. Raccontano che ha accecato un cavallo perché non gli obbediva: l'ha legato a un palo, gli ha impastoiato le zampe, e gli ha bruciato gli occhi con sigarette turche. Ma non bisogna dar retta alle chiacchiere.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 140

Penso che nessuno avrà faticato tanto a riconoscere le minacce dell'amore. Oh abbagliati pianti della mia adolescenza! Solo adesso posso ricordare il tenue e penetrante profumo delle rose che Gabriel, guardandomi negli occhi, mi offriva all'uscita dalla scuola. Quella prescienza sarebbe durata tutta una vita. Invano cercai di ritardare il mio incontro con Gabriel. Prevedevo già la separazione, l'assenza, l'oblio. Invano cercai di evitare le ore, i sentieri, i luoghi propizi all'incontro. Quella prescienza sarebbe potuta durare tutta una vita. Ma il destino mise nelle mie mani le rose e, davanti ai miei occhi, senza stupore, il vero Gabriel. Inutili furono le mie lacrime. Inutilmente copiai le rose sulla carta, scrissi nomi, date sui petali: una rosa potrà essere perpetuamente invisibile in un roseto, davanti alla nostra finestra, o in una mano innamorata che ce la offre; solo il ricordo la conserverà intatta, col suo profumo, il suo colore e la devozione delle mani che ce l'hanno offerta.

Gabriel giocava con i miei fratelli, ma quando io apparivo con un libro o con la mia borsa da cucito e mi sedevo su una seggiola del cortile, interrompeva i suoi giochi per offrirmi l'omaggio del suo silenzio. Pochi ragazzini sono stati così sagaci. Con petali di fiori, con foglie, costruiva piccoli aeroplani. Cacciava lucciole e pipistrelli; li ammaestrava. A forza di osservare i movimenti delle mie mani aveva imparato a fare lavori di cucito. Ricamava senza arrossire; gli architetti progettano case; lui, quando ricamava, progettava giardini. Mi amava: di notte, nel cortile buio della mia casa, sentivo crescere, con la naturalezza di una pianta, il suo amore involontario.

Ah, come sperai di penetrare, senza saperlo, nel claustrale ricordo di quei momenti! Con quale desiderio, senza saperlo, aspettai la morte, unica depositaria dei miei ricordi. Una fragranza ipnotica, un mormorio di eterne foglie, sugli alberi, sopraggiunge per guidarmi lungo i sentieri così dimenticati di quell'amore. Talvolta un evento che mi sembrava labirintico, lento a svolgersi, quasi infinito, si racchiude in due parole. Il mio nome, scritto in inchiostro verde o con uno spillo, sul suo braccio, che occupò sei mesi della mia vita, occupa adesso una sola frase. Che cos'è essere innamorati? Per anni lo domandai alla maestra di pianoforte e alle mie amiche. Che cos'è essere innamorati? Ricordare, nella complicazione di altri spazi, una parola, uno sguardo; moltiplicarli, dividerli, trasformarli (come se ci dispiacessero), confrontarli, senza tregua. Che cos'è un viso amato? Un viso che non è mai lo stesso, un viso che si trasforma infinitamente, un viso che ci delude...

Silenzio di chiostri e di rose c'era nel nostro cuore. Nessuno riuscì a indovinare il mistero che ci univa. Né quelle matite a colori, né le caramelle gommose, né i fiori che mi regalò, ci tradirono. Incideva il mio nome sui tronchi degli alberi, col temperino, e se era in castigo lo scriveva col gesso, sul muro.

— Quando morirò le regalerò ogni giorno dei cioccolatini e scriverò il suo nome su tutti i tronchi degli alberi del cielo, — mi disse un giorno.

— Come fai a sapere che andremo in cielo? — gli risposi. — Come fai a sapere che in cielo ci sono alberi e temperini? Credi che Dio ti permetterà di ricordarmi? Credi che in cielo tu ti chiamerai Gabriel e io Irene? Che avremo lo stesso viso e ci riconosceremo?

— Avremo lo stesso viso. E anche se non lo avessimo, ci riconosceremo ugualmente. Quel giorno di Carnevale, quando lei si è travestita da stella e parlava con una voce di ghiaccio, l'ho riconosciuta. Poi, a occhi chiusi, l'ho vista molte volte.

— Mi hai vista quando non c'ero. Mi hai vista nella tua immaginazione.

— L'ho vista quando giocavamo ai feriti. Quando io ero il ferito e mi bendavano gli occhi, indovinavo il suo arrivo.

— Perché io ero l'infermiera, e dovevo arrivare. Vedevi da sotto la benda: facevi imbrogli. Sei sempre stato un imbroglione.

— Senza imbrogli la riconoscerei in cielo. Mascherata la riconoscerei, con gli occhi bendati la vedrei arrivare.

— Allora credi che non ci saranno differenze tra questo mondo e il cielo?

— Ci mancherà tutto quello che qui ci disturba: parte della famiglia, l'ora di andar a dormire, certi castighi e i momenti in cui non la vedo.


— Forse l'inferno è meglio del cielo, — mi disse un altro giorno, — perché l'inferno è più pericoloso e mi piace soffrire per lei. Vivere in mezzo alle fiamme, per colpa sua, salvarla continuamente dai diavoli e dal fuoco, sarebbe per me una gioia.

— Ma vuoi morire in peccato mortale?

— Perché mortale e non immortale? Nessuno dimentica mio zio: aveva commesso un peccato mortale e non gli avevano dato l'estrema unzione. Mia madre mi ha detto: «È un eroe; non ascoltare i commenti della gente».


— Perché pensi alla morte? Di solito i giovani evitano queste conversazioni tristi e ingrate, — protestai un giorno. — Sembri un vecchio in questo momento. Guardati allo specchio.

Non c'era alcuno specchio lì vicino. Si guardò nei miei occhi.

— Non sembro un vecchio. I vecchi si pettinano in un altro modo. Ma sono già grande, e conosco la morte, — mi rispose. — La morte assomiglia all'assenza.

| << |  <  |