Autore Silvina Ocampo
Titolo La promessa
EdizioneLa Nuova frontiera, Roma, 2013, il Basilisco , pag. 144, cop.fle., dim. 14x21x1 cm , Isbn 978-88-8373-243-0
OriginaleLa promesa [2011]
TraduttoreFrancesca Lazzarato
LettoreFlo Bertelli, 2014
Classe narrativa argentina












 

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Pagina 13

Sono analfabeta. Come potrei pubblicare il mio testo! Quale casa editrice lo accetterebbe! Mi pare impossibile, a meno che non accada un miracolo. Credo nei miracoli.

"Ti voglio bene e prometto che sarò buona", dicevo sempre per commuoverla quando le chiedevo un favore, nella mia infanzia e molto tempo dopo, finché ho saputo che era "l'avvocata dell'impossibile". C'è chi non capisce che si possa parlare a una santa come a una persona qualsiasi. Se conoscessero tutte le mie preghiere, direbbero che sono blasfemie e che non sono devota a santa Rita.

Di solito statue e statuette la rappresentano con un libro di legno, misterioso, nella mano che tiene sul cuore. Non ho dimenticato questo particolare del suo atteggiamento quando le ho promesso, se mi avesse salvato, di scrivere un libro e di finirlo per il giorno del mio prossimo compleanno. A quella data manca quasi un anno. La cosa ha cominciato a preoccuparmi. Pensavo che mantenere la promessa mi sarebbe costato un grave sacrificio. Mi sembrava che compilare questo dizionario di ricordi a volte vergognosi, umilianti, significasse consegnare la mia intimità a chiunque. (Una preoccupazione che, in fin dei conti, si è rivelata senza fondamento).

Non ho una vita mia, ho dei sentimenti. Le mie esperienze non hanno avuto importanza nel corso della vita e neppure sull'orlo della morte, invece la vita degli altri diventa mia.

Battere a macchina queste pagine, visto che non ho denaro per pagare la copiatura a una dattilografa, richiederebbe un lavoro improbo (non ho amiche disinteressate che siano capaci di farlo). Presentare il manoscritto agli editori, a un qualunque editore del mondo, che magari mi rifiuterebbe la pubblicazione, a meno che non la pagassi grazie alla vendita di oggetti a cui tengo o a qualche lavoro subalterno, l'unico di cui sarei capace, significherebbe rinunciare al mio amor proprio.

Come sono lontani i giorni felici in cui, sulle amache e sullo scivolo del parco di Palermo, mangiavo con i miei nipoti brioche e toffee al cioccolato bianco; tempi in cui mi sentivo sventurata e che ora mi sembrano felici, quando i miei nipotini si sporcavano le mani a tal punto, giocando con la terra, che una volta tornati a casa di mia sorella, invece di farmi il bagno o di andare al cinema, dovevo pulirgli le unghie col sapone Carpincho, neanche fossero stati in Questura per farsi prendere le fatidiche impronte digitali.

Proprio io, da sempre convinta dell'inutilità di scrivere un libro, oggi mi ritrovo impegnata a farlo per mantenere una promessa che considero sacra.

Mi sono imbarcata per Città del Capo tre mesi fa, sul piroscafo Anacreonte, per riunirmi alla parte meno noiosa della mia famiglia: un console e sua moglie, cugini che mi hanno sempre protetto. Tutto quello che si aspetta con troppa ansia, si realizza malamente o non si realizza affatto. Ammalata, sono dovuta tornare indietro subito dopo l'arrivo, per colpa di un incidente che mi è capitato durante il viaggio di andata. Sono caduta in mare. Sono scivolata giù dal ponte di coperta, nel punto in cui si trovano le scialuppe di salvataggio, mentre mi chinavo sul parapetto per recuperare una spilla che mi era caduta e penzolava dalla mia sciarpa. Com'è successo? Non lo so. Nessuno mi ha visto cadere. Forse ho avuto un mancamento. Mi sono svegliata in acqua, stordita dal colpo. Non ricordavo neppure il mio nome. La nave si allontanava imperturbabile. Ho gridato. Nessuno mi ha sentito. La nave mi sembrava più immensa del mare. Per fortuna sono una buona nuotatrice, anche se il mio stile lascia a desiderare. Dopo il primo istante di freddo e di terrore, ho cominciato a muovermi lentamente nell'acqua. Il caldo, il mezzogiorno, la luce mi accompagnavano. Stavo quasi per dimenticare la mia situazione angosciosa perché amo lo sport, e nuotando ho sperimentato tutti gli stili. Allo stesso tempo, pensavo ai pericoli che l'acqua aveva in serbo: gli squali, i serpenti di mare, le correnti, le trombe marine. È stato il dondolio delle onde a tranquillizzarmi. Ho nuotato e fatto il morto per otto ore consecutive, nella speranza che la nave tornasse a cercarmi. A volte mi chiedo come ho potuto nutrire una simile speranza. Non lo so nemmeno io. All'inizio la paura che provavo mi impediva di pensare, poi ho pensato disordinatamente: nella mia memoria sfilavano maestre, tagliatelle, film, prezzi, spettacoli teatrali, nomi di scrittori, titoli di libri, edifici, giardini, un gatto, un amore infelice, una poltrona, un fiore di cui non ricordavo il nome, un profumo, un dentifricio, eccetera. Memoria, quanto mi hai fatto soffrire! Nel caos dei ricordi, mi veniva il sospetto di essere moribonda o già morta. Poi mi sono resa conto, sentendo un acuto bruciore agli occhi per via dell'acqua salata, che ero viva e lontana dall'agonia, dato che gli annegati, è risaputo, in punto di morte sono felici, e io non lo ero. Dopo essermi svestita, o dopo che lo aveva fatto il mare, perché il mare sveste le persone come se avesse mani innamorate, è arrivato un momento in cui il sonno o la voglia di dormire si sono impadroniti di me. Per non addormentarmi, ho imposto un ordine ai miei pensieri, una specie di itinerario che ora consiglio di seguire anche ai prigionieri, ai malati che non possono muoversi o ai disperati che stanno per suicidarsi.

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Pagina 114

Gabriela

Ricordo molti bambini, ma nessuno come Gabriela. Pallida, con il viso del colore dei capelli, richiamava l'attenzione per la serietà del suo sguardo.

L'unico vantaggio dell'essere bambino è quello di possedere un tempo a doppia ampiezza, come le stoffe da tappezzeria. Il tempo, che non bastava mai, per Gabriela era sconfinato come un deserto. Appena aveva un momento libero, e ne aveva molti, entrava nel Giardino Zoologico. Le interessavano gli animali perché si comportavano in modo naturale: se avevano fame mangiavano in continuazione, se avevano sete bevevano fino a scoppiare, se erano in calore si accoppiavano disperatamente, se avevano sonno dormivano a qualunque ora, se erano furiosi mordevano o graffiavano o uccidevano il nemico. È anche vero che morivano e che morire è ridicolo, ma erano così belli, così perfetti. (Gabriela non avrebbe mai dimenticato la morte del suo nonno paterno, una morte finta). A volte dava agli animali biscotti o cioccolatini che le avevano regalato. A volte metteva le mani tra le sbarre per accarezzarli. Che cosa potevano farle un giaguaro, un lupo, una iena, una tigre? Era dalla parte degli animali. Portava sempre con sé un quadernetto dove, dopo averli osservati a lungo, li disegnava e scriveva con cura il nome di ciascuno sotto il disegno, contrassegnando con una stella i preferiti e con una croce quelli che le piacevano di meno. Questi ultimi, secondo lei, in genere assomigliavano ad alcune persone. Ecco la lista di quadrupedi, di uccelli che aveva annotato nel suo quaderno, copiando i nomi:

- Zebù, toro sacro dell'India. Bos Indicus. Grigio: signor Arévalo.

- Pecora della Somalia: testa nera, corpo bianco: mia nonna.

- Scimmia titì: ciuffo nero: dottor Ernesto.

- Pecari dal collare. La Tunga.

- Orso con gli occhiali: venditore di sigarette e caramelle.

- Orso della Siria: bottegaio.

- Beccaccia di mare bianca: becco lungo gialloarancio: signora Arévalo.

- Fagiano argentato: la mia maestra.

- Fagiano Lady Amherst: la defunta Leonor.

- Gru crestata: Bruco.

- Airone tigrato: le sarte amiche di mamma.

- Gufo cornuto: Papero.

- Gru del paradiso: Veronica.


Se gli animali avessero parlato, probabilmente avrebbero pronunciato le stesse frasi dei loro equivalenti umani. Gabriela sognava quegli animali, a volte la salvavano da grandi pericoli in un mare immenso dove stava affogando o in un bosco dove altri animali la inseguivano, o nella sua casa durante un incendio che spesso la accecava. Si svegliava gridando e tirandosi su, a volte si alzava nell'oscurità e usciva in cortile, quando sua madre non c'era, presa da un'angoscia inesplicabile. Queste inquietudini notturne di Gabriela preoccupavano Irene. La sera, dopo i pasti quasi sempre frugali, le preparava tazze di tiglio o di camomilla per calmarle í nervi. Ma il tiglio e la camomilla agivano come un eccitante sull'organismo di Gabriela. Cominciò a soffrire di insonnia e questa insonnia la induceva a contorcersi nel letto come un verme. Se Irene usciva di sera, quando tornava a casa si spaventava invariabilmente appena aperta la porta, credendo che Gabriela fosse scappata. Un mucchio di vestiti la copriva, le lenzuola non erano al loro posto, il cuscino era per terra. Per qualche minuto Irene ispezionava la stanza con ansia: non riusciva ad abituarsi a quella figlia che la aspettava soffrendo, forse, come soffrono a volte i bambini che non sanno dove siano i genitori, e li aspettano pensando di averli persi per sempre e che verranno lasciati in balìa di un mondo crudele ed estraneo. Di notte Gabriela era una bambina sensibile, apprensiva, angosciata; di giorno Gabriela era una bambina allegra, a tratti spensierata, curiosa, indipendente. Si sarebbe detto che le due bambine non fossero la stessa persona.

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Pagina 127

Remigio Luna

Remigio Luna, bambino terribile ma precoce, mi parlava come un uomo in riva al mare.

«La aspetto stasera sulla spiaggia. A che ora?»

Vorrei essere in riva al mare. Perché non sono un anfibio? Mi succedeva lo stesso quando ero a letto malata: vorrei essere a letto, esclamavo mentalmente.

«Non so» gli rispondevo.

«La aspetterò comunque. Mi porterà quello che mi ha promesso?»

Gli avevo promesso una barchetta. Remigio era magrolino e nervoso. Aveva gli occhi verdi e un po' tristi. Capelli folti che gli ricadevano sugli occhi, lineamenti asimmetrici. Era intelligente, sensibile. Con lui potevo parlare come con un adulto, e con più allegria. Aveva otto anni, disegnava.

L'amore è uno solo, come le bambole russe che ne contengono altre, simili tra loro senza essere identiche, e che tuttavia sono una sola. Alcuni uomini sono felici perché non hanno famiglia, altri perché ce l'hanno. Alcuni uomini sono sfortunati perché hanno famiglia, altri perché non ce l'hanno. Remigio non aveva famiglia. La sua famiglia ero io. Un giorno tentò di violentarmi.

In fondo al mare voglio scoprire il senso della vita, prima di morire.


Gilberta Valle

Gilberta Valle aveva ottant'anni, più altri due che non confessava. Il suo viso era un roseo uccello marino dal lungo becco. Piccola e delicata, si faceva notare per la sua agilità. Viveva nel paese dove facevamo la spesa e qualche incursione dal parrucchiere, durante la stagione estiva. Un giorno Graziano Puco le fece la permanente: lei che non andava mai dal parrucchiere si tolse il capriccio di farsela, oltre a quello di dipingersi per la prima volta le guance e la bocca con labbra supplementari, il che richiamò ancora di più l'attenzione di Graziano.

«Come sta bene, signorina Gilberta Valle!» esclamò il parrucchiere, vedendola con i capelli arricciati. «Deve andare a una festa?»

«Parto per un viaggio.»

Gilberta Valle aveva venduto tutto quello che aveva, per andarsene. La straccivendola Leonarda Cianculli la riceveva tutti i giorni in casa sua. Leonarda, vestita di nero, sembrava una suora. I suoi occhi verdi scintillavano dolcemente. L'avevo conosciuta in farmacia. Era sempre incinta. Grazie a lettere e fotografie che arrivavano e partivano da e per Bahia Blanca, aveva messo in contatto Gilberta Valle con un pensionato che voleva sposarsi. Gilberta aveva venduto tutto quello che aveva. Il giorno della partenza si fece mettere in piega i capelli dal parrucchiere.

Quando finirono di pettinarla, uscì in fretta. Quel giorno pioveva. Il parrucchiere ripulì con la mano il vetro appannato della finestra e guardò fuori per vedere da che parte andasse Gilberta Valle. La vide entrare nella casa di fronte, in cui viveva la straccivendola: non ne uscì mai più.

Tre vecchie, vecchie quanto Gilberta Valle, che passavano le giornate lavorando a maglia, preparando dolci e chiacchierando, intrigate dalla sparizione di Gilberta, risolsero il mistero.

La straccivendola Leonarda Cianculli e suo marito, così per bene, cominciarono a sembrare sospetti. I due vivevano in paese da poco ed erano poveri come topi in chiesa. Il marito di Leonarda comprava sigarette avariate, si cavava i denti da solo, mangiava carne e polenta due volte alla settimana, beveva mate in un boccale di coccio, non portava mai la moglie al cinema e quando era malata la faceva visitare da un veterinario.

All'improvviso la coppia cambiò abitudini: mangiava carne ogni giorno, andava dal dentista, al cinema, beveva mate nel recipiente giusto e con la bombilla d'argento, comprava pacchetti di sigarette tutti i giorni, fabbricava sapone, consultava un ginecologo. Le tre vecchie trasformate in detective, una livida e le altre due congestionate, si domandavano da dove saltasse fuori tanta ricchezza. Diventarono amiche di Leonarda per estorcerle la verità; la invitarono a casa di una di loro, le offrirono liquori che l'altra accettò fino a ubriacarsi. Tra le altre cose, Leonarda parlò di un sapone fatto da lei, ottimo per lavare il corpo e gli abiti, e tra una risata e l'altra spiegò di aver inventato il presunto fidanzato, scritto di propria mano le lettere, inviato le fotografie, derubato e poi ucciso con un'ascia Gilberta Valle. Raccontò infine di come l'aveva tagliata a pezzetti che (aggiunti alla potassa) erano serviti (tranne le ossa, che aveva seppellito) a fare sapone.

Le tre detective, trasformate in tre parche, tagliarono il filo della vita di Leonarda, che quando la arrestarono morì di dispiacere, con una saponetta in mano.

Qualcuno starà pensando a me?

Dove sarà la mia zattera? L'ho persa.

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