Autore Flannery O'Connor
Titolo Un brav'uomo è difficile da trovare
Edizioneminimum fax, Roma, 2021, classics 91 , pag. 286, cop.fle., dim. 14x19x2 cm , Isbn 978-88-3389-230-6
OriginaleA Good Man is Hard to Find and Other Stories
EdizioneHarcourt Brace, New York, 1955
PrefazioneJoyce Carol Oates
TraduttoreGaja Cenciarelli
LettoreMargherita Cena, 2021
Classe narrativa statunitense












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    Cronologia                                        5
    Bibliografia                                     12


 /  Un brav'uomo è difficile da trovare              17

 /  Il fiume                                         39

 /  La vita che salvi potrebbe essere la tua         63

 /  Un colpo di fortuna                              79

 /  Un Tempio dello Spirito Santo                    97

 /  Il negro artificiale                            115

 /  Un cerchio nel fuoco                            144

 /  Un incontro tardivo col nemico                  170

 /  Brava gente di campagna                         185

 /  Il profugo                                      213


    Le parabole di Flannery O'Connor
    di Joyce Carol Oates                            269



 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 17

/
Un brav'uomo è difficile da trovare



La nonna non voleva andare in Florida. Voleva andare a far visita ad alcuni parenti nel Tennessee orientale e si aggrappava a qualsiasi pretesto per far cambiare idea a Bailey. Bailey era il figlio con cui viveva, il suo unico maschio. Era seduto sul bordo della sedia, a tavola, chino a leggere le pagine sportive arancioni del Journal. «Guarda qui, Bailey», disse, «vieni a vedere, leggi qui», e con una mano appoggiata sul fianco snello si mise a sventolare il giornale sulla testa calva del figlio. «C'è un tizio che si fa chiamare Il Balordo, è evaso dal carcere federale e pare stia andando in Florida, guarda qui, leggi cos'ha fatto a questa gente. Leggi, su. Io non porterei mai i miei figli in un posto dove rischiassi di trovarmi faccia a faccia con un criminale. Non riuscirei mai a perdonarmelo, se lo facessi».

Bailey non staccò gli occhi dal giornale, perciò la nonna girò sui tacchi e si mise di fronte alla mamma dei bambini, una giovane donna in pantaloni, il cui viso era largo e innocente come un cavolo, la testa incorniciata da un foulard verde che, in cima, aveva due lembi di stoffa a punta, come orecchie di coniglio. Era seduta sul divano, e dava da mangiare al piccolo le albicocche direttamente dal barattolo. «I bambini ci sono già stati, in Florida», disse la vecchia signora. «Dovreste portarli da qualche altra parte, tanto per cambiare, così vedrebbero posti nuovi e si farebbero un'idea del mondo. Non sono mai stati nel Tennessee orientale».

Sembrava che la mamma dei bambini non la ascoltasse ma il figlio di otto anni, John Wesley, un ragazzino tarchiato e occhialuto, chiese: «Se non vuoi venire in Florida, perché non resti a casa?» Lui e la bambina, June Star, stavano leggendo i fumetti sul pavimento.

«Non resterebbe a casa nemmeno se per un giorno la incoronassero regina», disse June Star senza alzare la testa gialla.

«Ah sì? E che cosa fareste se questo tizio, Il Balordo, vi acchiappasse?», domandò la nonna.

«Gli darei un pugno sul muso», disse John Wesley.

«Non resterebbe a casa nemmeno per un milione di dollari», disse June Star. «Ha paura di perdersi qualcosa. Deve sempre starci alle calcagna, ovunque andiamo».

«D'accordo, signorina», disse la nonna. «Ricordatelo la prossima volta che mi chiederai di farti i boccoli».

June Star replicò che i suoi capelli avevano i boccoli naturali.

Il giorno dopo la nonna salì in macchina per prima, pronta a partire. Aveva sistemato la sua grossa valigia nera che sembrava la testa di un ippopotamo in un angolo, e sotto di sé nascondeva una cesta con Pitty Sing, il gatto. Non le passava nemmeno per l'anticamera del cervello di lasciarlo da solo in casa per tre giorni, perché avrebbe sentito troppo la mancanza della donna; inoltre aveva paura che, strofinandosi contro uno dei fornelli a gas, potesse morire asfissiato. A suo figlio, Bailey, non andava giù l'idea di presentarsi in albergo con un gatto.

Era seduta al centro del sedile posteriore tra John Wesley e June Star. Bailey, la mamma dei bambini e il piccolo occupavano il sedile anteriore, e partirono da Atlanta alle otto e quarantacinque con il contachilometri che segnava 89946. La nonna si appuntò la cifra perché riteneva sarebbe stato interessante, una volta tornata, sapere con precisione quanti chilometri avevano percorso. Ci misero venti minuti per uscire dalla città.

La vecchia signora si accomodò, togliendosi i guanti bianchi di cotone e appoggiandoli, insieme alla borsetta, sulla mensola di fronte al finestrino posteriore. La mamma dei bambini indossava sempre i pantaloni e la testa era sempre incorniciata da un foulard verde, la nonna invece portava un cappello alla marinara di paglia blu con un mazzolino di violette bianche sulla falda e un abito blu scuro a piccoli pois bianchi. Il colletto e i polsini erano di organza bianca, con l'orlo di pizzo, e alla scollatura aveva appuntato un piccolo bouquet di violette di stoffa che conteneva un sacchetto di erbe profumate. Nella sventurata ipotesi di un incidente, chiunque l'avesse trovata morta sull'autostrada avrebbe capito subito, e senz'ombra di dubbio, che era una vera signora.

Disse che secondo la sua opinione sarebbe stata la giornata ideale per viaggiare in macchina, né troppo calda né troppo fredda, e mise in guardia Bailey ricordandogli che il limite di velocità era di novanta chilometri all'ora e che la polizia stradale si nascondeva dietro i cartelloni pubblicitari o dietro piccole macchie d'alberi e sbucava fuori a tutta birra, buttandosi all'inseguimento, prima di darti il tempo di rallentare. Indicò i particolari più interessanti del panorama: Stone Mountain; le pareti di granito blu che, in alcuni tratti, accompagnavano l'autostrada; i banchi d'argilla d'un rosso acceso con leggere screziature viola e le varie coltivazioni che ornavano il terreno con strisce di merletto verde. Gli alberi traboccavano di luce bianco-argentea, al punto che persino il più spoglio scintillava. I bambini leggevano fumetti e la madre si era riappisolata.

«Sbrighiamoci ad attraversare la Georgia, così non saremo costretti a guardarla troppo», disse John Wesley.

«Se io fossi un bambino», disse la nonna, «non parlerei in questi termini dello stato in cui sono nato. Il Tennessee ha le montagne e la Georgia le colline».

«I1 Tennessee è una cloaca piena di cafoni», disse John Wesley. «E anche la Georgia fa schifo».

«Bravo», disse June Star.

«Ai miei tempi», disse la nonna, incrociando le dita sottili e venate, «i bambini portavano più rispetto al loro stato, ai genitori e a tutto il resto. All'epoca la gente si comportava bene. Oh, guardate che tenero quel cioccolatino!», esclamò indicando un negretto sulla soglia di una capanna. «Non sembra un quadro?», chiese, e tutti si girarono a guardarlo dal lunotto posteriore. Il bambino li salutò con una mano.

«Non aveva le mutande», disse June Star.

«Probabilmente non ne possiede proprio», spiegò la nonna.

«I negretti di campagna non hanno le cose che abbiamo noi. Se sapessi dipingere, ne avrei fatto un quadro», disse.

I bambini si scambiarono i fumetti.

La nonna si offrì di tenere il piccolo e, dal sedile anteriore, la madre glielo passò.

La nonna se lo mise su un ginocchio e lo fece ballare su e giù, raccontandogli dei posti che vedevano. Roteava gli occhi, storceva la bocca e premeva il viso sottile, simile al cuoio, contro quello liscio e soave del piccolo. Ogni tanto lui le scoccava un sorriso distratto. Passarono davanti a un vasto campo di cotone con cinque o sei tombe recintate al centro, come un atollo.

«Guardate quel cimitero», disse la nonna, indicandolo. «Era il vecchio cimitero di famiglia. Apparteneva alla piantagione».

«E dov'è la piantagione?», chiese John Wesley.

«È andata Via col Vento», disse la nonna. «Ah, ah».

Quando i bambini finirono di leggere tutti i fumetti che si erano portati dietro, aprirono il pacco del pranzo e mangiarono. La nonna mangiò un panino al burro di arachidi e un'oliva e non permise ai bambini di buttare fuori dal finestrino la confezione e i tovaglioli di carta. Quando non ci fu più niente da fare giocarono a scegliere una nuvola e a far indovinare agli altri due che forma avesse. John Wesley ne scelse una a forma di mucca e June Star indovinò che era una mucca, ma John Wesley disse no, è una macchina, e June Star replicò che lui giocava sporco, così cominciarono a prendersi a schiaffi scavalcando la nonna.

La nonna disse che gli avrebbe raccontato una storia se fossero stati buoni. Quando raccontava le sue storie, roteava gli occhi e agitava la testa ed era molto teatrale. Disse che un tempo, da ragazza, era stata corteggiata da un certo Mr. Edgar Atkins Teagarden di Jasper, Georgia. Disse che era un gentiluomo molto affascinante e che le portava in dono un'anguria con sopra incise le sue iniziali, E.A.T., ogni sabato pomeriggio. Ebbene, un sabato, disse, Mr. Teagarden le portò l'anguria quando in casa non c'era nessuno, la lasciò sulla veranda all'ingresso e tornò a Jasper in calesse, ma lei non riuscì mai ad averla, quell'anguria, perché un negretto la mangiò quando vide le iniziali E.A.T.!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 97

/
Un Tempio dello Spirito Santo



Per tutto il fine settimana le due ragazze si erano chiamate fra loro Tempio Primo e Tempio Secondo, ridendo a crepapelle e facendosi così paonazze e accaldate da diventare decisamente brutte, in particolare Joanne che, comunque, aveva il viso a chiazze. Arrivarono con indosso la divisa marrone del convento che dovevano mettere a Mount St. Scholastica, ma appena aprirono la valigia si tolsero le divise e optarono per gonne rosse e camicette sgargianti. Si misero il rossetto e le scarpe della domenica e se ne andarono in giro per tutta la casa con i tacchi alti, passando sempre lentamente davanti al lungo specchio dell'ingresso per guardarsi le gambe. La bambina non si perdeva neppure una delle loro pose. Se ne fosse arrivata solo una, almeno avrebbe potuto giocare con lei, ma dato che le ragazze erano due la escludevano, e lei si limitava a guardarle da lontano con sospetto.

Avevano quattordici anni - due più di lei - ma non erano delle cime nessuna delle due, per questo erano state spedite in convento. Se avessero frequentato la scuola pubblica non avrebbero fatto altro che pensare ai ragazzi; al convento le suore, aveva detto sua madre, le avrebbero tenute al guinzaglio corto. La bambina decise, dopo averle osservate per qualche ora, che erano praticamente due cretine, e la confortava il pensiero che fossero solo cugine di secondo grado, e che dunque non rischiava di ereditare nemmeno l'ombra della loro idiozia. Susan si faceva chiamare Su-zan. Era molto magra ma aveva un delizioso faccino a punta e i capelli rossi. Joanne aveva i capelli gialli naturalmente ricci ma parlava con voce nasale, e quando rideva il viso le si copriva di chiazze viola. Nessuna delle due sapeva dire niente di intelligente e tutte le loro frasi iniziavano con: «Hai presente quel ragazzo che conosco, be', una volta, lui...»

Sarebbero rimaste per tutto il fine settimana e sua madre disse che non sapeva come farle divertire visto che non conosceva ragazzi della loro età. A questa affermazione, la bambina, con un improvviso colpo di genio, gridò: «C'è Cheat! Fai venire Cheat! Chiedi a Miss Kirby di far venire Cheat a portarle in giro!», e per poco non si strozzò con il cibo che aveva in bocca. Si piegò in due dalle risate e diede un pugno sul tavolo, guardando le due ragazze sbalordite mentre le spuntavano le prime lacrime che rotolarono sulle guance, e l'apparecchio che aveva ai denti scintillava come il metallo.

La madre rise in modo contenuto e Miss Kirby arrossì e si portò delicatamente alla bocca la forchetta, con un solo pisello sopra. Era una maestra bionda, con il viso lungo, che stava a pensione da loro, e Mr. Cheatam era il suo spasimante, un vecchio contadino ricco che arrivava ogni sabato pomeriggio a bordo di una Pontiac azzurro cielo, vecchia di quindici anni, incipriata di polvere di argilla rossa, e con gli interni neri come i negri ai quali lui faceva pagare dieci centesimi ciascuno per portarli in città il sabato pomeriggio. Dopo averli scaricati andava a trovare Miss Kirby, portando con sé sempre un piccolo dono - un sacchetto di arachidi bollite o un'anguria o una canna da zucchero e, una volta, persino una confezione intera di caramelle Baby Ruth comprata all'ingrosso. Era calvo, eccezion fatta per una frangetta di capelli color ruggine, e aveva il viso quasi dello stesso colore delle strade sterrate, e solcato anch'esso da fossi e carreggiate. Indossava una camicia verde chiaro con una sottile striscia nera e un paio di bretelle azzurre, e i pantaloni tagliavano a metà una pancia debordante che, ogni tanto, Mr. Cheatam si schiacciava dolcemente con il grosso pollice piatto. Tutti i denti erano rinforzati d'oro; guardava Miss Kirby roteando gli occhi con aria maliziosa e borbottava: «Uhm, uhm», seduto sull'altalena della veranda, a gambe larghe e con gli stivaletti che puntavano in direzioni opposte del pavimento.

«Non credo che Cheat verrà in città questo fine settimana», disse Miss Kirby, non avendo assolutamente capito la battuta, e la bambina ricominciò a ridere convulsamente, si buttò all'indietro sullo schienale della sedia, cadde, rotolò sul pavimento e restò lì, ansante. La madre le disse che se non la faceva finita con quelle sciocchezze l'avrebbe mandata di filato in camera sua.

Il giorno prima la madre si era messa d'accordo con Alonzo Myers perché le accompagnasse al convento di Mayville a prendere le ragazze, che sarebbero rimaste con lei per il fine settimana - un viaggio di settanta e passa chilometri - e lo aveva prenotato per riportarcele la domenica pomeriggio. Era un ragazzo di diciotto anni che pesava più di cento chili e lavorava per la compagnia dei taxi, ed era l'unica scelta a disposizione se si doveva andare in macchina da qualche parte. Fumava, o meglio masticava un corto sigaro nero, e aveva uno stomaco tondo che si intravedeva sotto la camicia gialla di nylon. Quando guidava, tutti i finestrini della macchina dovevano essere abbassati.

«Be', c'è Alonzo!», gridò la bambina dal pavimento, ridendo a crepapelle. «Falle portare in giro da Alonzo! Chiama Alonzo!»

Le due ragazze, che avevano già visto Alonzo, urlarono tutta la loro indignazione.

La madre pensò che anche questa battuta fosse divertente, tuttavia esclamò: «Adesso però basta», e cambiò discorso. Chiese loro perché si erano soprannominate Tempio Primo e Tempio Secondo e la domanda le fece scoppiare in un uragano di risate. Alla fine riuscirono a spiegarsi. Suor Perpetua, la suora più vecchia delle Sorelle della Misericordia a Mayville, aveva tenuto una conferenza su cosa dovevano fare se un giovanotto - e qui scoppiarono a ridere così fragorosamente che non riuscirono a proseguire e furono costrette a ricominciare da capo - su cosa dovevano fare se un giovanotto - e piegarono la testa sul grembo - su cosa dovevano fare se - finalmente riuscirono a urlarlo - un giovanotto «non si fosse comportato da gentiluomo sul sedile posteriore di una macchina». Suor Perpetua aveva spiegato che avrebbero dovuto dire: «Basta, signore! Io sono il Tempio dello Spirito Santo!», e questo avrebbe messo fine alla questione. La bambina si tirò su dal pavimento, inespressiva. Non ci vedeva nulla di divertente. La sola cosa realmente ridicola era l'idea che Mr. Cheatam o Alonzo Myers potessero far loro da cavalier serventi. Questo sì che la faceva sganasciare dalle risate.

[...]


Dopo cena se ne andarono alla fiera. Anche lei voleva andarci, ma non con loro, perciò se anche glielo avessero chiesto avrebbe rifiutato. Salì di sopra e prese a camminare avanti e indietro per la lunga camera da letto, con le mani intrecciate dietro la schiena e la testa protesa in avanti, un'espressione feroce e sognante sul viso. Non accese la luce, lasciò che il buio si addensasse e rimpicciolisse la stanza, rendendola più sua. A intervalli regolari, una luce attraversava la finestra aperta e proiettava ombre sulla parete. Si fermò e si mise a guardare, oltre i pendii scuri, oltre il lago che scintillava d'argento, oltre la barriera dei boschi, il cielo screziato dove un lungo dito di luce girava sempre più in alto e più lontano, saggiando l'aria come a caccia del sole perduto. Era la luce del faro della fiera.

In lontananza sentiva la musica dell'organo, e nella sua mente vide innalzarsi tutti i tendoni in una luce fatta di schegge d'oro e l'anello prezioso della ruota panoramica che girava senza posa, prima salendo in alto e poi di nuovo scendendo, e la giostra cigolante che girava senza posa a terra. La fiera durava cinque o sei giorni, poi c'era un pomeriggio speciale per gli scolari e una serata speciale per i negri. Lei ci era andata l'anno prima nel pomeriggio dedicato agli scolari e aveva visto le scimmie e l'uomo cannone, e aveva fatto un giro sulla ruota panoramica. Alcuni tendoni erano chiusi perché contenevano cose che solo gli adulti potevano capire, ma lei aveva guardato con interesse le pubblicità attaccate sulle tende, le foto sbiadite che raffiguravano gente in calzamaglia con facce rigide, tese e composte come quelle dei martiri in attesa che i soldati romani gli tagliassero la lingua. Aveva immaginato che dentro quei tendoni ci fosse qualcosa che riguardava la medicina e aveva deciso che da grande avrebbe fatto il medico.

Da allora aveva cambiato idea e deciso che avrebbe fatto l'ingegnere, ma quando guardò fuori dalla finestra e seguì con lo sguardo la luce del faro che si allargava, si accorciava e ruotava nel suo arco, capì che avrebbe dovuto essere ben più che un semplice medico o ingegnere. Capì che avrebbe dovuto diventare una santa, perché era quello il lavoro che comprendeva tutto lo scibile: e tuttavia sapeva che non sarebbe mai stata una santa. Non era una ladra né un'assassina, ma era nata bugiarda e pigra, era impertinente con la madre e deliberatamente cattiva con quasi tutti gli altri. Era divorata anche dal peccato della superbia, il peggiore. Aveva preso in giro il predicatore battista che era venuto all'inaugurazione dell'anno scolastico per la cerimonia religiosa. Abbassava gli angoli della bocca e si teneva la fronte come se stesse agonizzando, e gemeva: «Oh Paaadre Nostro, noi Ti ringraziamo», proprio come lui, malgrado le avessero detto molte volte di non farlo. Non sarebbe mai stata una santa, ma riteneva di poter diventare una martire, se si fossero sbrigati a ucciderla.

Avrebbe sopportato una morte per fucilazione ma non di essere messa nell'olio bollente. Non sapeva se avrebbe sopportato di essere fatta a pezzi dai leoni. Iniziò a preparare il suo martirio, immaginandosi in calzamaglia in una grande arena, illuminata dai primi cristiani sospesi dentro gabbie infuocate, che emanavano una luce polverosa e dorata proiettandola su di lei e sui leoni. Il primo leone si avventava ma cadeva ai suoi piedi, convertito. Una sfilza intera di leoni faceva lo stesso. I leoni l'avevano presa così tanto a cuore che dormiva persino con loro e alla fine i Romani erano costretti a bruciarla ma, con loro grande stupore, lei non prendeva fuoco e, constatato che era molto difficile ucciderla, finalmente mettevano un punto alla faccenda tagliandole la testa con una spada e lei andava dritta in Paradiso. Provò la scena molte volte, tornando sempre dall'ingresso in Paradiso ai leoni.

[...]


Le ragazze tornarono a mezzanotte meno un quarto e le loro risate la svegliarono. Accesero il piccolo paralume azzurro per spogliarsi e le loro ombre sottili si arrampicarono sulla parete, si spezzarono, poi continuarono a spostarsi dolcemente sul soffitto. La bambina si tirò su per sentire quel che avevano visto alla fiera. Susan aveva una pistola di plastica piena di caramelle da due soldi, e Joanne un gatto di cartapesta a pois rossi. «Avete visto ballare le scimmie?», chiese la bambina. «Avete visto l'uomo cannone e i nani?»

«Abbiamo visto tutti i fenomeni possibili», rispose Joanne. E poi disse a Susan: «Mi è piaciuto tutto tranne il tu-sai-cosa», e il viso assunse un'espressione strana come se avesse dato un morso a qualcosa senza capire se le piacesse.

L'altra rimase immobile e fece no con la testa, indicando con il capo la bambina. «Attenzione», disse a voce bassa, ma lei sentì lo stesso e il cuore prese a batterle molto velocemente.

Scese dal suo letto e si arrampicò sulla pediera di quello delle ragazze. Loro spensero la luce e si infilarono sotto le coperte ma lei non si mosse. Restò lì, fissandole con ostinazione finché riuscì a distinguere con nitidezza le loro facce anche al buio.

«Non sono grande come voi», disse, «ma sono un milione di volte più intelligente».

«Ci sono certe cose», disse Susan, «che una bambina della tua età non conosce», e tutte e due scoppiarono a ridere.

«Tornatene a letto», disse Joanne.

La bambina non si mosse. «Una volta», disse, la voce che al buio suonava profonda, «ho visto la coniglia che faceva i coniglietti».

Ci fu un silenzio. Poi Susan chiese: «Come?», in tono indifferente, e lei capì di averle in pugno. Disse che non glielo avrebbe raccontato finché loro non le avessero spiegato il tu-sai-cosa. In realtà non aveva mai visto una coniglia avere dei coniglietti ma se ne dimenticò non appena loro cominciarono a raccontare cosa avevano visto nel tendone.

Si trattava di un fenomeno da baraccone con un nome strano che loro non riuscivano a ricordare. Il tendone era diviso in due parti da un telo nero: da un lato gli uomini, dall'altro le donne. Il fenomeno andava da una parte all'altra, parlando prima con gli uomini, poi con le donne, ma in modo che tutti potessero sentirlo. Il palcoscenico occupava per intero la parete anteriore. Le ragazze avevano sentito il fenomeno dire agli uomini: «Sto per farvelo vedere, e se ridete Dio vi colpirà nello stesso modo». Il fenomeno aveva una voce da contadino, lenta e nasale, né alta né bassa, solo piatta. «Dio mi ha fatto così e se voi ridete vi colpirà allo stesso modo. È così che mi ha voluto e io non metto in discussione la sua volontà. Ve lo faccio vedere perché magari ne tiro fuori qualcosa di buono. Io non mi metto a discutere». Poi ci fu un lungo silenzio dall'altro lato della tenda e finalmente il fenomeno lasciò gli uomini e andò dalla parte delle donne e disse la stessa cosa.

La bambina sentì tendersi tutti i muscoli come se stesse per apprendere la risposta a un indovinello che era persino più sconcertante dell'indovinello stesso. «Volete dire che aveva due teste?», chiese.

«No», disse Susan, «era un uomo e una donna allo stesso tempo. Si è tirato su il vestito e ce lo ha fatto vedere. Aveva un vestito azzurro».

La bambina voleva chiedere com'era possibile che fosse sia uomo che donna senza avere due teste, ma rinunciò. Voleva ritornare nel suo letto a rifletterci un po' su e iniziò a scendere dalla pediera.

«Insomma, la coniglia?», chiese Joanne.

La bambina si fermò e la sua faccia spuntò da sopra la pediera, distratta, assente. «Li ha sputati fuori dalla bocca», disse. «Tutti e sei».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 269

/
Le parabole di Flannery O'Connor
di Joyce Carol Oates



                        Ho l'impressione che gli scrittori che vedono il mondo
                        alla luce della loro fede cristiana siano, di questi
                        tempi, i più fini osservatori del grottesco, del
                        perverso e dell'inaccettabile... Devi gridare ai duri
                        d'orecchio e tracciare immagini grandiose e strabilianti
                        per gli orbi.
                                                              Flannery O'Connor,
                                      «Lo scrittore di narrativa e la sua terra»


                        Ogniqualvolta mi chiedono perché gli scrittori del Sud
                        in particolare hanno un debole per i personaggi
                        anormali, rispondo che siamo ancora capaci di
                        riconoscerne uno.
                                                              Flannery O'Connor,
                                 «Aspetti del grottesco nella narrativa del Sud»



Nonostante la stupefacente varietà di questa forma letteraria, i racconti rientrano in due categorie generali: quelli che trasmettono il proprio significato in modo sottile, silenzioso, e sono delicati, ricchi di sfumature e scevri dal melodramma come i boccioli in miniatura nel tè giapponese al crisantemo, e quelli che esplodono in faccia al lettore. Flannery O'Connor (1925-1964) ha raggiunto la sua maturità in un periodo nel quale, per il racconto, andavano di moda la sottigliezza e l'«atmosfera», come nelle storie eleganti e sobrie di predecessori classici quali Anton Cechov, Henry James e James Joyce, e di autori a lei contemporanei come Katherine Anne Porter, Eudora Welty, Peter Taylor e Jean Stafford.

Ma i racconti di O'Connor, diretti, espliciti, fumettistici e sfacciatamente melodrammatici erano tutto fuorché di moda. La novità dei suoi racconti dalla comicità aspra, intessuti di messaggi morali e religiosi - come li definisce Brad Gooch nella sua biografia dell'autrice - era rappresentata dal loro assalto frontale alla sensibilità del lettore: non si trattava di racconti raffinati in stile New Yorker, nei quali non accade nulla se non nella mente dei personaggi, ma racconti nei quali succede qualcosa di irreversibile nella sua portata, che spesso coincide con la morte violenta.

Un evaso in fuga soprannominato Il Balordo massacra con la massima disinvoltura una famiglia del Sud nelle campagne della Georgia («Un brav'uomo è difficile da trovare»). Una donna anziana e calcolatrice offre la figlia ritardata in sposa a un sinistro vagabondo con un braccio solo di nome Shiftlet, che abbandona immediatamente la ragazza e sparisce con l'auto della vecchia («La vita che salvi potrebbe essere la tua»). Una giovane donna inacidita dalla perdita di una gamba (in un «incidente di caccia», quando aveva dieci anni), che ha cambiato il proprio nome da Joy a Hulga, viene sedotta da un giovane e ipocrita venditore di Bibbie che le ruba la gamba di legno («Brava gente di campagna»). Dei ragazzini incendiari danno fuoco ai boschi di una proprietà per pura cattiveria, come profeti dell'apocalisse, «danzando nella fornace rovente» («Un cerchio nel fuoco»). Una proprietaria terriera vedova, che immagina di essere superiore ai suoi fittavoli, viene incornata da un toro in fuga e muore dissanguata («Greenleaf»). Una ragazza mentalmente disturbata, che sta leggendo un manuale intitolato Lo sviluppo umano nella sala d'attesa di uno studio medico, tira all'improvviso il libro in testa a una garrula signora borghese che si ritiene al di sopra degli «straccioni bianchi» («Rivelazione»).

Nel romanzo-novella La saggezza nel sangue (1952), il primo libro di O'Connor a venire pubblicato, il fanatico Hazel Motes si autoproclama profeta della «Chiesa senza Cristo» e fa ammenda dei suoi peccati cavandosi un occhio. Nel secondo romanzo di O'Connor, Il cielo è dei violenti (1960), il giovane Francis Marion Tarwater annega un cugino idiota mentre lo sta battezzando, viene drogato e stuprato da un predatore sessuale, rinviene e si allontana come la bestia di Yeats, «il viso rivolto alla città oscura, dove i figli di Dio giacevano addormentati».

Negli anni Cinquanta, quando Flannery O'Connor cominciò a pubblicare esempi di narrativa idiosincratica e ferocemente comica come La saggezza nel sangue e la raccolta di racconti Un brav'uomo è difficile da trovare, questa giovane scrittrice apparentemente reclusa di Milledgeville, Georgia - nella descrizione di Brad Gooch, «una comunità sonnolenta al centro della Georgia» della quale O'Connor disse, in tono quasi distaccato: «Qui abbiamo un college per ragazze, ma l'atmosfera tutta pizzi e merletti è fortunatamente funestata da un riformatorio, una clinica psichiatrica e una scuola militare» - veniva considerata la cugina minore di altri due esponenti del gotico sudista, molto più esibizionisti, popolari e premiati dalle vendite, come Carson McCullers e Truman Capote.

È davvero un'ironia della sorte che durante le loro vite turbolente e ultrapubblicizzate McCullers e Capote fossero molto più famosi di Flannery O'Connor, della cui vita privata, segnata dall'invalidità, si sapeva ben poco; come osservò la stessa O'Connor in una lettera a un'amica: «Quanto alle biografie, non ce ne sarà mai una dedicata a me, per il semplice motivo che le vite trascorse tra la casa e il pollaio sono così poco eccitanti da non vendere neanche una copia».

| << |  <  |