Copertina
Autore Piergiorgio Odifreddi
Titolo Le menzogne di Ulisse
SottotitoloL'avventura della logica da Parmenide a Amartya Sen
EdizioneLonganesi, Milano, 2004, , pag. 288, dim. 145x210x30 mm , Isbn 978-88-304-2044-1
LettorePiergiorgio Siena, 2004
Classe filosofia , matematica , logica , storia della scienza
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Indice

Prefazione                            7

Parole, parole, parole
(da Neandertal a Omero)              11

Le menzogne di Ulisse
(Epimenide ed Eubulide)              22

La corsa di Achille
(Parmenide e Zenone)                 34

L'armonia del mondo
(Pitagora)                           45

Idee accademiche
(Platone)                            56

Una metafisica liceale
(Aristotele)                         67

Lezioni sotto il portico
(Crisippo)                           79

Sospensione scolastica
(da Abelardo a Occam)                91

La migliore delle logiche possibili
(Lullo e Leibniz)                   103

Rivoluzioni copernicane
(Newton e Kant)                     113

Un inizio che è anche una fine
(Boote)                             124

Il bisbetico domato
(Cantor e Dedekind)                 134

I «Principia» della matematica
(Frege e Russell)                   145

Alle ricerche del trattato perduto
(Wittgenstein e Bourbaki)           156

Questioni di forma
(Hilbert)                           167

L'intuizione al potere
(Poincaré e Brouwer)                178

La resa dei conti
(Gödel)                             189

L'Enigma dell'informatica
(Turing)                            200

La Verità ti fa male, lo sai
(Tarski e Kripke)                   211

Logica longa, vita brevis
(da Einstein a Sen)                 222

Piccolo dizionario (etimo)logico    233

Indice dei nomi                     279
 

 

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Pagina 11

PAROLE, PAROLE, PAROLE
(da Neandertal a Omero)



LA LOGICA è, per definizione, lo studio del lògos: cioè, del pensiero e del linguaggio. O meglio, del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Il che significa che, perché ci possa essere una logica, ci deve essere un linguaggio: si tratta dunque di una storia relativamente recente, che ha richiesto però una lunga preparazione. Perché il linguaggio è un'invenzione, o una scoperta, dell' homo sapiens: anzi, la sua più importante invenzione o scoperta, quella che gli ha permesso di sgominare la concorrenza dell'uomo di Neandertal, che pure aveva un cervello più grosso del suo, e che per qualche decina di migliala di anni aveva dominato l'Europa.

Naturalmente, la gestazione del linguaggio è stata lunghissima, e la sua nascita si perde nella notte dei tempi: o, per essere un po' più precisi, risale a un centinaio di migliaia di anni fa. Possiamo dunque soltanto immaginare come la cosa sia avvenuta, per lenta evoluzione dalle grida primordiali che servivano a comunicare ai propri simili pericoli in arrivo, o il ritrovamento del cibo. Lentamente questi suoni sono stati elaborati, grazie anche a una particolare predisposizione fisiologica che l'uomo di Neandertal non aveva, e che ha permesso all' homo sapiens di articolare suoni gutturali in gran quantità.

Quella che a noi interessa, però, è una storia molto più recente, che risale a poche migliaia di anni fa. Al momento, cioè, in cui il linguaggio si era ormai evoluto in uno strumento sofisticato di comunicazione, principalmente basato su una tripartizione delle parole in tre categorie fondamentali: i sostantivi, gli aggettivi e i verbi, che servono a indicare oggetti, proprietà e azioni (o stati), come nella frase «l'homo sapiens parla». Ciascuna categoria corrisponde a un particolare modo di guardare e di vedere il mondo, e ha dato origine a generi letterari complementari: l'epica, la lirica e il dramma, che si concentrano rispettivamente sui personaggi, i sentimenti e gli eventi.

Vedere il mondo sotto la specie degli oggetti, delle proprietà o delle azioni significa osservare da un punto di vista significativo ma parziale ciò che ci circonda, e determinare la natura della descrizione della realtà. I bambini, ad esempio, hanno più facilità a distinguere gli oggetti che le azioni, e imparano più facilmente i sostantivi che i verbi. E in parte la cosa si riscontra anche negli adulti, visto che le lingue parlate moderne hanno in genere molti più sostantivi che verbi. In altre parole, il mondo ci appare oggi più «naturale» come insieme di cose che come insieme di eventi, benché non sia sempre stato cosi: ad esempio, nel greco antico era vero il contrario, e i nomi erano in gran parte derivati verbali.

Analogamente, in genere nelle lingue il singolare è più frequente del plurale: ciò significa che riconosciamo più facilmente gli individui che non le specie e i generi, o gli insiemi. E il plurale generico è più frequente di quello specifico (duale per le coppie, triale per le terne, eccetera): ciò significa che riconosciamo più facilmente le specie e i generi, o gli insiemi, che i loro tipi cardinali.

Ovviamente, non per ogni oggetto c'è un nome, o per ogni proprietà un aggettivo, o per ogni azione un verbo. Anzi, è vero il contrario: soltanto pochissimi oggetti, proprietà e azioni ricevono la nostra attenzione, e vengono battezzati con una parola. Gli altri dobbiamo farli rientrare in quelli, con un processo di approssimazione che spesso diventa una semplificazione della complessità della realtà. Ma senza semplificazione non ci sarebbero l'astrazione e il pensiero: ad esempio, ogni uomo rimarrebbe un individuo a sé stante, e non arriveremmo mai alla concezione dell'umanità.

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Pagina 30

[...] Ma smettiamola di tormentare i poveri Cretesi: i quali, fra l'altro, erano solitamente discordi fra loro, e non potevano dunque sostenere tutti di essere bugiardi. Sembra infatti che essi trovassero un accordo soltanto di fronte a un nemico comune, nel qual caso costituivano quello che ancor oggi si chiama un sincretismo, una «confederazione cretese». Anche se, a partire da Erasmo, il termine è passato a denotare la confluenza di più dottrine filosofiche o religiose diverse, in senso figurato.

Eliminare il riferimento ai Cretesi dalla storia precedente non è difficile, perché basta che qualcuno affermi direttamente: «Io mento sempre». Ma le cose rimangono come prima: poiché la frase non può essere vera, dev'essere falsa. Dunque chi parla deve a volte dire il vero, ma non è detto che lo stia dicendo in quel momento. Fu il megarico Eubulide a scoprire, nel quarto secolo p.e.V., che invece le cose cambiano completamente se qualcuno afferma: «In questo momento, sto mentendo». Perché allora non solo, come al solito, la frase non può essere vera, perché altrimenti sarebbe falsa. Ma non può nemmeno essere falsa, perché altrimenti sarebbe vero il suo contrario, e dunque sarebbe vera.

E questo non è più soltanto un rompicapo, ma una vera e propria contraddizione: una frase, cioè, «detta contro (se stessa)», nel senso che è vera se falsa, e falsa se vera. O, se si preferisce, un paradosso: cioè un'affermazione che va «oltre l'opinione comune», e risulta dunque sorprendente o inattesa. O, ancora, un'antinomia: qualcosa, cioè, che va «oltre le regole», in questo caso del pensiero.

La frase «sto mentendo», detta appunto paradosso o antinomia del mentitore, è il granello di sabbia che inceppa il meccanismo del linguaggio: bastano due parole a mettere in crisi le sue pretese metafisiche e a dimostrare che le nozioni di verità e falsità sono contraddittorie. O meglio, che molte sono le verità e le falsità, con la minuscola, ma non c'è nessuna Verità o Falsità, con la maiuscola. Il che era forse ciò che Gesù intendeva suggerire, affermando da un lato di essere la Verità, e dall'altro che il suo regno non era di questo mondo.

Naturalmente, non c'è niente di sorprendente nel fatto che la metafisica risulti essere un'illusione: l'avevamo già capito dando uno sguardo alla storia delle parole astratte, come «spirito» e «anima», e scoprendo che troppo spesso esse sono scatole vuote che non contengono niente. Semmai, la cosa sorprendente è che a volte basti così poco per smontare le pretese della metafisica, che si rivela dunque essere semplicemente una malattia infantile e infettiva del pensiero e del linguaggio.

E poiché uno dei sintomi dell'infantilismo è la testardaggine, i metafisici si sono incaponiti per millenni nel tentativo di trovare «soluzioni» al paradosso del mentitore, così come agli altri argomenti antimetafisici che discuteremo nel seguito. L'unico risultato è stato però un continuo raffinamento della decostruzione, che ha esposto in maniera ancora più evidente e precisa le difficoltà del linguaggio.

Ad esempio, nel quattordicesimo secolo Giovanni Buridano, che ha dato il suo nome al famoso asino, morto di fame perché indeciso fra due equidistanti balle di fieno, ha mostrato che il problema del mentitore non sta nell'autoreferenza, cioè nel fatto che egli si riferisce a se stesso.

Il paradosso si ripropone infatti allo stesso modo nel dialogo seguente, in cui nessuno dei due interlocutori fa riferimento a se stesso, e ciascuno si riferisce invece all'altro:

Socrate: «Platone mentirà nella frase seguente». Platone: «Socrate ha detto il vero nella frase precedente».

Perché se Socrate ha detto il vero, allora Platone ha mentito, e dunque Socrate non ha detto il vero. E se Socrate ha mentito, allora Platone ha detto il vero, e così ha fatto Socrate. Idem per Platone.

Volendo, le cose si possono rendere ancora più semplici, considerando la riscrittura dell'esempio di Buridano proposta da Philip Jourdain nel 1913:

La frase seguente è falsa. La frase precedente è vera.

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Pagina 103

LA MIGLIORE DELLE LOGICHE POSSIBILI
(Lullo e Leibniz)



NEL QUINTO SECOLO p.e.V. il poeta Simonide di Geo fu ingaggiato dal pugile Scopa per scrivere un inno che celebrasse una sua vittoria. Insoddisfatto che due terzi della composizione fossero dedicati a Castore e Polluce, e solo un terzo alle sue imprese, l'atleta pagò solo un terzo del compenso pattuito, suggerendo di rivolgersi ai due dèi per il saldo. Durante il banchetto per la vittoria, due giovani chiamarono fuori Simonide, e mentre egli era assente il soffitto della sala da pranzo crollò e seppellì tutti i commensali: inutile dire che i messaggeri erano Castore e Polluce, venuti a premiare il poeta e a punire il pugile.

I corpi delle vittime rimasero completamente sfigurati, e per permettere ai parenti di identificare i loro cari Simonide ricostruì senza problemi la disposizione della tavolata. Così facendo si accorse che le associazioni visive organizzate topograficamente possono fornire un grande aiuto mnemonico: in tal modo egli scoprì i tópoi, o «luoghi» della memoria, che ispirarono vari Topici dell'antichità, e sui quali si basa la mnemotecnica adottata nella dialettica greca dai sofisti, nella retorica romana da Cicerone e Agostino, nella scolastica domenicana da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, e nell'ermetismo rinascimentale da Giulio Camillo e Giordano Bruno.

Per non parlare, naturalmente, della pubblicità, antica o moderna, che affida soprattutto alle immagini i suoi richiami mercantili. O della recente Scienza della Comunicazione, versione riveduta e aggiornata dell'antica arte della memoria, che insegna ad associare sistematicamente immagini alle parole, affinchè queste ultime rimangano impresse.

Esiste però una seconda scuola mnemonica, più recente, che si ispira alla cabala ebraica e ai diagrammi di Raimondo Lullo. Dopo essere stata adottata dagli scolastici francescani e da Pietro Ramo, essa confluì nella logica moderna attraverso Gottfried Leibniz. La cosa non deve stupire: l'idea di Lullo era infatti che, per ricordare, si dovessero fare non associazioni sensoriali e intuitive, ma classificazioni razionali e simboliche.

Le due scuole, come si può immaginare, sono più complementari che contrapposte: dove le classificazioni sono possibili, e cioè nella matematica e nella scienza, il formalismo è lo strumento essenziale, mentre dove non sono possibili è inutile. Le due tecniche, comunque, possono benissimo convivere: ad esempio, basta sfogliare le Ombre delle idee di Giordano Bruno per trovarvi sia immagini sia diagrammi.

E poiché niente è nuovo sotto il sole, entrambe le tecniche sono presenti nella tradizione religiosa mediorientale. Il metodo delle immagini è caratteristico del Cristianesimo, che ha tradotto il messaggio evangelico in una concreta iconografia mnemonica. Il metodo delle forme è invece tipico dell'Ebraismo e dell'Islam, che hanno preferito usare astratti intrecci e arabeschi. La contrapposizione è evidente nell'architettura religiosa, e rende conto delle differenze tra le chiese da un lato, e le sinagoghe e le moschee dall'altro.

La stessa dicotomia si trova all'interno del Buddhismo tibetano, che oggi va tanto di moda. Da un lato, i mandala costituiscono una vera e propria mappa sensoriale destinata a ricordare all'iniziato il percorso da seguire nella meditazione, per arrivare all'illuminazione. Dall'altro lato, gli yantra svolgono la stessa funzione in maniera più cerebrale, sostituendo i variopinti idoli dei mandala con complicate figure geometriche.

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Pagina 190

[...] Il primo problema che Gödel affrontò fu quello enunciato da Hilbert al Congresso Internazionale di Bologna del 1928. Egli lo risolse l'anno dopo, a ventitré anni, nella sua tesi di laurea, dimostrando il suo primo grande risultato: il teorema di completezza per la logica predicativa, che costituisce l'analogo di quello per la logica proposizionale dimostrato da Post nel 1921. Più precisamente, l'analogo delle tautologie sono le formule vere in tutti i mondi possibili, ed esse risultano essere esattamente, né più né meno, i teoremi del sistema predicativo dei Begriffschrift di Frege o, se si preferisce, dei Principia di Russell e Whitehead.

Una volta dimostrata la completezza della logica, proposizionale dapprima e predicativa poi, la cosa naturale da fare era di estendere il risultato alla matematica, cominciando ad esempio a dimostrare che i teoremi del sistema aritmetico dei Principia sono esattamente le formule vere dell'aritmetica. Gödel si dedicò a questo compito nella sua tesi di dottorato del 1931, ma scoprì con sua sorpresa che c'erano invece formule vere dell'aritmetica che non erano teoremi dei Principia,

La sorpresa maggiore, però, fu che il problema era irrimediabile: si potevano certamente aggiungere assiomi ai Principia, per renderli meno incompleti, ma nessuna aggiunta sarebbe riuscita a renderli completi! Per questo il titolo del lavoro di Gödel parlava di «proposizioni indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini»: perché il problema era comune a qualunque sistema matematico passato, presente o futuro, e non soltanto a quello costruito da Russell e Whitehead.

Per ironia della sorte, Gödel diede il primo annuncio ufficiale del suo teorema il 7 settembre 1930 a Kònigsberg, in occasione del convegno in onore di Hilbert, che il giorno dopo pronunciò ignaro il suo epitaffio «Dobbiamo sapere, e sapremo», senza sapere che ormai si sapeva che non si poteva sempre sapere.

L'idea della dimostrazione di Gödel era una variazione sul tema del paradosso del mentitore, opportunamente modificato in modo da farlo diventare un teorema. Mentre Eubulide aveva infatti considerato la frase: «Questa frase non è vera», Gödel considerò la formula: «Questa formula non è dimostrabile». Naturalmente, poiché la verità è una sola, o lo sarebbe se ci fosse, la frase di Eubulide è paradossale, ma non ambigua. Di dimostrabilità, invece, ce ne sono tante: una per ciascun sistema di assiomi e regole. La formula di Gödel è dunque ambigua, e va riformulata fissando un particolare sistema, ad esempio quello dei Principia e dicendo: «Questa formula non è dimostrabile nel sistema dato».

Eubulide si era domandato se la sua frase fosse vera o falsa, e aveva scoperto che nessuno dei due casi è possibile. Gödel si domandò analogamente se la sua formula fosse dimostrabile o refutabile, e anch'egli scoprì che nessuno dei due casi è possibile, se il sistema dimostra soltanto verità. Perché, in questo caso, se la formula fosse dimostrabile sarebbe vera, e dunque non dimostrabile. Allora non è dimostrabile, e dunque è vera: ovvero, nel sistema ci sono verità indimostrabili, esattamente come nei migliori processi di mafia.

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Pagina 230

[...] Condorcet aveva scoperto un paradosso del sistema elettorale, che si può illustrare con un esempio pratico. Nelle elezioni presidenziali statunitensi del 1976 Jimmy Carter vinse su Gerald Ford, il quale aveva ottenuto la nomination repubblicana vincendo su Ronald Reagan. Ma i sondaggi dicevano che Reagan avrebbe vinto su Carter: come poi successe effettivamente, benché in condizioni politiche diverse, nel 1980.

Si era dunque verificata la situazione circolare e paradossale prevista da Condorcet: che in un sistema elettorale in cui i candidati vengono selezionati in elezioni successive, a due a due, il vincitore può dipendere dall'ordine in cui vengono effettuate le votazioni. Ad esempio, per far vincere Ford sarebbe bastato far prima la votazione tra Carter e Reagan, e poi la votazione tra il vincitore (Reagan) e Ford.

La domanda ovvia è se si possa in qualche modo emendare il sistema elettorale, in modo che diventi impossibile il verificarsi di situazioni come la precedente. La risposta, sorprendentemente negativa, fu trovata nel 1951 da Kenneth Arrow, dapprima studente e poi assistente di Tarski, con un risultato che gli valse il premio Nobel per l'economia nel 1972.

Il teorema di Arrow stabilisce che non esiste nessun sistema elettorale che soddisfi i principi della libertà individuale, della dipendenza dal voto, dell'unanimità e del rifiuto della dittatura. Più esplicitamente, non esiste nessun sistema elettorale in cui: ogni votante può votare per il candidato che preferisce; il risultato dell'elezione dipende soltanto dai voti dati; un candidato che prenda tutti i voti vince; e nessun elettore è in grado di determinare sempre e da solo il risultato di un'elezione.

Naturalmente, le ipotesi che stanno alla base del teorema di Arrow sono di solito considerate irrinunciabili in un sistema democratico, e per questo il risultato viene in genere presentato come un teorema di impossibilità della democrazìa, che decostruisce appunto questa nozione metafisica, mostrando l'inconsistenza di una sua semplice assiomatizzazione.

Ma i problemi della democrazia non finiscono qui: nel 1972 Amartya Sen ha generalizzato il teorema di Arrow e decostruito la nozione di diritto, vincendo pure lui il premio Nobel per l'economia nel 1998. Il teorema di impossibilità di Sen dimostra che, se si intende il concetto di diritto in maniera naturale, allora in una società al massimo una persona può avere dei diritti. E il teorema di impossibilità di Arrow si riottiene come caso particolare, quando esattamente una persona ha dei diritti: essa è il dittatore di cui Arrow dimostrava l'esistenza, nel caso in cui le altre condizioni del suo teorema fossero soddisfatte.

Non ci vuole naturalmente molto a riconoscere nei teoremi di Arrow e Sen un'altra incarnazione dei risultati di limitatezza che sono caratteristici della logica, e che hanno costituito il basso continuo del nostro racconto. Perché alla fine di questa narrazione, se una sola cosa fosse chiara, dovrebbe essere questa: che il pensiero ha la tendenza a costruirsi da solo delle trappole nelle quali rimane poi invischiato e prigioniero, ipostatizzando e reificando le più svariate parole del linguaggio, dalla verità all'essere, dall'infinito a dio, dal tempo alla realtà, dalla democrazia al diritto.

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