Copertina
Autore Andrea Oggioni
Titolo Le mani sulla roccia
SottotitoloDiario alpinistico
EdizioneVivalda, Torino, 2012 [1964], I Licheni 105 , pag. 276, ill., cop.fle., dim. 12,7x20x2 cm , Isbn 978-88-7480-179-4
PrefazioneAlessandro Giorgetta, Bruno Ferrario, Roberto Gallieni, Walter bonatti, Pierre Mazeaud
LettoreGiorgio Crepe, 2012
Classe montagna , biografie
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Indice


PREFAZIONE DI ALESSANDRO GIORGETTA              5


IL RICORDO DEI COMPAGNI

    CHAMPAGNE SUL RONDOY                        13
    DI BRUNO FERRARIO

    SULLA POIRE CON ANDREA                      23
    DI ROBERTO GALLIENI

    NOI SUL PILONE                              31
    DI WALTER BONATTI

    UN VOLTO DI UOMO                            47
    DI PIERRE MAZEAUD


LE MANI SULLA ROCCIA                            53
IL DIARIO ALPINISTICO DI ANDREA OGGIONI


 

 

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Pagina 5

ANDREA OGGIONI
DI ALESSANDRO GIORGETTA



Oggi, nell'epoca in cui le imprese alpinistiche più eclatanti sulle montagne del mondo vengono mediatizzate in diretta e bruciate in tempo reale grazie a internet, è difficile ricreare l'impatto emotivo che cinquant'anni or sono produceva la lettura delle rare autobiografie degli alpinisti del tempo. L'immaginario collettivo riferito all'ambiente alpinistico si basava sull'informazione filtrata dai quotidiani, dalla radio e nei casi più drammatici dalla televisione, in modo spesso approssimativo e impreciso. Oltre a questo, per la ristretta cerchia dei praticanti desiderosi di approfondire la propria conoscenza, poche erano le fonti d'informazione, al di fuori della rivista mensile del CAI, de Lo Scarpone e del neonato festival del cinema della montagna di Trento. In tale quadro nel dopoguerra la letteratura di montagna aveva da poco ripreso quota sull'onda delle grandi affermazioni alpinistiche italiane degli anni '50, contemporanee e successive all'epopea nazionale del K2, come pure di riflesso, grazie agli effetti positivi che ebbe anche sulla diffusione dell'alpinismo il "miracolo italiano".

Il comparire di un nuovo libro, anticipato dal passa parola, era quindi un evento alquanto atteso dalla comunità alpinistica, che cercava nell'autorevolezza allora indiscussa della carta stampata conferme alle proprie scelte, e un metro di paragone del livello raggiunto con le proprie imprese. Tali aspettative, nel settore editoriale pur sempre di nicchia, premiarono comunque il coraggio di Tamari Editori di Bologna — non si dimentichi che il 1964 segnò l'arresto del miracolo economico, con la prima congiuntura che creò a livello nazionale ed europeo una crisi economica analoga all'attuale – che tra marzo e settembre pubblicò due edizioni del diario alpinistico di Andrea Oggioni, con il titolo appunto di Le mani sulla roccia.

Il libro, uscito postumo a tre anni dalla morte di Oggioni, a cura di Carlo Graffigna e corredato da scritti di Walter Bonatti, Bruno Ferrario, Roberto Gallieni e Pierre Mazeaud, anticipato dalla pubblicazione di quel classico della letteratura alpina che fu Le mie montagne di Bonatti, rinnovò nel pubblico del tempo l'impatto emotivo suscitato nella realtà dalla tragica vicenda del Pilone Centrale in cui lo stesso Oggioni trovò la morte insieme a tre francesi compagni di sventura, e nella letteratura appunto dal libro di Bonatti. I due testi risultano tuttavia imparagonabili poiché sulla vasta tastiera dell'animo e dell'intelletto umano sono eseguiti su ottave completamente differenti, che rispecchiano perfettamente le differenze di carattere e di concezione dell'esistenza, ma non della condivisione della passione per la montagna dei due compagni di cordata, che tali furono "finché morte non li separò".

È in tale ottica che oggi, scomparsi tutti i protagonisti di quegli eventi, se si esclude Pierre Mazeaud, una rilettura di Le mani sulla roccia acquisisce un significato particolare e consente una diversa collocazione di Andrea Oggioni in quel firmamento del grande alpinismo degli anni '50 che attraversò come una luminosa meteora. Mentre infatti la lettura del diario all'epoca della prima edizione era quella di una autobiografia "a caldo" dell'esperienza umana vissuta, oggi si tratta di un'esperienza ormai ampiamente storicizzata, dalla quale risulta più facile estrapolare i valori umani di quel piccolo grande uomo che fu Oggioni, indipendentemente dall'indiscussa validità delle sue realizzazioni alpinistiche. Ma poiché sono i riferimenti che danno valore ai contenuti, è importante per comprendere oggi l'interesse degli scritti di Oggioni, che non può essere certo una lettura di critica letteraria, inserirne la visione, seppure soggettiva del tutto particolare, nell'alpinismo e nella società dell'epoca nel cui contesto si formò e si evolse.

Quanto sostiene Pablo Neruda nell'incipit di un suo libro di memorie «...per nascere son nato, per bloccare la strada a quanto si avvicina, a quanto batte al mio petto come un nuovo trepidante cuore», può essere considerato una sintesi perfetta della vita di Andrea Oggioni. Le condizioni ambientali, sociali e economiche nelle quali si trovò a crescere infatti non soffocarono quella connaturata spinta interiore, non suggerita né incoraggiata dall'ambiente famigliare, che lo richiamava irresistibilmente verso la montagna.

Per chi come lui si fosse trovato a nascere da una famiglia contadina nel 1930 a Villasanta, un borgo della pianura lombarda in quella fascia di territorio a vocazione agricola a ridosso di Milano che nel periodo della ricostruzione postbellica conobbe il totale stravolgimento della cultura originaria cancellata dall'espansione industriale e dalla speculazione edilizia, non vi erano molti gradi di libertà nella scelta del proprio futuro. A differenza di oggi il posto di lavoro fisso era lì, a chilometri zero, davanti alla casa cascina in cui abitava, al di là del passaggio a livello. La vita in famiglia, con i genitori, un fratello e una sorella, il lavoro in fabbrica alla raffineria "Lombarda", qualche amicizia, la chiesa, era tutto quello che Villasanta poteva offrire al giovane Oggioni alla fine degli anni '40. Ovviamente se tutto ciò rispondeva al suo forte senso di responsabilità nei confronti della famiglia e della società non poteva certo soddisfare il suo bisogno di orizzonti più vasti, che affiorava prepotentemente da un ancestrale richiamo alla natura delle sue origini contadine, ove dare ampio respiro al suo carattere introverso e chiuso. Orizzonti che gli si presentavano quotidianamente nelle giornate più limpide lungo il percorso casa-lavoro, là verso nord la cerchia delle Prealpi con la mole piramidale della Grigna e Grignone e più lontano verso ovest con le Alpi Lepontine e Pennine che culminano nella muraglia del Monte Rosa. Così, con gli spiccioli di tempo e di denaro avanzati da quanto destinava alla famiglia, la domenica in treno fino a Lecco e quindi a piedi per i mille metri di ripido dislivello che portava ai Piani Resinelli iniziò le sue escursioni solitarie sulle pendici meridionali della Grignetta, ove poteva osservare da vicino gli alpinisti impegnati nelle arrampicate sulle guglie che si innalzano a pochi passi dai sentieri. Dopo la prima salita del Fungo con un compagno occasionale, bruciò le tappe delle difficoltà legandosi in cordata con Walter Bonatti, da lui iniziato alla scoperta dell'alpinismo, e Josve Aiazzi, e quindi nel 1954 ammesso, il più giovane fra i soci, al Club Alpino Accademico Italiano. Questi inizi e il seguito della sua sbalorditiva carriera alpinistica costituiscono appunto il contenuto del diario.

Ma anche qui il suo desiderio di ampliare le proprie conoscenze e orizzonti lo spinse oltre a queste seppur straordinarie realizzazioni e, al prezzo di grandi sacrifici economici, riuscì a partecipare a due spedizioni nelle Ande, con la mente rivolta all'Himalaya, ove in quegli anni si consumava la competizione per la conquista dei quattordici 8000 – praticamente conclusa nel 1960 con la salita degli svizzeri al Dhaulagiri, se si esclude la spedizione cinese di ben 195 membri che nel 1964 vinse lo Shisha Pangma – sogno sfiorato nel 1958 con la mancata convocazione per il Gasherbrum IV, e quindi negatogli dalla prematura scomparsa.

Può essere interessante ai fini di una corretta rilettura del diario inquadrarne l'attività nello scenario alpinistico internazionale dell'epoca, i cui protagonisti sicuramente Oggioni incontrò e conobbe in più occasioni ma che singolarmente non cita mai nei suoi scritti. Ciò significa essenzialmente due cose: in primo luogo che non andava in montagna spinto da uno spirito competitivo, cercando il confronto con altri che operavano in quel tempo e su quelle difficoltà, ma unicamente per la realizzazione personale e dei suo compagni, in secondo luogo che riconfermava la propria fedeltà agli abituali compagni di cordata senza curarsi di ulteriori possibilità offerte da nuove conoscenze, seppure mai limitando la propria solidarietà nei confronti di chiunque si trovasse in difficoltà.

Numerosi sono gli episodi in cui interrompe ascensioni o interviene di notte o in condizioni meteorologiche avverse per portare spontaneo soccorso ad alpinisti in difficoltà, anche a rischio della propria incolumità. Ma un ricordo personale forse può mettere ben in luce il suo atteggiamento e il ruolo che lui stesso si imponeva nella partecipazione alla cordata. A Courmayeur alla fine degli anni '50 la casa di Walter Bonatti, come la bottega di Toni Gobbi, erano i due poli di riferimento per ottenere informazioni sulle condizioni della montagna e delle vie. Un giorno, com'era consuetudine alla vigilia di un'ascensione, mi recai con mio fratello da Bonatti, sempre prodigo di consigli e indicazioni, spesso invitandoci a seguirlo nelle salite che riteneva alla nostra portata. Mentre ci dava spiegazioni e suggerimenti sui vari passaggi, Oggioni stava accucciato in un angolo apparentemente non partecipando ai nostri discorsi, intento nel compito di verificare le condizioni delle attrezzature, prestando la stessa meticolosità e concentrazione che aveva sul lavoro, controllando la calza e l'anima delle corde centimetro per centimetro, cinghietti e anelli dei ramponi, cordini di staffe e cunei. Era un ruolo di servizio come quello da lui sempre interpretato durante lo svolgimento delle ascensioni per facilitare e alleggerire la progressione dei compagni. Al di là di questo atteggiamento ciò che lo rendeva compagno prezioso era la condivisione di principio di un alpinismo umano dal rischio calcolato, pulito e senza compromessi in un'etica che quindi comprendeva la rinuncia e l'insuccesso accettato con la medesima serenità della vittoria. Erano anni in cui la distinzione tra occidentalisti e orientalisti era ancora assai marcata, ma fu proprio quella generazione di alpinisti lombardi, particolarmente i monzesi della "Pell e oss" e i lecchesi dei "Ragni", a fare da ponte tra le due "categorie", il cui terreno di gioco privilegiato andava per l'una dalle Graie alle Retiche, i regni del granito, e per l'altra le Dolomiti, con occasionali puntate incrociate di "mutanti". Su questi scenari alpini all'epoca delle "direttissime" la concorrenza straniera era fortissima, per semplificare tedesca e austriaca a oriente, francese, inglese e americana, portatrice dell'etica dello Yosemite a occidente, e proprio qui, nella catena del Monte Bianco alla fine degli anni '50 Bonatti, Gallieni e Oggioni rappresentarono una punta di diamante con una serie impressionante di prime assolute e invernali, serie interrotta nel 1961 dal noto e tragico tentativo al Pilone Centrale del Monte Bianco, ricostruito negli scritti di Bonatti e Mazeaud. Non è tanto quindi il riproporre la cronaca dell'attività alpinistica di Andrea Oggioni a costituire la validità di una riedizione del libro, considerata sia l'evoluzione del linguaggio, sia quella dell'alpinismo contemporaneo, ove a far notizia è la schiodatura della Via del Compressore al Cerro Torre, bensì il riproporre, in un momento di crisi che ancor prima che economica è crisi dei valori, la figura di un personaggio che sposta l'attenzione dalle imprese alle motivazioni, dall'azione all'animus che le ha ispirate e sostenute. È proprio qui che emerge in tutta la sua ampiezza e profondità l'umanità di Oggioni, che ha interpretato la propria esistenza al servizio del prossimo, nella famiglia, nel lavoro, e nella sua unica grande passione, l'alpinismo. Da questa realtà e dall'ultimo periodo della sua carriera alpinistica può derivare l'impressione che abbia agito in posizione gregaria. Non fu così: fu la sua grande umiltà, unita allo spirito di solidarietà e senso del dovere, che lo spinse ad agire per il bene comune in posizione sussidiaria, nonostante le sue capacità e la sua esperienza fossero pari, se non superiori, a quelle dei compagni di avventura. Se per i credenti i dettati evangelici secondo cui «gli ultimi saranno i primi» e «beati i poveri in spirito» assicurano il regno dei cieli, per i non credenti sono virtù imprescindibili che stanno alla base della pacifica convivenza civile.

Mentre resta immutata l'identificazione della sua figura nel mito dell'eroe anti-eroe degli umili, che difficilmente può rendersi interprete di una proiezione collettiva, la trasposizione nella contemporaneità della storia di Andrea Oggioni acquista un nuovo significato nella riproposta dei valori umani da lui sempre praticati con assoluta naturalezza e semplicità, che Pierre Mazeaud, unico testimone diretto della sua morte, esprime sinteticamente nell'ultimo saluto, quando conclude il suo scritto dicendo: «Lassù, su quella parete, in quella notte, morto, tu avevi lo stesso volto che più tardi ho visto scolpito immutabile, sulla tua tomba, a Villasanta. Un viso d'uomo».

ALESSANDRO GIORGETTA, Febbraio 2012

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Pagina 23

SULLA POIRE CON ANDREA
DI ROBERTO GALLIENI



Con uno stridio di ferri arrugginiti la porticina rivestita di lamiera si aprì. Entrò per primo Bonatti, Oggioni e io lo seguimmo ancora legati. Ben presto i ramponi furono tolti e le corde dondolarono appese al gancio della finestrella. Respirammo di nuovo l'atmosfera austera e claustrale, e nello stesso tempo accogliente e familiare del bivacco fisso della Fourche. Varie volte eravamo saliti quassù noi tre assieme, varie volte avevamo passato la notte insonne al cospetto del Monte Bianco, in questo nido d'aquila, autentico balcone, aperto sulla più grandiosa, nobile e severa parete delle Alpi, la parete della Brenva. Quante volte il suono sgraziato di una piccola sveglia ci aveva tratti a ore impossibili nel cuore della notte dall'agitato dormiveglia che precede l'ascensione. Questa volta però c'è qualcosa di diverso nell'aria. Perché domani, 6 luglio, attaccheremo la via della Poire, forse il più grandioso itinerario che raggiunga la vetta del Monte Bianco.

È tardi ormai, sono le 21,30; fuori tutto è sereno e tranquillo, i ghiacci tacciono imprigionati nella notte, le stelle risplendono vivissime a miliardi. Lontane in basso le luci delle vallate ci portano il profumo e il senso della vita degli uomini. Andrea come al solito si addormenta subito, fortunato lui, capace di dormire in ogni posizione e condizione. Ricordo una volta di un bivacco a 4200 metri sulla direttissima sud-est del Mont Maudit. Walter e io scambiavamo ogni tanto qualche frase per ingannare la dura attesa dell'alba. Andrea stretto in mezzo a noi dormiva imperturbabile, seduto sul ghiaccio. Il mattino dopo si era lamentato che i nostri discorsi gli avevano impedito di dormire d'un sonno solo. Adesso qui siamo tra le coperte, ma non riesco a prendere sonno lo stesso. Sento vicino il respiro regolare di Walter, ma capisco che nemmeno lui dorme.

Alle 22 e un quarto la sveglia suona e il suo duro trillare ci percorre come un brivido tutta la schiena. Andrea, sfruttando il fatto di non essersi tolto gli scarponi un'ora prima, è l'ultimo ad alzarsi. Lentamente calziamo i ramponi e chiudiamo i sacchi. Le pile frontali entrano in azione. L'aria ghiacciata della notte e insieme il cigolare metallico delle punte dei ramponi fuori dal rifugio ci fanno rabbrividire. Poi le calate a corda doppia ci gettano attraverso il ripido pendio sul ghiacciaio pianeggiante. Tutto è gelato e tranquillo, la temperatura è rigida, la neve dura, ottima. Sopra di noi incombe la parete della Brenva. Silenziosamente traversiamo uno dopo l'altro in direzione del Col Moore. Poco dopo mezzanotte siamo al colle. Un passo ancora e il dado è tratto, siamo entrati nell'immenso imbuto ghiacciato che va dal Pilier d'Angle a sinistra, allo Sperone della Brenva a destra, la cui ultima propaggine forma appunto verso il basso il Col Moore.

Siamo tutti e tre commossi nel trovarci ancora qua dentro. È già la seconda volta che valichiamo questo colle, noi tre insieme. La prima volta risale a due anni prima, in una notte di agosto. Allora eravamo diretti alla via della Sentinella sulla destra. Oggi alla Poire, sulla sinistra. Chissà se ci sarà dato di lanciarci nuovamente tutti e tre insieme alla conquista della vetta attraverso la via Major, l'itinerario centrale che completa la fantastica trilogia della parete della Brenva?

Eccoci nella parte bassa della parete. Ora dovremo traversarla secondo una linea obliqua leggermente discendente fin nel suo cuore, fino ai grandi canali centrali, dopo di che risaliremo il canale che porta alla base dell'immensa sagoma nera della Poire che si intravvede nel buio della notte. Entrare in questo imbuto è sempre un atto di coraggio. Enormi seracchi di ghiaccio, veri ghiacciai pensili, sono stretti in alto fra le rocce. Ricevono continua alimentazione dal lento e plastico fluire della calotta terminale del Monte Bianco e a intervalli, quando la temperatura sia relativamente alta, crollano rovinosamente devastando tutta la parete. Guai all'alpinista che si lasciasse sorprendere dal sole sotto il tiro di questi mortai. Guai a chi si avventurasse nell'interno della Brenva senza una temperatura sufficientemente bassa.

Le ore migliori per entrare in questo ambiente sono le ore notturne, quelle che precedono l'alba, quando il tempo sia assolutamente freddo e stabile. L'arma più sicura è la velocità per innalzarsi fuori dai pericoli, prima che il sole accenda le micce alle batterie della montagna.

Percorriamo velocemente la lunga traversata. A un certo momento ci troviamo alla confluenza dei canali della Major e della Sentinella, sotto il tiro incrociato dei rispettivi seracchi. Più oltre interviene il pericolo dei seracchi sospesi della Poire uniti a quelli della Major. Camminiamo col fiato sospeso, per fortuna la parete non è qui eccessivamente ripida. Ben presto comincia la risalita diretta verso le rocce sotto la Poire. Stiamo salendo quasi di corsa per i pendii innevati senza sosta e senza respiro. Siamo assolutamente senza riparo. La nostra unica, ma valida difesa è il freddo che blocca i seracchi, senza il quale mai saremmo entrati in questo regno di ghiacci e di valanghe. Risaliamo ad andatura sostenutissima, sento il cuore martellare furiosamente sotto lo sforzo, il respiro è ansimante, ma non c'è tempo per riprendere fiato, Walter e Andrea, freschi reduci dalle lunghe marce e dagli immensi dislivelli della loro spedizione in Perù salgono più agevolmente. Saliamo tutti e tre insieme. Andrea è immediatamente dietro di me.

Finalmente tocchiamo le rocce, il pericolo diminuisce. Andrea mi fa notare che comincia ad albeggiare. Spegniamo le pile frontali, ma subito le riaccendiamo perché il chiarore del giorno nascente è ancora troppo incerto. Mezz'ora dopo poniamo il piede sui primi salti della Poire vera e propria. Ci fermiamo un momento perché ormai siamo al sicuro. Mangiamo un boccone: ce n'era proprio bisogno. Col fiato ritorna anche il buonumore, Andrea e io ci complimentiamo vicendevolmente per aver ormai compiuto la via della Poire. Walter è fuori dello scherzo perché lui la Poire l'ha già fatta anni fa.

Sembra un controsenso, adesso che siamo praticamente arrivati soltanto all'attacco, ma è così: dal punto in cui siamo non si torna indietro, il ritorno è soltanto attraverso l'alto, attraverso i quasi 1000 metri di parete che ci restano. Chi mai ripercorrerebbe di giorno i canali bassi che abbiamo appena abbandonato? Così il nostro ragionamento prende senso. Volenti o nolenti prima di sera avremo la Poire in tasca.

Abbandoniamo volentieri lo scherzo che in fondo ha un che di agrodolce, e riprendiamo la salita. Siamo ora sul granito compatto e sanissimo della Poire. Walter ci conduce pressappoco sul suo filo centrale. Le difficoltà non sono notevoli, la quota non è eccessiva, siamo sui 4000 o poco più. La giornata è splendida, il sole viene a inondare le rocce con i suoi caldi raggi. Il granito con le mille sfaccettature dei suoi cristalli brilla e luccica al sole, come se partecipasse alla nostra gioia.

Sono felice di essere quassù sulla più bella via del Monte Bianco, con i miei due valentissimi amici. E sono sicuro che anche loro provano gli stessi miei sentimenti. Siamo molto affiatati, ci comprendiamo quasi senza parlare.

Un sistema di rocce rotte innevate ci porta obliquamente in alto verso la parete sud-ovest a sinistra dello spigolo centrale. A un tratto un rombo immane scuote l'aria e squassa la parete. Sulla nostra destra, a destra della Poire precipita dai seracchi superiori, con enorme rimbombo, una immane valanga che percorre come nuvola bianca tutto il canale compreso tra la Poire e lo sperone della via Major. Dove siamo noi, siamo assolutamente al sicuro da pericoli di questo genere, ma non possiamo fare a meno di pensare che abbiamo fatto bene al mattino ad affrettarci tanto per uscire dai canali bassi. Il polverio della valanga sale fino a noi e rinfresca l'aria, poi tutto tace di nuovo. Lentamente guadagnamo quota. Il sistema di rocce rotte continua sempre in salita obliqua verso sinistra, fino a sfiorare il grande seracco di sinistra della Poire. Ormai siamo sotto al Picciolo.

Ci riuniamo una volta tanto tutti e tre su un terrazzino al disotto del muro che porta finalmente al Picciolo. Siamo ormai molto alti. La vicinanza del grande seracco di sinistra è impressionante. Abbiamo la sensazione di toccarlo, e in realtà solo 5 o 6 metri ci separano orizzontalmente da esso. Ogni tanto qualche ghiacciolo si stacca, precipita nel ripidissimo canale che fiancheggia le rocce e va a fermarsi nel grande piano ghiacciato un migliaio di metri più in basso.

Contrariamente alla nostra abitudine ridiamo e scherziamo poco tra noi, oggi. La severità dell'ambiente non lo consente, e perfino Andrea rinuncia a piazzare le sue battute sempre originali e imprevedibili alle quali, nel corso delle molte ascensioni compiute insieme, ci eravamo tanto abituati. Intorno a noi tutto è gigantesco e severo. Vicinissima, la grande parete nord del Pilier d'Angle sembra dare a tutta la Brenva, se ancora ce ne fosse bisogno, il tono della più completa austerità.

Walter attacca deciso il cosiddetto passaggio del Picciolo, effettivamente l'unico passaggio tecnicamente difficile della Poire. Le difficoltà sulla Poire non sono mai forti, qui quello che conta non è la tecnica perfezionata, ma la maturità, l'esperienza e l'insieme delle complesse doti che formano l'uomo. Non esiste il rocciatore o il ghiacciatore, nella Brenva. Esiste solo l'alpinista.

Andrea segue ben tosto, riesco a fotografarlo nel bel mezzo dello sforzo, e questa fotografia perfettamente riuscita sarà sempre per me uno dei più bei ricordi del carissimo amico, colto in uno dei più bei momenti della sua brillantissima carriera. È il mio turno. Si sfiora sul lato il mostruoso seracco; l'impressione è tremenda anche se a essa non si accompagna in pratica, obiettivamente, pari pericolo. Eccoci finalmente sul Picciolo vero e proprio, in bilico fra i due grandi seracchi di sinistra e di destra, finalmente sotto i nostri piedi. Ci riposiamo finalmente un po'. La vista è meravigliosa e spazia lontanissima nella giornata radiosa sino al lontano Cervino.

Ma sulla Poire non c'è tempo per stare tranquilli. Ci attendono i pendii superiori, sempre ripidi fino alla calotta sommitale del Monte Bianco, che si salda con essi tramite una nuova fascia di seracchi che sfuggono verso destra. Dovremo aggirarli sulla sinistra. Prima di raggiungere il seracco terminale incontriamo due altre isole rocciose, l'Aiguille de la Belle Etoile e la Pointe Ultime, che non ci offrono particolari difficoltà. Resta ora soltanto da risalire sino al seracco per una cinquantina di metri il canale terminale che punta alla vetta del Monte Bianco di Courmayeur. Poi aggireremo il seracco e sbucheremo a destra sulla tranquilla e facile cupola del Monte Bianco. Ormai è pomeriggio inoltrato. Il sole nascondendosi dietro la vicina Cresta di Peutérey, abbandona la nostra parete, che è rivolta a levante. Improvvise raffiche di vento gelido ci investono dall'alto provenienti dal canale del Monte Bianco di Courmayeur. Walter è impegnato su un muro di ghiaccio durissimo e vetroso che lo obbliga a un faticoso e lungo lavoro di scalinatura. Fa molto freddo con queste raffiche, Andrea e io siamo riuniti, ancorati in modo piuttosto precario ad alcune roccette sfaldate che affiorano dal ghiaccio. Siamo assicurati a esse con un cattivo chiodo, non possiamo permetterci il lusso di cambiare di tanto in tanto posizione, di sgranchire le membra intorpidite.

Discorriamo di tante cose, mentre sorvegliamo il lento fluire della corda di Walter. Parliamo delle passate e delle prossime ascensioni, parliamo del Pilone di Frêney che tenteremo tra qualche giorno e per prepararci al quale stiamo dando oggi, sulla Poire, l'ultimo tocco alla nostra preparazione. Walter è scomparso alla nostra vista, la corda è quasi terminata. Ancora qualche metro poi dovrò muovermi prima che lui sia arrivato. Sono momenti di grande tensione, questi. La sicurezza di tutti dipende da ciascuno. Siamo sul muro di ghiaccio, prima io, poi Andrea. Procediamo cautissimi insieme, poi udiamo il grido lieto di Walter. È arrivato. In breve siamo anche noi sulla calotta terminale. Siamo circa a 4700 m. L'uscita in vetta nella radiosa e morbida giornata di primo luglio è commovente. Ci abbracciamo con semplicità, cosa che non abbiamo mai fatto prima d'ora. Forse non è soltanto la gioia della splendida ascensione che ci unisce in questo momento. Forse è la consapevolezza che fra qualche giorno saremo nuovamente insieme su questa meravigliosa montagna, impegnati in quella che sappiamo già sarà una durissima lotta sul suo più aspro versante. Non ci siamo mai abbracciati in vetta prima d'ora.

Sono le 4 del pomeriggio. Tutto ciò che si vede intorno, è più basso di noi.


Pochi giorni dopo la vetta del Monte Bianco muterà volto, incendiata dai fulmini, avvolta nelle nubi e nelle nebbie, sommersa dalle nevicate. I suoi fianchi dirupati dilaniati dalle valanghe, scrollati dal vento saranno testimoni della lunga sofferenza e degli sforzi disperati, lungo i duemila metri di un'impossibile discesa, di sette uomini alcuni dei quali prima non si conoscevano neppure e che in quei giorni divennero invece fratelli, uniti dalla vita e dalla morte.

Uno di essi aveva tracciato al tempo dei suoi vent'anni su una arditissima parete delle Dolomiti di Brenta una via che battezzò col nome via della Concordia.

La discesa dal Pilastro Centrale di Frêney suggellò questa concordia e la portò al livello estremo. Lassù tutti si aiutarono l'un l'altro, non foss'altro che per dare al compagno più provato l'unica tazza di brodo caldo o per cedergli la piccozza per sostenerlo quando ci si accorse che cominciava a cedere. Fu una grande prova di concordia e di generosità reciproche per tutti fino al sacrificio, sia per chi giacque sia per coloro per i quali il sacrificio non si realizzò. Se gli uomini si fermeranno un istante nella loro corsa quotidiana per considerare cosa significhi una prova di concordia in circostanze tanto spaventose, si potrà ben dire che l'olocausto alla montagna di Antoine Vieille, di Robert Guillaume, di Andrea Oggioni e di Pierre Kohlman non sarà stato vano.

Gli uomini ricordino: lassù nelle Dolomiti di Brenta esiste a opera di Andrea Oggioni la via della Concordia.

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Pagina 31

NOI SUL PILONE
DI WALTER BONATTI



Rifugio Gamba, alba del 16 luglio 1961. Si apre la porta cigolante. Sulla soglia, contro il vivido grigiore dell'esterno, si stagliano scuri i profili di due uomini che si dirigono verso di me, fra i due non mi è difficile riconoscere l'amico Gaston Rébuffat. Subito mi abbraccia e dalle sue labbra escono parole che non scorderò più per tutta la vita: «Sii forte, Walter, Oggioni è morto, lo stanno portando giù». Mi sento soffocare.

Questo che sto per narrare, è l'ultimo capitolo della luminosa vita del caro Andrea, il resoconto più drammatico della mia esistenza.

Eravamo partiti il pomeriggio del 9 luglio: Andrea, Roberto Gallieni e io, ancora una volta insieme. Meta era l'inviolato Pilone Centrale del Monte Bianco; già da me tentato nel 1953 e con Andrea nel 1959, ma entrambe le volte senza fortuna. Avevamo certamente quell'intima paura che accompagna in tutte le scalate di una certa importanza, ma la nostra preparazione meticolosa ci dava fiducia. Andrea e io eravamo da poco reduci dalla conquista dell'ardito Nevado Rondoy nel Perù, e soltanto tre giorni addietro, con Roberto, avevamo voluto fare insieme un ultimo collaudo raggiungendo la vetta del Monte Bianco per la via della Poire.

Nella serata del 9 luglio dunque, raggiungiamo il bivacco fisso della Fourche, ma qui ci attende un'importante sorpresa: quattro alpinisti sono già alloggiati per scalare, anch'essi, il Pilone: Pierre Mazeaud, Antoine Vieille, Robert Guillaume e Pierre Kohlman. Quattro dei massimi esponenti del moderno alpinismo francese. Non è assolutamente nel nostro spirito di fare della competizione e così pure dei francesi: saremmo quindi ben disposti, seppure rincresciuti, a lasciare via libera a loro, giunti per primi, scegliendo come ripiego un altro obiettivo. Ma è qui che i francesi, oltre a essere bravissimi alpinisti, si rivelano anche veri gentiluomini.

Ne consegue che a mezzanotte esatta partiamo tutti e sette verso il Pilone Centrale in perfetta collaborazione. Siamo disposti così: io in testa, Gallieni in mezzo e Andrea in coda; il compito è di aprire la via attraverso il Colle Moore e la parete di 600 metri di ghiaccio che porta al Colle Peutérey. Dietro, i quattro francesi guidati da Pierre Mazeaud. La scalata è difficile, ma risulta sicura e rapida. L'alba ci coglie quando ormai soltanto venti metri di parete ci separano dal colle. Qui, a circa 4000 metri di quota, a cavallo tra i due versanti più orridi del Monte Bianco: Frêney e Brenva, mentre ci concediamo un po' di riposo al caldo sole, riesaminiamo i materiali. Ora sono i francesi a passare in testa e prima di seguirli, mi calo con Andrea a metà dei Rochers Gruber per recuperare un certo quantitativo di viveri e materiali abbandonati da me e Gallieni tempo addietro.

Il nostro carico diventa così eccessivo. Alle 9 di sera siamo nuovamente tutti riallacciati su due angusti terrazzini a circa 300 metri dall'attacco del Pilone, il punto massimo raggiunto con Andrea due anni prima. Il tempo è splendido: presto la temperatura scende sotto lo zero e il cielo è sereno. La giornata è stata attivissima, il risultato ci lusinga: in circa 24 ore siamo giunti dal rifugio Torino a due quinti del Pilone, che si eleva verticalmente per circa ottocento metri.

Trascorre la nostra prima notte di bivacco, gelida ma serena. Alle 3,30 di martedì le prime luci annunciano il nascere di un'altra alba luminosa. Come la sera innanzi ci prepariamo una tazza di tè bollente: sarà l'ultima di tutta la nostra avventura di otto giorni. I francesi mi propongono di ritornare in testa. Accetto, e un'ora dopo proseguiamo in quest'ordine: io, Gallieni e Andrea la prima cordata: Kohlman e Mazeaud la seconda; Guillaume e Vieille la terza.

Ci arrampichiamo spediti e raggiungiamo la base della cuspide finale verso mezzogiorno, anziché alle due come previsto. Abbiamo notato delle nebbie vaganti sopra noi, ma non ci preoccupiamo eccessivamente, data la quota che ormai abbiamo raggiunto: pensiamo di essere in cima prima di un'eventuale bufera. Invece, il temporale ci coglie in pieno mentre Mazeaud e Kohlman stanno iniziando la scalata della cuspide finale: rimangono solo ottanta metri di monolite strapiombante per uscire dal Pilone e giungere sulla crestina che conduce verso la vetta del Monte Bianco.

Ci raduniamo tutti sulle poche cenge esistenti in quel punto, mentre la tempesta di neve si scatena violenta: tuoni e lampi sfolgorano tutt'intorno, l'aria è satura di elettricità, il vento ci butta sul viso polvere di neve accecante. Siamo a oltre 4500 metri. Noi tre italiani ci sistemiamo su una piccola cengia; i francesi stanno organizzandosi in due gruppi quando all'improvviso Kohlman viene sfiorato al volto da una folgore. Sotto la sferza di fuoco sta per accasciarsi: Mazeaud con un balzo lo afferra e riesce a sostenerlo. Kohlman per alcuni minuti rimane come paralizzato. Cerchiamo della coramina e Mazeaud gliela fa trangugiare. Finalmente il francese si riprende e possiamo finire di sistemarci.

La vetta del Bianco dista da noi non più di dodici ore di scalata. Oltre la cima, oltre la vittoria sul Pilone, ci attendono la capanna Vallot, sicuro rifugio, e una facile discesa verso Chamonix. Basterebbe una breve schiarita di mezza giornata per realizzare questo sogno, ma lassù, in vetta, non ci arriveremo mai.

Comincia a imbrunire. Il temporale è sempre più violento. Siamo chiusi dentro la tendina da bivacco e seguiamo la bufera soltanto attraverso l'intensità dei tuoni. Ora ci si solleva lo spirito sentendoli lontani, ora ci coglie l'angoscia quando abbiamo la sensazione che si concentrino intorno a noi. Attraverso il telo opaco della tendina ci abbagliano i fulmini. Siamo lì pieni di vita, ma assolutamente impotenti contro lo scatenarsi furioso degli elementi. Intorno a noi, assicurato agli stessi chiodi che ci sorreggono nel vuoto, sta appeso tutto il materiale alpinistico per la scalata: chiodi, ramponi e piccozze non potrebbero diventare miglior esca per i fulmini. Vorremmo buttarli via, ma come faremmo a scendere o a salire se ce ne privassimo? Nessuno parla: ognuno si concentra in se stesso.

Proprio mentre pensiamo per l'ennesima volta che siamo affidati al caso, sentiamo come una forza che ci vuol strappare le gambe. Siamo stati sfiorati tutti dalla folgore. Urliamo selvaggiamente. Siamo vivi, ma ormai sappiamo che la tempesta può incenerirci da un momento all'altro. Ci chiamiamo per accertarci che ci siamo tutti. Segue una pausa terrificante di vuoto: sappiamo che essa prelude a una ulteriore concentrazione di elettricità che inevitabilmente esploderà ancora su di noi.

Pochi minuti dopo si ripete in modo ancor più violento, sbalzandoci quasi dalla parete, l'urto già provato. Una voce fra le grida concitate mi giunge perfettamente chiara: «Dobbiamo fuggire!». Non mi rendo conto se sia Andrea o Gallieni. È la disperazione che fa pronunciare queste parole, ma rispecchia il nostro stato d'animo. Ho la sensazione netta che siamo perduti, credo sia un pensiero comune.

Miracolosamente il temporale sembra allontanarsi. Ora si ode soltanto il picchiettare della neve gelata sul telo gommato che ci ricopre. Rimaniamo inerti, apatici: non guardiamo neanche fuori, e fuori c'è già buio. Nessuno parla, non mangiamo, rimaniamo indifferenti a tutto quello che succede. La neve che cade, che pure è una cosa gravissima, ci dà quasi sollievo: ci siamo salvati dai fulmini e siamo vivi.

L'assoluta immobilità e la lunga permanenza nella tendina ci fanno mancare il respiro. Laceriamo una parte del telo per respirare avidamente. La nostra tenda è ormai sepolta dalla neve e il calore dei nostri corpi ha creato nel suo interno gocce di umidità, che con gli sbalzi di temperatura si trasformano ora in acqua, ora in cristalli di ghiaccio. Non voglio guardare l'orologio per non essere sorpreso dal lento trascorrere del tempo. Non si parla fra noi, si sentono soltanto dei lamenti dovuti ora alla scomodità della posizione, ora al freddo, ora al senso di soffocamento che ci tormenta. Dei francesi non sappiamo nulla, ma gli stessi lamenti ci giungono ogni tanto dal loro bivacco.

Passa tutta la notte e un chiarore lattiginoso annuncia l'alba del mercoledì. Soltanto allora ci sporgiamo dalla tenda e restiamo colpiti dalla quantità di neve caduta nella notte. I francesi accanto a noi sono addirittura sprofondati in essa. Kohlman, sul terrazzino più sotto, si è già rizzato in piedi e appare come una macchia scura contro l'orizzonte incandescente, che pare annunciare una giornata splendida. Ci invade una sensazione di felicità: l'enorme quantità di neve caduta, il gelo terribile sono forieri di buon tempo. In breve ci troviamo tutti fuori dai nostri giacigli, pronti a partire per l'ultimo tratto. Smontiamo la tendina, ma, mentre stiamo mettendola via, improvvisamente — non so ancora adesso da dove siano spuntate queste nebbie — ci troviamo avvolti nella bufera. Il vento fortissimo fa turbinare tutta la coltre di neve fresca, non ci rendiamo conto se stia nevicando o se sia soltanto opera del vento. Ci infiliamo nuovamente nel nostro telo, e così fanno i francesi.

Nella schiarita di poco prima avevo scorto che la neve era caduta fino a bassa quota. Non potevamo credere che, dopo tanto nevicare, potesse ancora ritornare la tormenta. I francesi mi chiedono cosa intendo fare. Rispondo di attendere, sempre nella speranza di poter arrivare in vetta, la via più breve per la salvezza. Viveri ed equipaggiamento non ci mancano, possiamo star fermi. In questa stagione il maltempo non può durare tanto a lungo e l'idea di una discesa così pericolosa e complessa in mezzo alla tormenta ci spaventa, considerando che in mezza giornata possiamo uscire dall'alto.

Mazeaud, che più d'ogni altro gode ascendente sui suoi compagni, scambia poche parole con me e mi propone di partire noi due assieme non appena una schiarita lo consenta. Il nostro compito sarebbe quello di attrezzare con chiodi e corde gli ultimi ottanta metri strapiombanti, per poi far salire gli altri cinque compagni. Restiamo d'accordo così, ma la schiarita non verrà mai. Mangiamo un po' di prosciutto, un po' di arrosto e marmellata, ma non riusciamo a bere niente perché nella tormenta è impossibile accendere il fuoco per preparare il tè con la neve.

Continua a nevicare, le ore sono sempre uguali. Tra i tanti pensieri che si accavallano nella mia mente cerco di ricordare altri momenti, simili a questo, in cui il maltempo mi ha bloccato in montagna. Ricordo che mai la bufera è durata più di un giorno o due. Perciò dico a me stesso: «Un giorno è già passato, la bufera non può durare più di altre ventiquattro ore. Si tratta solo di far passare quest'altra giornata, poi finalmente ci muoveremo».

La permanenza in questa scomodissima posizione, rannicchiati l'uno addosso all'altro, in uno spazio che potrebbe contenere a malapena una persona, si fa sempre più insopportabile. Non si può alzare il capo, non ci si può piegare su un fianco, nella costante inclinazione la spina dorsale pare spezzarsi. In queste condizioni è facile cadere in preda al nervosismo. Ci sono dei momenti in cui si vorrebbe strappare l'involucro che ci imprigiona, ma guai se lo facessimo! Andrea, Gallieni e io parliamo: parliamo di tutto, ricordi, progetti, speranze, amicizie, cose liete, cose brutte, pur di ingannare il tempo e di distrarci.

Andrea mi dice: «Ti ricordi in Perù quando si diceva: "Verrà il giorno che ci troveremo sul Pilone?"». Me lo dice in senso ironico, perché allora pensavamo che sulle montagne di casa nostra tutto sarebbe stato meno problematico, mentre ora ci troviamo nelle medesime condizioni del Rondoy, che abbiamo dovuto superare in mezzo alla tormenta, per due giorni e due notti senza alcun riparo. Gallieni è l'uomo delle vitamine: dà a tutti pastiglie, specialmente di vitamina C e vitamina A, per sopperire alla carenza di alimentazione. Ne dà anche ai francesi per mezzo di una rudimentale teleferica che abbiamo costruito con le corde, e vi aggiunge dei viveri. I quattro ne sono un po' a corto.

Ci coglie la necessità di orinare. È impossibile uscire dalla tendina. Proponiamo a Gallieni di sacrificare il suo casco di plastica privo di fodere e lo adoperiamo a turno. È una cosa paurosa: dobbiamo contorcerci, tenerci l'un l'altro per non precipitare. Nell'operazione impieghiamo mezz'ora; abbiamo le gambe nel vuoto, i vestiti ci ostacolano.

Quando tutto è terminato è mercoledì sera. Continua a nevicare sempre più forte. Dall'interno della tenda chiedo a Gallieni, che è verso il bordo: «Da che parte tira il vento?». Mi risponde: «Sempre da ovest». Questo vuol dire bufera. Mazeaud pieno di vitalità e iniziative, mi grida: «Non appena fa bello, andiamo su io e te. Se pensi che sia meglio uscire a sinistra, tenteremo senz'altro da quella parte». Andrea, che non sa il francese, mi domanda cosa ha detto. Glielo spiego e lui è d'accordo. Lo rallegra l'idea che andremo via. Mazeaud mi chiede ancora: «Ritieni possibile di tentare l'uscita verso l'alto anche con il tempo non eccessivamente bello?». Lui sa che dalla vetta del Bianco saprei discendere con qualunque tempo, com'è già avvenuto in altre circostanze. Rispondo di sì, ma che bisogna attendere ancora un'altra notte, perché in cuor mio mi sento quasi certo che domani la bufera terminerà.

Il nostro respiro si trasforma nella tenda in vapore acqueo e siamo tutti fradici. Penso con terrore cosa potrà succederci quando sopraggiungerà il gelo intenso che precede il bel tempo: mi auguro di saperlo sopportare. Dedicheremo qualche ora a riscaldarci al sole prima di iniziare l'ultimo balzo. Non si riesce a dormire. La notte ci coglie quasi di sorpresa. Siamo nervosi. Gallieni incomincia a parlare dei suoi figlioletti. Io sono col pensiero tremila metri più in basso, nell'intimità di casa mia, con i miei affetti. Andrea parla di Portofino: non c'è mai stato e dice: «Noi alpinisti siamo proprio dei disgraziati... con tutte le cose belle che ci sono al mondo, veniamo a cacciarci in queste situazioni...». Gallieni dice: «E pensare che a Milano Marittima ho una casa accogliente e un mare così semplice: ti butti nell'acqua calda e non hai neanche il disturbo di dover nuotare perché l'acqua è bassa. Puoi camminare per chilometri e chilometri...». Andrea maschera la sua preoccupazione con frasi scherzose: è il più tranquillo all'apparenza. Sono certo che, con me, è l'unico a rendersi veramente conto che siamo in un momento disperato.

Passa la notte tra il mercoledì e il giovedì. In mattinata Mazeaud entra nella nostra tenda, perché il telo di plastica che ricopriva i loro sacchi da bivacco si è rotto sotto la sferza del vento. Con mille contorcimenti riusciamo a sistemarci e passiamo la giornata. Cerchiamo di farci coraggio e ci diciamo che domani, venerdì, sarà bello, ma non ne siamo molto convinti. Nel mio intimo studio già il metodo più sicuro per calarci lungo la via di salita: per me la vetta del Pilone è ormai irraggiungibile. Non lo dico ai compagni per non gettarli nella disperazione.

Abbiamo una sete tremenda, che dobbiamo spegnere mangiando neve. Ne facciamo delle pallottoline, che rosicchiamo continuamente. Pensiamo alla bellezza di un rubinetto a casa che si apre e dà tutta l'acqua che vogliamo. È paradossale che fra tanta neve ci si debba sentire bruciare dalla sete. E col gelo della neve la bocca arde e si piaga.

Così passa la giornata di giovedì e giunge la notte. Durante quelle lunghe ore di buio Andrea e io, che siamo i più appartati, soffriamo particolarmente di mancanza d'aria. A lui solo confido la mia intenzione di scendere a ogni costo. Lui accetta, ma ne è spaventato. Passa anche la notte di giovedì. Avevo messo la sveglia sulle 3,30. A quell'ora, infatti, sentito il trillo del mio orologio da polso, grido a tutti: «Bisogna discendere a ogni costo. Non possiamo rimanere oltre, altrimenti sarebbe troppo tardi, ci mancherebbero le forze».

Sta sorgendo l'alba di venerdì e la bufera continua ininterrottamente da oltre sessanta ore. Non si vede niente. Nebbia e neve si confondono e formano un muro impenetrabile. Smontiamo tutto e abbandoniamo un po' di materiale. Io sono senza piccozza, che un compagno ha fatto precipitare per errore il primo giorno. Cominciamo la discesa a corda doppia. Abbiamo deciso che io devo aprire la cordata attrezzando le calate. Dietro di me verranno tutti gli altri: Mazeaud, col compito di aiutare chi ne avrà bisogno, poi gli altri e infine Andrea, il quale, forte della sua esperienza, chiuderà la cordata recuperando le corde.

Alle 6 esatte mi calo nel vuoto grigio e tempestoso, quasi alla cieca, senza sapere dove giungerò. Mi sembra di essere in un mare in burrasca. I vortici di neve mi danno la sensazione del capogiro. Devo badare a ogni particolare e cercare di riconoscere ogni piega della roccia per orientartisi. La manovra è lunghissima, e ancor più l'attesa che dall'alto mi facciano pervenire il materiale per la successiva calata. A volte restiamo ammucchiati, incollati a un chiodo in quattro o cinque, sospesi nel vuoto.

Le calate si susseguono con ritmo penoso, però ci avvicinano sempre più alla base del Pilone. Siamo fradici e gelati. Sentendo il soffio sordo di alcune slavine comprendo di essere al termine del Pilone, ma è ormai pomeriggio avanzato. Per stanotte non ci rimarrà che preparare un bivacco sul Colle di Peutérey, che forma la base del Pilone. Mettiamo piede sul pianoro, ma la neve sul colle è straordinariamente alta: alle volte arriva fino al petto. Per poco mando in testa Mazeaud, seguito da tutti gli altri compagni. Io sto fermo per dare la direzione. A un certo momento il gruppo pare arenarsi in un banco di neve altissima. Li raggiungo. Passo in testa, e mi dirigo, per istinto, verso il luogo dove penso opportuno bivaccare. Pur non vedendolo, sento di averlo come fotografato nella niente. Dietro di me è Andrea col quale discuto sulla opportunità di scegliere quale protezione un crepaccio piuttosto che costruire un igloo, perché la neve è inconsistente. Questo non per noi, che disponiamo della tendina da bivacco, ma per i quattro francesi che ne sono sprovvisti. Decidiamo per il crepaccio e lo diciamo ai francesi, i quali accettano il nostro consiglio.

Prima che scenda la notte dal venerdi al sabato, dopo dodici ore di calata a corda doppia, siamo tutti sistemati per il bivacco. Fra tutti il più provato appare Kohlman. Lo sistemiamo nella nostra tendina. Guillaume, con quello che rimane di una sua bomboletta di gas liquido, gli prepara del té caldo e glielo dà. Fa un freddo atroce. Il vento soffia costantemente e fa turbinare la neve: questa è la peggior notte fra tutte. Dividiamo tra tutti i viveri rimasti: prugne secche, cioccolato, zucchero e un po' di carne ormai gelata. Andrea rifiuta la carne e preferisce la marmellata, Tutti gli altri, invece, la mangiucchiano. Kohlman mi mostra le dita delle mani: sono livide. Ritengo opportuno che se le massaggi con l'alcool da ardere, che è rimasto quasi intatto. Gli passo la borraccetta dell'alcool: se la porta alla bocca e comincia a trangugiarlo. È un gesto inconsulto, ma penso abbia scambiato l'alcool per un liquore. Gli strappo la borraccia: sarà riuscito a bere un paio di sorsi. Siamo già agli inizi della pazzia?

C'è buio pesto, il nostro bivacco è un inferno: tutti si lamentano, hanno brividi di freddo, il vento urla, la neve cade sempre più fitta. Dobbiamo scrollare ogni tanto la tendina altrimenti ci opprimerebbe col suo peso. Tento di accendere il fornello ad alcool, ma, sempre per la mancanza d'aria, devo desistere, e, come nei giorni scorsi, dobbiamo limitarci a mangiare neve per dissetarci. Siamo disperati, ma nessuno parla. Andrea mi dice: «Facciamo una promessa: se veniamo fuori da questa avventura, dimentichiamoci che esiste il Pilone». Gli dico di sì.

La notte passa così, lentissima, in mezzo alla disperazione. Alla stessa ora del giorno precedente, le 3,30 del sabato al suono della mia sveglietta ci alziamo da quell'incomodo giaciglio. Vogliamo guadagnare tempo e toglierci da quella spaventosa situazione, che sembra non avere più fine. Nella notte sono caduti altri sessanta centimetri di neve fresca. Partiamo in mezzo alla tormenta: tutti sembrano aver sopportato bene il quarto terribile bivacco. Ormai non è neanche più necessario che mi consigli con i compagni: tutti si affidano a me e mi sento addosso il grave peso della guida che, oltre il cliente, dovrà ricondurre tutti verso la salvezza attraverso l'unica via possibile, i pericolosissimi Rochers Gruber. Dobbiamo arrivare alla capanna Gamba, la nostra meta, entro la sera, altrimenti è quasi certa la fine per tutti.

Prima di partire, Robert Guillaume fa un'iniezione di coramina a Kohlman. Io, intanto, seguito subito da Andrea e da Gallieni, incomincio ad aprirmi un cunicolo nella neve altissima, in direzione della via prescelta per la discesa. Siamo legati in un'unica cordata, in quest'ordine: io, Andrea, Gallieni, Mazeaud, Kohlman, Vieille e Guillaume. La parete nevosa che precede i Rochers Gruber è spaventosamente carica di neve fresca, che potrebbe trasformarsi in slavina da un momento all'altro. Invito i compagni a raggiungermi rapidamente e a mettersi al riparo in modo che mi possano trattenere con la corda se una slavina mi coglie e mi trascina giù mentre taglio il canalone per raggiungere i Rochers Gruber. Ci riesco. Chiamo gli altri che passino a uno a uno, ma quando è il turno di Vieille questi non ce la fa. Cade e si rialza continuamente, dando segni di sfinimento. Guillaume gli è accanto e lo spinge, gli toglie il sacco che abbandona sul pendio, ma Vieille sembra assente ai nostri appelli.

Un'ora dopo, e soltanto trenta metri più sotto, Vieille muore lentamente. Ancoriamo alle rocce il corpo del povero compagno, dopo averlo avvolto nella tendina da bivacco, e tutti col cuore gonfio, pur senza un lamento, riprendiamo le calate. Intanto ha ricominciato a nevicare.

Approfittando del momento in cui ci troviamo tutti e sei agganciati al medesimo chiodo, raccomando la massima celerità per tutte le operazioni che seguiranno, se non vogliamo far la fine di Vieille. Andrea, come sempre, è il mio braccio destro e chiude il gruppo. Porta lo zaino carico come me, Mazeaud e Guillaume. Gallieni, il cui zaino è stato ancorato con le cose superflue al chiodo che sostiene il corpo di Vieille, porta a turno quello dei compagni. Mazeaud, il più forte e autoritario dei francesi, ha il compito di incitare i suoi amici.

Non è trascorsa un'ora che ci giungono delle voci. Io mi sono calato in basso e al momento penso siano i miei compagni più sopra. Presto, invece, mi convinco che qualcuno sta cercandoci dal ghiacciaio più sotto. Rispondo con altre grida e invito i miei compagni a urlare tutti insieme, affinché ci possano sentire. Dai richiami che vengono dal basso comprendo che vogliono comunicarmi qualcosa, ma la bufera non mi permette di capire. A mia volta ho la certezza che dal basso non riescano a comprendere ciò che io chiedo, ossia: dove essi sono e se ci odono. Andiamo avanti con lo spirito più sollevato.

Fino presso il termine dei Rochers Gruber non succede niente, ma qui, mentre sto cercando di piantare un ennesimo chiodo per l'ultima calata a corda doppia, Andrea, improvvisamente accusa l'inizio di quella crisi che gli sarà fatale: un grido soffocato dietro le mie spalle mi fa voltare di scatto e giungo miracolosamente in tempo ad abbracciarlo mentre sta scivolando inerte lungo gli ultimi metri della corda doppia. Già da alcune calate avevo notato che Andrea mi seguiva subito appresso, quasi estraneo alle operazioni di discesa. Povero Andrea, ora che per la prima volta da quando abbiamo incominciato la ritirata, lo osservo attentamente da vicino, scopro tutta la sua sofferenza ed è teso in volto come se accennasse a un involontario sorriso, tipico di chi sta resistendo solo per forza di volontà. Vorrei interrogarlo, incoraggiarlo, ma che può dire chi è nelle sue stesse condizioni? Ci limitiamo a guardarci a lungo, desolati.

L'ultimo scivolo ghiacciato e il salto della relativa crepaccio terminale, viene superato con una lunga corda fissa che io tengo saldamente a spalle durante la calata di tutti i compagni. Quando raggiungo il termine dei Rochers Gruber, verso le 15,30, calcolo che da ieri mattina, quando abbiamo iniziato la calata, fino a questo momento abbiamo compiuto almeno cinquanta discese a corda doppia.

Una breve schiarita ci lascia vedere tutta la superficie del caotico ghiacciaio Frêney. Quanta neve è caduta! Ma nessuna traccia la solca, ciò significa che non vi è passata alcuna squadra di soccorso. Da dove provenivano le voci? Non vediamo nessuno e ripiombiamo nella più nera disperazione. Forse per noi tutto è finito. Eravamo convinti che le voci provenissero dalla base dei Rochers Gruber, e questa idea ci aveva dato la forza di superare le terribili difficoltà e i pericoli di questo difficilissimo passaggio. Siamo invece soli, alla base dei Rochers Gruber, e abbiamo davanti a noi ancora tutta la strada piena di incognite fino al rifugio Gamba.

Comincia la lenta e penosa discesa del ghiacciaio. Ci rifiutiamo di accettare la sorte avversa. La neve continua a essere altissima. Neppure nelle scalate invernali ricordo di averne incontrata tanta. Ciò che lasciamo dietro di noi non è una pista, ma un cunicolo. Fortunatamente le nebbie si vanno alzando, la visibilità migliora gradatamente. Ciò mi permette di entrare sicuro nel dedalo dei crepacci che porta verso il Colle dell'Innominata, ultima asperrima difficoltà sulla via della salvezza. Ma la neve profonda ci rallenta talmente il cammino che disperiamo di arrivare ancora con la luce alla base del colle.

Mi sento morire dalla fatica, dal dolore fisico, dal gelo, ma rifiuto di lasciarmi andare.

La fila si allunga, Andrea si accascia ogni pochi passi, stremato dallo sforzo. È senza zaino, che ha passato a Gallieni. È a volte ultimo, a volte penultimo. Siamo legati gli uni agli altri, ma andiamo avanti senza badare a niente, brancolando sul ghiacciaio disordinatamente, ubriachi di fatica. Mi rendo conto che difficilmente in quelle condizioni riusciremo a giungere con la luce del giorno alla base del Colle dell'Innominata. Gallieni, subito dietro di me, appare il meno provato. Decido di slegarmi con lui dal gruppo e di precedere i compagni il più rapidamente possibile, per attrezzare il canalino ghiacciato dell'Innominata: altrimenti i compagni, in quelle condizioni, non potranno mai salire, e l'operazione dell'attrezzatura va compiuta prima di notte.

I compagni seguono le nostre tracce in quest'ordine: Mazeaud, Kohlman, Andrea, Guillaume. Intanto attacco le terribili difficoltà di ghiaccio che incrostano il canalino dell'Innominata. Fra mezz'ora sarà notte fonda e ancora sto lottando per guadagnare il colle. Quando i compagni ci raggiungono formiamo nuovamente una sola cordata: io, Gallieni, Andrea, Mazeaud e Kohlman. Guillaume non è arrivato. La nostra unica possibilità è di raggiungere, finché ci rimane un po' di forza, le squadre di soccorso. Solo loro potranno tentare di salvare chi resta indietro.

Raggiungo il Colle dell'Innominata che è buio pesto. È sabato sera, sono oltre le ventuno e siamo fuori da sei giorni. Riprende a cadere il nevischio e da occidente ci arrivano i bagliori di un temporale che si sta avvicinando. Non ho la possibilità di fissare alcun chiodo per ancorare la corda che sorregge i miei quattro compagni. Sostengo la corda a spalle. Invoco i compagni di far presto. L'operazione, invece, è lunghissima, disperata. Gli ordini si accavallano con i lamenti di dolore e di disperazione. Dietro Gallieni, Andrea sembra incapace di reggersi alla roccia. Gallieni cerca di aiutarlo in ogni modo, sorretto a sua volta dalla corda che tengo con le mie spalle. I due francesi sono giù in fondo che gridano e smaniano.

È il caos. Passano tre ore e siamo sempre allo stesso punto. Non posso muovermi, ogni tanto la corda mi dà degli strappi e per poco non mi butta nel vuoto. Il dolore della corda e del freddo mi fa quasi venir meno. Se crollo è la fine per tutti. In queste tre ore Andrea non è riuscito a muoversi dal punto in cui era arrivato. Ogni incitamento sembra vano. Andrea risponde con un lamento ogni tanto: è come in trance. È agganciato con un moschettone al chiodo: dovrebbe staccarsene e lasciarci campo libero di tirarlo su. Ma non ha la forza di farlo, e forse è già così stremato che non riesce neanche a connettere. Vorrei calarmi fino a lui, ma mi è impossibile, dovendo reggere saldamente a spalle la corda che lo sostiene assieme a Gallieni. Alla fine, non potendo far altro, Gallieni si assicura che Oggioni sia ben fissato al chiodo, slega la corda che lo unisce a lui e ai francesi per raggiungermi e potersi calare rapidamente con me verso le squadre di soccorso. Andrea rimane legato con una corda al forte Mazeaud, cui gridiamo di attendere e di badare ai compagni che tra poco saranno soccorsi.

Mentre compiamo questa operazione vediamo Kohlman che nel buio brancola lungo le corde sulla parete ghiacciata, slegato. Viene verso di noi e supera, con la forza della disperazione che rasenta la pazzia, Mazeaud, Andrea e Gallieni. Gallieni, intuendo la sua follia, riesce ad afferrarlo e agganciarlo alla corda. In breve ci troviamo tutti e tre sul Colle dell'Innominata. Kohlman ci dice che ha fame e sete, e poi soggiunge: «Dov'è il rifugio Gamba?». È completamente fuori di senno, ma non possiamo abbandonarlo.

Lo leghiamo in mezzo. Inizia a calare per primo Gallieni, seguito da Kohlman, il quale pare aver dimenticato ogni misura di prudenza. Il pendio è ripidissimo, difficile, ghiacciato. Per i primi cinquanta metri ci lasciamo scivolare lungo una corda fissa (come sapremo in seguito venne lasciata da due alpinisti americani), poi proseguiamo con i soli nostri mezzi. Ma Kohlman diventa sempre più pericoloso. Si lascia scivolare sul dorso, completamente appeso alla corda, senza adoperare i ramponi. Al termine della corda continua ancora a rimanervi appeso e io lo devo reggere, mettendomi nell'impossibilità di raggiungerlo. Quando finalmente la corda si alleggerisce, perché lui si è attaccato a qualche parete, uno strappo improvviso mi dice che si è staccato di nuovo, con il rischio di farci precipitare tutti.

Non servono incitamenti né insulti a scuoterlo. Pronuncia frasi sconnesse, gesticola, infine ci assale furente. Quattrocento metri prima di giungere al rifugio Gamba, in luogo ormai sicuro, siamo costretti a dividerci dal povero compagno ormai completamente impazzito, al fine di non perdere più neanche un minuto. Pensavamo di riuscire a calarci in un'ora: con l'incidente di Kohlman invece ne sono già passate tre.

Come dei relitti, brancolando quasi carponi nella oscurità assoluta e impastata di neve, raggiungiamo finalmente il rifugio Gamba. Sono riuscito ad arrivarvi soltanto perché conosco questa zona come casa mia. Giriamo intorno al rifugio battendo con le mani alle finestre. Giungiamo alla porta d'ingresso mentre si odono dei passi all'interno e una mano alza il chiavistello. La porta si spalanca: ci appare l'interno del rifugio a malapena illuminato da un piccolo lume. È pieno di gente che dorme. Scavalco alcuni corpi senza riconoscere nessuno. A un tratto uno scatta in piedi e grida: «Walter, sei tu?». Allora è tutto un accorrere di gente, ci troviamo soffocati dagli abbracci.

Grido: «Fate presto! C'è n'è uno qui fuori! Gli altri sono nel canalino dell'Innominata! Fate presto!». Sono le tre della notte sulla domenica. La tormenta non cessa un attimo. Mi sdraio sul tavolo al centro del rifugio. Ci tolgono dai piedi i ramponi gelati, ci spogliano, ci mettono indumenti asciutti, ci danno bevande calde. Cado in un profondo sopore. Quando mi sveglio sono passate circa tre ore. I corpi dei miei compagni sono stati raccolti a uno a uno, meno Vieille. Ancora mi riecheggiano nei timpani le parole di Rébuffat: «Sii forte, Walter, Oggioni è morto». Pochi minuti dopo entra il caro Mazeaud, il solo che hanno trovato vivo. Mi abbraccia e piange con me.

Da quel terribile giorno sono passati degli anni. Ma nel pianto, nel ricordo, nel grande vuoto che Andrea ha lasciato intorno a me, è come se il tempo si fosse fermato.

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LE MANI SULLA ROCCIA


IL DIARIO ALPINISTICO DI ANDREA OGGIONI



Chi fu il mio primo compagno di cordata? Non lo so. Sembra una cosa ridicola, eppure non lo so: di lui so soltanto che si chiamava Luigi, e con lui scalai per la prima volta la via normale del Fungo sulla Grigna Meridionale.

La faccenda era nata nell'estate del 1948. Allora andavo quasi tutte le domeniche in Grignetta: appassionato di montagna sentivo il desiderio di cimentarmi in scalate. Il fatto è che ero molto giovane e non riuscivo a trovare nessuno un po' pratico di ascensioni che mi portasse con sé. Dal canto mio non potevo prendere alcuna iniziativa: ero completamente inesperto di roccia e di tecnica di alpinismo. Mi mancavano i mezzi finanziari, e per me era tabù comperare una corda; ma una domenica, avutane una fra le mani, mi recai confidente in Grignetta. Tenevo il mio trofeo in spalla, e questo mi faceva sembrare qualcuno; anzi mi sentivo già un alpinista. Ora avevo soltanto bisogno di un compagno e, dato che io avevo la corda, speravo di trovarlo con facilità.

Davanti alla chiesetta notai un individuo molto alto, magro, pallido, impaziente, sembrava che aspettasse qualcuno. Anche lui si accorse della mia presenza (io avevo la corda...) e cominciò a osservarmi con molto interesse. Incoraggiato dal suo sguardo, mi avvicinai.

«Sto aspettando da un'ora il mio compagno di cordata per poter scalare il Fungo, invece mi ha fatto un "bidone"», gli dissi.

«Anch'io», rispose. «Aspetto un amico che non si fa vedere».

Presi la palla al balzo, e, visto che i nostri fantomatici amici non si facevano vivi, decidemmo di scalare il Fungo.

Qualche ora più tardi siamo alla base di questo nostro obiettivo: dobbiamo legarci. Chi farà il capo cordata? Come si farà a salire? Lui dice di non essere un alpinista; speriamo che non lo sia come non lo sono io...

Il mio amico era indeciso e pensieroso: forse pensava la medesima cosa. Lo guardo e con tranquillità dico: «Non preoccuparti, sono un esperto di scalate; legati da capo-cordata così io dal basso potrò correggerti e darti dei consigli».

E così avviene. Il mio capo-cordata si alzava metro per metro tremando, mentre io mi affannavo a incoraggiarlo e a dargli consigli. Dal mio canto, con un pezzo di corda davanti, salivo veloce, come se fossi davvero un esperto. Sulla cima mi complimentai con lui dicendogli: «Vedi, sei quasi come me».

Ora si trattava di scendere a corda doppia: io naturalmente non sapevo come si dovesse fare, ma per questo c'era sempre il mio compagno, lui almeno conosceva la tecnica della discesa. Piazzata la corda con fare esperto, gli dissi:

«Scendi prima tu, così io copro la ritirata».

Poco dopo anch'io comincio a scendere, sfruttando per imitazione la manovra e i movimenti del mio compagno. Dopo qualche ora di avventure tragicomiche su quel pezzo di corda da bucato, raggiungemmo la base.

Da allora il mio primo compagno di cordata, "Luigi", non lo vidi più.

Io continuai con altri compagni: finché ebbi la fortuna di inserirmi in un gruppo di rocciatori monzesi e di stringere subito amicizia con Josve Aiazzi, che più tardi doveva diventare il mio inseparabile compagno.

In breve arrampicai con sicurezza da capo-cordata. Più tardi feci la conoscenza di Walter Bonatti; lui era completamente digiuno di alpinismo: lo invitai ad arrampicare con me, e in poco tempo si dimostrò un rocciatore formidabile.

Qualche mese dopo, sempre in compagnia di Walter e di Josve, avevo già scalato tutte le più difficili vie della Grignetta.

Questa montagna, con le sue ascensioni di 5° e 6° grado, era diventata il mio banco di prova: e, vedendo che queste salite non mi impegnavano estremamente, cercavo vie sempre più difficili. I miei compagni, Josve e Walter, erano armati anch'essi di forza e volontà.

Una domenica di maggio per provare le nostre doti, ci mettemmo in testa di ripetere per la prima volta la difficilissima via Sant'Elia al Nibbio.

Ci riuscimmo in breve tempo, tracciando anzi una nuova variante diretta: cioè invece di spostarci a destra sotto lo strapiombo e di rientrare a sinistra sopra di esso, lo superiamo direttamente. Battezziamo il passaggio "lo strapiombo delle lumache": per averne trovate parecchie in fondo alla larga fessura.


La domenica seguente andiamo ai torrioni Magnaghi: vogliamo provarci definitivamente. Ci avventuriamo sulla difficilissima via Rochin aperta da Ercole Esposito: essa, data la compattezza della roccia e la grande difficoltà nel chiodare, aveva respinto tutti i tentativi dei migliori rocciatori della Grigna.

Fu una scalata estremamente seria; la chiodatura era per me in quel momento un lavoro molto complicato, ma mi andò bene. Pianto tre chiodi poco sicuri in tre piccoli buchi, ci assicuriamo, tutti e tre, e per proseguire facciamo su quei tre chiodi una piramide umana di tre persone. Siamo così "delicati" in questa manovra da non muovere un solo chiodo. La vetta è raggiunta in sole sette ore.

Sento ora di essere tecnicamente preparato per pareti ancor più impegnative.

Ma sono abbastanza esperto? Credo di no. So solo di avere una forza eccezionale: l'esperienza l'acquisterò col tempo.

Il mio primo obiettivo è la parete sud del Croz dell'Altissimo.

Ne avevo sentito parlare con molto rispetto: si trova nelle Dolomiti di Brenta, e piomba vertiginosa per 1100 metri, sulla testata della Valle delle Seghe. Questa parete aveva respinto per decenni tutti i tentativi dei migliori alpinisti trentini: finché la cordata composta da Oppio, Colnaghi e Guidi, tutti rocciatori lombardi, riuscì a superarla in quattro giorni.

La massima difficoltà consisteva in una placca di trentacinque metri, posta a trecentocinquanta metri dalla base e che richiese a Oppio e compagni una giornata e mezza di durissimi sforzi.

E questa è l'impresa che volevo tentare. L'idea si era così fortemente radicata in me da diventare quasi un'ossessione. Ma le 84 ore passate in parete dai primi salitori rappresentavano per me qualcosa di più delle brevi arrampicate in Grignetta; questo mi turbava parecchio: ce l'avrei fatta?

In compagnia di Josve Aiazzi e Walter Bonatti, lasciai Monza un pomeriggio, per raggiungere Madonna di Campiglio.

Raggiungiamo il rifugio Brentei sotto una gelida pioggerella. Quella notte ci toccò dormire nel solaio: il rifugio era zeppo.

Il giorno seguente ci portiamo al Pedrotti: qui una visione stupenda ci affascina e ci sgomenta; la grande parete sud del Croz dell'Altissimo è lì di fronte in piena luce con tutta la sua imponenza. Ammirandola mi smarrisco; è la prima vera grande parete della mia vita.

Una guida locale, conosciuto il nostro programma, ci dà consigli e ci augura buona fortuna. La ringraziamo, e proseguiamo per la nostra strada: a tarda sera siamo al rifugio Selvata. Stanchi per il lungo cammino, ci ritiriamo nelle nostre cuccette.

Alle due del mattino successivo sveglia e partenza: ci accompagna l'amico Giulio Viganò, che avendo assistito alla prima ascensione ci fornisce utili indicazioni: alle 5 e 30 siamo all'attacco.

Salutiamo il nostro accompagnatore, e iniziamo la scalata per una cengia erbosa che porta al centro della parete. Attacco prima un camino alto 5 o 6 metri che richiede subito l'uso dei chiodi e, mentre sono impegnato, piomba a valle una valanga di sassi: appiattiti contro la roccia, attendiamo che la scarica sia passata. La montagna ci ha inviato il suo saluto mattutino. Non lo abbiamo molto gradito.

Arrampichiamo per tutto il giorno su una serie di fessure e camini di roccia tonda e difficile, sino a che giungiamo alla base della famosa placca; qui in posizione scomoda ma sicura prepariamo il nostro primo bivacco. Passiamo la notte seduti. Siamo stanchi non per l'arrampicata, quanto per la lunga marcia di avvicinamento: abbiamo raggiunto Madonna di Campiglio in camion, abbiamo attraversato il gruppo del Brenta con madornali sacchi sulle spalle per raggiungere la parete; e, inoltre, questo è il mio primo bivacco in parete. Forse sarà l'emozione, o qualche cosa d'altro, certo non riesco a prendere sonno: perciò mi metto a riflettere un poco sulla nostra situazione. Finora tutto è andato nel più liscio dei modi ma c'è un inconveniente, i sacchi... Sono troppo pesanti per una salita del genere. Tirarli su: con la corda costa uno spreco inutile di energie; portarli sulle spalle come si fa? Comincio a capire che il materiale e i viveri per questa nostra prima esperienza su una lunga e difficile ascensione sono troppi. Infatti abbiamo con noi la bellezza di 180 metri di grossa corda di canapa, 60 moschettoni, 60 chiodi, e i viveri. Nientemeno che 8 litri di tè, tre chili di zucchero, tre chili di prugne secche, carne, pomodori, cioccolato, e altro compreso gli indumenti che sono residuati militari della guerra 1940/45. Tutto questo lo dobbiamo portare sulle spalle anche in arrampicata.

Nel silenzio della notte ogni tanto alzo lo sguardo per scrutare nelle tenebre la placca che ci sovrasta, fredda e repulsiva, chiusa in alto da un piccolo soffitto.

All'alba partiamo: attacco la placca deciso a passare a tutti i costi; la roccia è molto compatta, salgo lentamente piantando dei chiodi poco sicuri entro piccoli buchi. Solo dopo un delicatissimo passaggio riesco a piantare un chiodo veramente buono, sul quale mi alzo trovandone un altro lasciato dai primi salitori: ora mi è possibile far salire Bonatti presso di me. Quando Walter è sicuro sui chiodi di fermata, riprendo la salita sull'altra metà della placca. La roccia è diventata ancora più compatta, gli appigli sono rarissimi. Noto una fessura superficiale; vi appoggio un chiodo che però al primo colpo di martello schizza via; un secondo segue la stessa sorte; il terzo va meglio pur entrando solo pochissimo; questo per me è sufficiente, poiché le forze stanno esaurendosi; è quindi con un sospiro di sollievo che aggancio il cordino di sicurezza. Poco più in alto mi trovo alle prese con il soffitto, lo devo aggirare verso sinistra chiodandolo dal di sotto: guardando verso il basso vedo una serie di chiodini a 30 centimetri di distanza l'uno dall'altro, credo che si sarebbero sfilati tutti come turaccioli al primo piccolo strappo.

Comincio a essere stanco di questa placca... da 6 ore sono alle prese coi suoi trenta metri e non ha nessuna intenzione di cedere. Alla fine un chiodo un po' più sicuro mi permette un momento di riposo. Dopo aver superato ancora una liscia paretina, raggiungo finalmente un piccolo ballatoio.

Ora sono finalmente a posto; i miei compagni mi raggiungono molto velocemente, e così dopo sette ore di estenuante fatica ci troviamo riuniti sopra il delicatissimo passaggio.

Siamo tormentati dalla sete, ma non per questo meno decisi a proseguire la nostra salita: continuiamo per altri 100 metri relativamente facili, quando, tutto a un tratto, si scatena un temporale con tuoni e grandine e acqua in quantità. Se non altro possiamo almeno dissetarci un poco senza dar fondo alla nostra riserva di tè. Col ritorno del bel tempo riprendiamo l'arrampicata, saliamo veloci, man mano che ci innalziamo le difficoltà riprendono.

Infiliamo lunghi colatoi che superiamo in pressione; usiamo questa tecnica data la caratteristica conformazione della roccia; essa è formata a bugne tonde, perciò le mani fanno poca presa. A 250 metri dalla vetta installiamo il nostro secondo bivacco. In confronto al primo è veramente comodo; la sete però ci tormenta e a tratti veniamo presi da brividi di freddo: perché il tempo sia più veloce nel passare, cantiamo.

All'alba siamo di nuovo pronti; siamo sempre più assetati ma decisi a farla finita. Saliamo disperatamente, quasi di corsa, verso rocce finalmente più facili: ma la cima è ancora lontana; il bosco sottostante è diventato molto piccolo; il vuoto sotto di noi è impressionante: oltre 1000 metri. Finalmente dopo qualche altro tratto di corda, la vetta è raggiunta. Un commosso abbraccio suggella la nostra vittoria. Riordiniamo velocemente i nostri attrezzi e poi precipitiamo per la lunga, ma facile discesa, alla ricerca di acqua, troviamo finalmente una pozzanghera calda, verdognola, con muffa, ma tanta è la sete che beviamo fino a saziarci. Proseguiamo la discesa su Molveno, e a sera sprofondiamo in soffici letti sognando naturalmente la nostra prima riuscita in una ascensione "importante".

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Ora studiamo il sistema per tracciare una nuova via che porti in cima al Monte Bianco: quella del Pilastro Rosso del Broilà. Il nome è stato dato da noi per il suo granito rossastro e la sua caratteristica di enorme pilastro. È un grosso torrione slanciato che si alza dal tormentato ghiacciaio del Broilà per circa 450 metri: finisce a una selletta, staccato da una parete meno difficile che porta sulla vetta del Picco Luigi Amedeo. Seguendo poi la complicata cresta del Broilà, si raggiunge la vetta del Monte Bianco. Sarebbe questo il nostro programma.

Non so quante volte siamo saliti al rifugio Gamba: so solo che ogni volta il tempo non era in condizioni ideali. Finalmente una notte, preannunciandosi più fredda delle altre, ci fa sperare in un tempo stabile. Lasciamo il rifugio Gamba alle due: percorriamo il tratto di morena al chiaro di luna e quindi entriamo sul tormentato ghiacciaio. Calziamo i ramponi e la marcia prosegue nel silenzio della notte: nessuno di noi due parla, si ode soltanto il caratteristico rumore dei ramponi che mordono il ghiacciaio, e il regolare e forte respiro delle nostre narici. Ora siamo quasi nella più assoluta oscurità, la luna nascosta da un costone roccioso manda i suoi raggi lontano. Un colpo secco: un tonfo al cuore e una precipitosa fuga verso sinistra nel vasto imbuto che forma il canalone ghiacciato. I ghiaccioli del seracco caduto ci sfiorano lasciandoci illesi. Ci guardiamo in faccia senza parlare, ma nei nostri occhi si nota la stessa espressione: ancora una volta l'abbiamo scampata bella.

Ci alziamo sempre più per il complicato ghiacciaio. Si fa giorno e noi siamo ancora alle prese coi delicati ponti di neve che nascondono i numerosi crepacci.

Walter, per passare uno di questi ponti molto sottili, deve strisciare avanzando delicatamente sotto la mia continua sorveglianza. Il ponte potrebbe rompersi e quindi è facile vedere sparire da un momento all'altro l'amico, perciò occorre rimanere sempre in una buona posizione di sicurezza. Poco dopo è la mia volta. Ora che il ponte è superato occorre proseguire in fretta, prima che i raggi del sole abbiano a sconvolgere il ghiacciaio.

Alle otto rimontiamo la calotta che porta all'attacco del granitico pilastro. Una sosta per prepararci e riordinare anche le idee.

Magnifica è la visione che si gode da questo punto: ma osservando il ghiacciaio e osservandolo bene ci viene da dire che difficilmente si potranno rimettere i piedi per una seconda volta su questo labirinto tanto si presenta complicato.

Il primo ostacolo che offre il Pilastro Rosso è il suo attacco. Un piccolo diedro offre una fessura facile da chiodare, ma completamente coperta di ghiaccio: Walter deve impegnarsi in un lungo lavoro di pulitura a colpi di piccozza. È un lavoro degno di lui. Al termine di questo diedro ci riposiamo su un comodo terrazzo; ora la parete è esposta al sole, il granito è caldo, perciò conviene iniziare la nostra scalata sulla lunga serie di diedri che forma la struttura del Pilastro.

Avanzo subito veloce prendendo il comando della cordata: Walter mi segue immediatamente recuperando i chiodi. Le difficoltà si susseguono alternate: a volte complicate e a volte molto comode da superare. Il maggior ostacolo è dato dal ghiaccio che staziona nelle larghe fessure. Un tiro di corda complicato ci fa perdere del tempo: ma anche questo è risolto. Si va su sempre molto veloci: la fascia centrale coperta di ghiaccio è anch'essa presto superata; al termine di essa raggiungiamo due comodi terrazzi.

È quasi sera: la posizione per bivaccare è comoda, ma si potrebbe ancora proseguire: e poi se non troviamo il posto per bivaccare? Bonatti decide di salire un tiro di corda e di lasciare una corda fissa per il giorno dopo. Così avviene, e prima che tramonti il sole ci infiliamo nei nostri sacchi in attesa che passi la notte.

Siamo seduti su due piccoli terrazzi: uno sopra l'altro, cioè Walter è un metro sopra di me, e coi piedi nel vuoto, come se fossimo seduti su un muretto, cerchiamo di far passare le ore rivivendo un poco le nostre avventure.

Frattanto il cielo si è fatto nero: una folta nuvolaglia grigia si avanza da ovest: poco dopo ecco le prime folate di nebbia. Peccato, stanotte non avremo la luna.

Più tardi succede quello che per tutta la giornata non avevamo previsto: nevica; nevica proprio, un fitto nevischio turbina intorno a noi. Rimango immobile e in silenzio nel mio sacco.

Anche Walter non dice niente: credo stia meditando come faccio io.

Dopo qualche ora comincia il monotono lavoro di scrollatura della neve che ci sta seppellendo sul terrazzo. La notte comincia a essere interminabile e la continua caduta di neve ci preoccupa seriamente. Sono pensieri tetri quelli che ci passano per il cervello. Sappiamo di essere su una parete molto lontana da qualunque posto di soccorso: e se noi fossimo in condizioni di chiedere aiuto, saremmo uditi? E anche se ci sentissero, saranno in grado i soccorritori di salire per portare aiuto? Mi vengono i brividi. Sembra ridicolo, ma l'unica cosa cui riesco a pensare è la mia moto. Uno strano pensiero che mi tiene occupato per tutta la notte. Se dovessi morire quassù assiderato, chissà come faranno i miei genitori a recuperare la moto che ho lasciato in fondovalle.

Su una parete così, circondato da mille insidie, pensavo alla moto... almeno fosse una bella ragazza!

Al mattino, quando usciamo dai sacchi, nevica ancora: tutto ciò che ci circonda è coperto. Sappiamo che la nostra salvezza è giù nella valle, fuori dal percorso del ghiacciaio. Bisogna raggiungerlo a tutti i costi, se no addio.

Non leviamo gli indumenti che ci sono serviti per passare la notte: abbiamo freddo e per il momento ci riparano ancora. Walter risale il tratto attrezzato con la corda fissa: la recupera e ritorna nuovamente sul terrazzo. Ora comincia la lunga serie di discese a corda doppia. L'unica nostra preoccupazione per il momento è di piantare bene i chiodi; per il resto vedremo.

Sono discese complicate che ci fanno perdere del tempo prezioso: ma cosa conta il tempo quando c'è in gioco la pelle? Niente. Grazie alla completa fiducia che abbiamo l'uno verso l'altro e alla nostra esperienza, moralmente rimaniamo tranquilli. Si lavora fra questo elemento freddo che ostacola i movimenti, e su questo granito coperto di insidioso vetrato come se fossimo impegnati in una fabbrica tanto è la nostra abitudine, ma naturalmente è un lavoro sempre rischioso.

Il ghiacciaio è raggiunto: ora bisogna percorrerlo. È completamente cambiato e, naturalmente, in peggio: la spessa coltre nevosa ostacola la marcia, e il crollo di parecchi ponti ci fa girare per parecchie ore sulla bocca dei voraci crepacci.

A un certo punto, Walter avanza sdraiato, strisciando su una neve diventata pesante, e, sotto, numerosi sono i crepacci nascosti. Tenendo la corda in tiro, a mia volta seguo la manovra del compagno, e proseguiamo così sotto l'incessante nevischio che turbina intorno a noi.

Quando arriviamo alle rocce della Punta Innominata, sappiamo di essere salvi, e trovare il rifugio è cosa certa, seppure ancora difficoltosa. Alle 10 di sera possiamo ripararci dentro le sue pareti di legno.

Ancora una volta il Bianco ci ha messi alla frusta: ma ancora una volta siamo usciti incolumi dalla brutta avventura.

A casa di Walter non si dorme. Il Pilastro Rosso è entrato a far parte della nostra vita: forse esagero, ma è così; e la signora Bianca deve sopportarci con rassegnazione, tanto da pregare che il giorno della conquista arrivi presto.

Partiamo nuovamente: il tempo sembra si sia rimesso; osservando il Pilastro lo si vede abbastanza pulito da incrostazioni di ghiaccio.

Saliamo al rifugio Gamba con tutto il materiale, ma vedendo il tempo diventato ancora incerto, ridiscendiamo: è una sbalorditiva corsa; di notte nel breve tempo di due ore, raggiungiamo Courmayeur, a piedi, percorrendo tutta la Val Veny.

Nel pomeriggio risaliamo nuovamente al Gamba. Un breve riposo e a mezzanotte, al chiaro delle lampadine tascabili, lasciamo il rifugio. Non entriamo subito sul ghiacciaio del Broilà: la seraccata che ci ha sfiorato è ancora fresca nella nostra memoria. Risaliamo le roccette della Punta Innominata fino a raggiungere il tormentato ghiacciaio molto più in alto. E finalmente, eccoci all'attacco.

Walter attacca il suo camino lavorando di piccozza, mentre io attendo nel fondo del canalino. È un lavoro faticoso quello di Walter: lo vedo impegnato al massimo, finché raggiunge il comodo terrazzo. Ora è la mia volta: comincio a salire il piccolo canalino, ma ho percorso solo pochi metri che sento Walter gridare ad alta voce:

«Attento, Andrea!!...».

Guardo istintivamente in alto e vedo una gran cosa luccicante precipitarsi verso di me, sento un enorme colpo in pieno viso e quindi un grande calore. Quando mi riprendo, sento il sangue colare dal naso e da alcune parti del viso: comprendo che un enorme candelotto di ghiaccio staccatosi dall'alto mi ha colpito in pieno, lasciando le tracce del suo passaggio sulla mia faccia. Raggiungo Walter che subito si dà da fare per incerottarmi la fronte, naturalmente incoraggiandomi; poi mi batte una mano sulla spalla dicendomi:

«Anche questa volta ti è andata bene».

Prendo il comando della cordata e cominciamo subito ad arrampicare molto veloci, senza soste: i chiodi entrano nella roccia sotto decisi colpi di martello e le lunghezze di corda si susseguono una dopo l'altra. Alle 13 e 30 il punto massimo del precedente tentativo è raggiunto. Raggianti acceleriamo ancora l'andatura superando altre difficoltà, strisciando in verticale su placche ghiacciate. Sembra una corsa tra il sole e noi; siamo noi che vinciamo: prima che il sole tramonti, la vetta del Pilastro Rosso è raggiunta.

All'intaglio che divide il Pilastro dalla cima del Picco Luigi Amedeo, ci diamo alla ricerca di un posto da bivacco. Poco dopo siamo sdraiati su due terrazzini consumando una magra cena.

Mi infilo nel sacco e subito cado in una specie di dormiveglia che durerà tutta la notte. Walter non dorme: a intervalli mi chiama, dandomi notizie di carattere meteorologico. Sembra che questa notte il cielo lo interessi in modo particolare. Walter mi informa ancora che all'orizzonte ci sono delle strane formazioni di nuvole. Il suo intuito gli fa presagire una bufera.

Ne è sempre più convinto e non vuole indugiare oltre. Così, alle cinque, nonostante la temperatura ancora rigida, siamo già impegnati sul fianco ghiacciato che porta sul Picco Luigi Amedeo. Sono tre ore e mezza di arrampicata su medie difficoltà: ma sono anche tre ore e mezza di sguardi inquieti verso le Grandes Jorasses e il gruppo dell'Aiguille Verte, su cui a nostro parere soffia già la tormenta.

Alle 8 la sommità del Picco Luigi Amedeo è raggiunta. Non ci fermiamo molto: via, via per la cresta del Broilà tanto più che la tormenta si avvicina sempre più. Il percorso sulla cresta del Broilà è complicato per la serie di passaggi ostacolati da cornici e crestine di ghiaccio: alle 11 la vetta del Bianco è a portata di mano: ma proprio in questo momento si scatena il finimondo. La tormenta ci colpisce proprio sulla cima: sembra che ci aspettasse in agguato, e ora si scatena con tutte le sue forze; è quasi una beffa, oppure che la tormenta si sia presa l'incarico di farci pagare la via nuova da noi aperta?

La visibilità è ridotta a meno di dieci metri, il vento è fortissimo, il nevischio toglie il respiro e acceca. Sopraggiungono anche i fulmini: ecco il vero pericolo. Vibriamo come se fossimo investiti da continue scariche elettriche, l'acciaio della piccozza sobbalza nella mano contratta: abbiamo paura di essa perché sappiamo che attira i fulmini, ma non possiamo abbandonarla. Quante volte siamo presi dalla voglia di fare un buco nella neve e buttarci dentro, ma si corre un altro pericolo, quello di congelarci i piedi. Avanziamo sempre penosamente nella bufera: l'unica speranza è di passare sulla massima vetta del Bianco e di scendere sul versante francese per raggiungere la capanna Vallot, nostra salvezza.

Un colpo di vento fortissimo mi chiama alla realtà: lo segue un altro, poi un altro ancora più forte e gelatissimo. Appena si placa un poco, Walter mi guarda, per la prima volta da quando siamo in parete la sua faccia è irriconoscibile: ma fra due fessure di granelli di ghiaccio vedo brillare i suoi occhi; poi fra l'ululare del vento lo sento gridare.

«Andreal... Siamo sulla vetta!...».

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