Copertina
Autore Michael Ondaatje
Titolo Divisadero
EdizioneGarzanti, Milano, 2008, Nuova biblioteca 56 , pag. 288, cop.ril.sov., dim. 15x22x3 cm , Isbn 978-88-11-68608-8
OriginaleDivisadero [2007]
TraduttoreBarbara Bagliano
LettoreElisabetta Cavalli, 2008
Classe narrativa olandese , narrativa canadese
PrimaPagina


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Pagina 15

Nei pressi della capanna del nonno, sull'alta cresta da cui si domina un pendio coperto di ippocastani, Claire è in groppa al suo cavallo, avvolta in una spessa coperta. Si è accampata lì per la notte dopo aver acceso il camino di quella piccola costruzione che il nostro antenato eresse più di una generazione fa, e nella quale visse come un eremita o un animale solitario quando arrivò in questo paese per la prima volta. Era uno scapolo pieno di sé, che alla fine entrò in possesso di tutta la terra su cui correva il suo sguardo. A quarant'anni si sposò controvoglia ed ebbe un figlio, a cui lasciò questa fattoria sulla via per Petaluma.

Claire si sposta lentamente sulla cresta sovrastante le due vallate piene di bruma mattutina. Alla sua sinistra c'è la costa. Alla sua destra la strada per Sacramento e le cittadine del delta come Rio Vista, con i suoi abitanti giunti fin lì ai tempi della corsa all'oro.

Convince il cavallo a scendere giù per il pendio, attraverso la nebbia bianca che si addensa tra gli alberi. E da più di venti minuti che sente odore di fumo, e alla periferia di Glen Ellen vede il bar del paese in fiamme: il piromane locale deve aver colpito di buonora, quando era certo di trovarlo vuoto. Lei osserva la scena da lontano, senza smontare. Raramente Territorial, il cavallo, ti permette di risalire in sella: gliela puoi fare solo una volta al giorno. I due, l'amazzone e l'animale, non si fidano del tutto l'una dell'altro, anche se il cavallo è il miglior alleato di mia sorella. Lei usa i trucchi più subdoli per farlo smettere di scalciare e sgroppare. Porta con sé sacchetti di plastica pieni d'acqua, si china in avanti e glieli sbatte sul collo, così l'animale crede che si tratti del proprio sangue e per un po' si calma. Quando Claire è in groppa a quel cavallo non zoppica più e ha l'universo ai suoi piedi, una vera centaura. Prima o poi incontrerà un centauro e lo sposerà.

Passa un'ora prima che l'incendio si estingua. Il Glen Ellen Bar è sempre stato un posto di risse, e anche adesso si vede gente che si azzuffa per le strade, forse per rendere omaggio al luogo. Lei fa avvicinare il cavallo agli umidi rami rossicci di un cespuglio di madrona e ne assaggia le bacche, poi cavalca fino in città, lasciandosi l'incendio alle spalle. Passando lì accanto, sente le ultime travi crollare col fragore di un rombo di tuono e galoppa via.

Di ritorno a casa, passa accanto a un vigneto punteggiato di macchinari dall'aspetto preistorico che producono aria calda per evitare che le viti gelino. Dieci anni prima, quand'era ragazza, l'aria era riscaldata da falò che bruciavano tutta la notte.


Quasi ogni mattina avevamo l'abitudine di andare in cucina e senza fare rumore tagliarci spesse fette di formaggio. Mio padre beveva un bicchiere di vino rosso. Poi andavamo alla stalla. Coop era già lì, impegnato a rastrellare la paglia sporca, e cominciavamo subito a mungere le vacche, poggiando la testa sul fianco dell'animale. Un padre, le sue due figlie di undici anni e Coop, il bracciante, di poco più grande di noi. Nessuno aveva ancora detto una parola, si sentiva solo il rumore dei secchi o dei cancelli che si aprivano.

All'epoca Coop parlava poco, producendosi in monologhi a bassa voce destinati più a sé che agli altri, come se non padroneggiasse la lingua. Fondamentalmente descriveva quello che vedeva: la luce nella stalla, dov'era meglio scavalcare la staccionata, quale pollo bisognava circondare, acciuffare e ficcarsi sotto il braccio. Claire e io stavamo ad ascoltarlo ogni volta che potevamo. All'epoca Coop era un libro aperto. Ci rendevamo conto che i suoi modi taciturni non dipendevano da un desiderio di solitudine, ma da un'insicurezza nel parlare. Nel mondo reale si sapeva muovere, e ci proteggeva. Ma nel mondo delle parole era il nostro allievo.

A quei tempi, noi sorelle ce ne stavamo quasi sempre per conto nostro. Papà ci aveva tirato su da solo ed era troppo indaffarato per rendersi conto dei nostri problemi. Era soddisfatto quando sbrigavamo le faccende e montava su tutte le furie quando non riusciva a trovarci. Dalla morte di nostra madre, era Coop che ascoltava le nostre lamentele e i nostri capricci, e che si faceva da parte quando pensava che avessimo bisogno di attenzioni. Per nostro padre, Coop era quasi invisibile. Voleva farlo diventare un buon allevatore e nient'altro. Coop, però, non faceva che leggere libri sui campi auriferi e sulle miniere d'oro della California nordorientale, su coloro che avevano rischiato tutto nell'ansa di un fiume e avevano trovato una fortuna. Naturalmente eravamo nella seconda metà del XX secolo e lui era in ritardo di un centinaio d'anni, ma sapeva che c'erano ancora affioramenti d'oro, nei fiumi, sotto l'erba mazzolina, sulle sierra dove abbondavano i pini.

Su uno scaffale del magazzino della fattoria c'era un libro, un volumetto con la costa bianca. Interviste con le californios: donne del passato e dei giorni nostri. Siccome la maggior parte delle donne era analfabeta, gli archivisti della Berkeley si erano messi in viaggio armati di registratori per catturare quelle vite, e l'atmosfera del passato. La monografia includeva estratti che andavano dai primi dell'Ottocento fino ai giorni nostri, dalla «Dettatura di Doña Eulalia» alla «Dettatura di Lydia Mendez». Lydia Mendez era nostra madre. Lì, in quel libro, scoprimmo la donna morta la settimana che io e Claire eravamo nate. Di noi tre l'aveva conosciuta solo Coop, che lavorava alla fattoria fin da quando era bambino. Per Claire e me lei era un aneddoto, un fantasma che nostro padre menzionava raramente, un'intervista lunga un paio di paragrafi e una fotografia in bianco e nero sbiadita.

Tutte le persone che comparivano nel libro avevano una grande umiltà, la consapevolezza che la storia era attorno a loro, non dentro di loro. «Siamo cresciuti nella Great Central Plain, a nordest di Los Angeles, dove mio padre lavorava nelle cave di asfalto. Mi sono sposata che avevo diciotto anni e quella notte non abbiamo smesso un attimo di ballare sulle note di La voquilla e El grullo... mio marito diceva che il violinista e il chitarrista erano i migliori della regione. Il tavolo imbandito era stato sistemato nei pressi della grande roccia, nel pascolo. Il padre di mio marito era arrivato a San Francisco trent'anni prima, e mi è stato raccontato che quello stesso giorno aveva preso il piroscafo per Petaluma e costruito questa casa. Quando sono arrivata qui c'erano un migliaio di galline da uova. Ma mio marito non voleva che altri lavorassero nella fattoria, così abbiamo tenuto solo le mucche da latte e ci siamo messi a coltivare il grano... le volpi uccidevano le galline e proteggerle richiedeva troppi sforzi. Nelle colline vivevano altri animali: linci rosse e coyote, serpenti a sonagli nei boschi di sequoie, e una volta ho visto persino un leone di montagna. Ma la nostra maledizione erano i cardi. Cercavamo di cimarli. I vicini non lo facevano mai a dovere, e i semi dei loro cardi volavano nella nostra proprietà.

«In fondo alla strada per Petaluma c'era un tizio che possedeva un centinaio di capre, un uomo gentile. A volte veniva a far pascolare gli animali nei nostri campi: era una particolare razza di capre di piccola taglia che mangiava i cardi e con la digestione rendeva innocui i semi, triturandoli correttamente. Questo una mucca non lo fa. Una mucca mangia i cardi e i semi rimangono negli escrementi. Per chi detestava i cardi, quell'uomo era la salvezza... Nella fattoria accanto alla nostra c'è stato un delitto orribile. La famiglia Cooper è stata massacrata da un bracciante agricolo che li ha uccisi a bastonate. All'inizio nessuno sapeva chi tosse il colpevole, ma il figlio è rimasto nascosto per alcuni giorni sotto le assi del pavimento. Aveva quattro anni e alla fine è uscito fuori e ha raccontato tutto. Noi abbiamo preso il bambino in casa e l'abbiamo messo a lavorare nella fattoria.»

Questo è tutto ciò che abbiamo come ritratto di nostra madre. Qualunque altro suo pensiero o considerazione rimane lontano e insondabile. Ha parlato più che altro di fatti che le sono capitati, così ci è rimasto solo il suo affetto per l'uomo delle capre, la breve gioia provata ballando con il marito, i dettagli dell'omicidio avvenuto nella fattoria vicina in seguito al quale Coop è entrato a far parte della nostra famiglia. In quelle pagine non c'è niente che riveli qualcosa delle sue passioni, della sua intelligenza o bontà. Aspetti che per nostro padre devono essere stati come una stella polare. Solo due paginette scarse su quella californio, discendente dei coloni di lingua spagnola, destinata a morire di parto all'età di ventitré anni.

Quel che manca nel volumetto bianco è lo strano gesto che fece nostro padre nel caos che circondò la morte di lei, quando prese con sé una bambina nata nello stesso ospedale dove sua moglie stava partorendo - la figlia di un'altra donna, morta anch'essa - e portò entrambe le piccole a casa, allevando l'altra, che chiamò Claire, come fosse figlia sua. Così ci sarebbero state due bambine, Anna e Claire, nate la stessa settimana. La gente pensò che fossero entrambe figlie sue. Ecco quale decisione maturò nostro padre alla morte di Lydia Mendez. La madre dell'altra bambina non doveva avere parenti, era sola; forse per questo gli era stato consentito di prenderla con sé. Era un ospedale da campo alla periferia di Santa Rosa e, per dirla brutalmente, gli dovevano una moglie, gli dovevano qualcosa.

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Pagina 71

Stava seguendo un sentiero fitto di ginestre spinose, il viso e i capelli chiari illuminati a intermittenza dalla luce che filtrava dagli alti rami di quercia; dall'incidente di qualche giorno prima, quando si era imbattuta in quattro uomini con fucili e cani, camminava a passo spedito. Quei tizi erano fermi a discutere a un piccolo crocevia nel bosco, sbraitando all'unisono, e quando lei era passata loro accanto le avevano rivolto pesanti apprezzamenti in francese, che aveva fatto finta di non capire ma che in realtà aveva compreso perfettamente. Quell'atmosfera minacciosa l'aveva innervosita ma, nonostante quell'episodio, Anna non aveva rinunciato alle sue passeggiate pomeridiane. Prendeva il sentiero che attraversava il bosco, arrivava alla radura e poi seguiva il fiume fino alla strada asfaltata, a mezzo chilometro di distanza dal villaggio di Dému. Era una camminata che sconfinava quasi in una corsa. Arrivata a Dému, faceva spesa di generi alimentari, li infilava nello zaino e tornava a casa. A quell'andatura arrivava a destinazione in un'ora e mezzo. La casa era un manoir che aveva preso temporaneamente in affitto. All'inizio aveva pensato che potesse trattarsi di uno château, ma non era esattamente così. Non era mai stata in uno château francese, come non aveva mai visto un cane da caccia fino a quando, quel pomeriggio, non si era imbattuta in quegli uomini minacciosi.

Anna trascorreva la maggior parte delle giornate seduta al tavolo della cucina, a leggere i manoscritti di Lucien Segura, tra cui i suoi diari. Un tempo in quel manoir aveva abitato lo scrittore, e lei si era ritrovata a condurre con lui una sorta di discreta danza contrappuntistica. Al punto che, quando alzava lo sguardo, le ci voleva qualche istante per riconoscere la stanza nella quale si trovava: fino a quel momento era stata impegnata a disseppellire e a verificare dettagli della vita di quell'autore francese, scavando sotto la superficie del suo lavoro. Uno dei suoi colleghi avrebbe descritto quello che stava facendo con l'espressione «spazzare la casa del traduttore». E lei sapeva che se fosse salita su per la scala di pietra e avesse girato a sinistra entrando nella camera da letto del francese, avrebbe potuto guardare i rami della grossa quercia sottostante come probabilmente aveva fatto lui anni prima, mentre si vestiva accanto alla finestra.

Una volta alla settimana arrivava madame Q con suo marito. Spolverava la casa senza fare rumore, mentre monsieur Q ispezionava il giardino, raccoglieva i rami caduti e sistemava le aiuole. Lui era anche il postino del paese. Rimanevano tutta la mattina e poi se ne andavano. Quando la casa era disabitata, i due venivano più spesso e si comportavano come guardiani a tempo pieno. Adesso, scendevano dalla loro Renault 4 e portavano notizie su come andava il mondo, sui politici della zona, sulle varie guerre. Monsieur Q scrutava i campi e decideva che poteva evitare di occuparsene per un'altra settimana, mentre madame Q cercava di insegnare ad Anna i rudimenti dello stufato di coniglio, assemblando un unico grosso piatto che le avrebbe consentito di non cucinare nulla per altri tre giorni.

Il marito, con la pipa in bocca, percorreva il perimetro del giardino cintato verificando quanto fosse stata efficace la potatura degli alberi. In ultimo faceva il giro della casa fino alla porta aperta che dava sul prato retrostante e, attraverso il vano, vedeva Anna china sul tavolo impegnata a scrivere o a leggere un grosso volume, senza mai alzare lo sguardo, ignara dell'uomo a qualche metro di distanza. Lui scuoteva la testa e si allontanava. La moglie gli aveva detto che quella donna veniva dagli Stati Uniti. Quando l'americana si alzava era alta quanto lui, i capelli chiari lunghi fin sulle spalle. Aveva un aspetto sano e robusto. Gli domandò nel suo francese approssimativo quali fossero i posti migliori per passeggiare, e lui le disegnò una mappa con i sentieri più belli, fatta di itinerari che si snodavano tra le altre proprietà e attraversavano il fiume. Le ricordò di tenere chiusi tutti i cancelli. Il proprietario del manoir, non appena arrivava, se ne andava sempre da qualche parte: a prendere un floc in una distilleria d'Armagnac o a sbrigare qualche altra faccenda. Ma quell'ospite era diversa. Non aveva alcun desiderio di passare il suo tempo in città. Era contenta dov'era. Poteva chiacchierare per mezz'ora con loro il giorno della settimana in cui venivano al manoir, ma poi tornava al suo tavolo, ai suoi libri. Lui sapeva che di tanto in tanto lei andava in paese. Col suo lavoro di postino, viaggiava tutto il tempo, ce l'aveva nel sangue. Rimanere a casa tutto il giorno gli sembrava innaturale. Così quando lei gli chiese di entrare nella stanza sul retro e lo scortò lungo lo stretto corridoio che portava in cucina, dove vide la porta aperta che portava ai pascoli dai quali la settimana prima l'aveva osservata mentre era al lavoro, e dove ora lei gli porgeva un foglio di carta, lui disegnò una mappa precisa e in scala - il suo lavoro gli aveva insegnato le distanze esatte in chilometri, i confini delle proprietà e il percorso dei torrenti. Disegnò il rettangolo della casa e un piccolo ovale che rappresentava l'orto di erbe aromatiche, poi ricreò il mondo esterno, e per finire tracciò i colli e i boschi popolati da cervi, tralasciando i posti che era meglio evitare, quelli gremiti di turisti. Nelle parole di Anna quella mappa era la sua «custode», e un giorno avrebbe potuto incorniciarla e appenderla nel salotto di Divisadero Street, a San Francisco; era un nucleo di ricordi privati. Da qualche parte nella sua testa, sapeva che nella peggiore delle ipotesi sarebbe sempre potuta tornare a rifugiarsi lì.


Nelle sue passeggiate Anna portava la mappa con sé. Da quando si era imbattuta nei quattro cacciatori, al posto della gonna indossava i jeans, e aveva accorciato di dieci minuti il suo giro di un'ora e mezzo. Ma in quel tratto, fra le siepi di ginestre, il sentiero era dissestato, disseminato di pietre, e fu costretta a rallentare il passo. Lasciato il sentiero inciampò in una pianta di ginepro, che rilasciò il suo profumo. La luce del sole filtrava attraverso gli alberi e lei, quando si fermò ad ammirare il paesaggio, udì una musica.

Sentì cantare una donna. Se avesse pensato che lì potevano esserci degli uomini, non avrebbe seguito quel suono. Ma la tentazione era forte. Una voce di donna, una melodia senza struttura, quasi troppo casuale per essere bella, anche se la voce era limpida come l'acqua. Anna rimase ferma dov'era per un altro po'. Vide un passero saltellare maldestramente da un ramo all'altro, un principiante in quel genere di attività. S'incamminò verso la radura, fermandosi un paio di volte, cercando di riconoscere la melodia.

Arrivò in un campo dove c'era una donna accompagnata da un uomo seduto su una sedia dallo schienale rigido che suonava quella che sembrava una chitarra. Sulle prime i due non si accorsero di lei, ma dovevano aver avvertito qualcosa – forse un improvviso silenzio tra i rami – perché la donna si voltò e, vedendo Anna, smise di cantare e si allontanò, abbandonando l'uomo nel campo.


La Francia per Anna aveva significato un periodo tranquillo e solitario. A eccezione di monsieur e madame Q non vedeva mai nessuno. E nella casa dello scrittore non c'era nulla che le ricordasse il Nordamerica. Era fuggita da vari aspetti della sua vita lavorativa – conoscenze, scadenze, richieste di prefazioni – tutti compiti improrogabili, nella sua quotidianità. Nel periodo che aveva trascorso nella regione francese del Gers, la sola cosa che l'aveva turbata era il gruppo di uomini con i cani che aveva incontrato nel bosco: mentre lei si allontanava si erano esibiti in una volgare parodia, le lingue a penzoloni, i pugni che roteavano in aria. Si sentiva a suo agio in quella casa modesta, e la sua curiosità era quasi priva di scopo, come se stesse cominciando una nuova vita. Si godeva il suo passatempo preferito: riempire il taccuino di pensieri e disegni, qualcosa di alquanto diverso dalle sue ricerche. Se udiva il canto di un uccello attraverso la porta aperta accanto al tavolo, cercava di trascriverlo foneticamente sulla pagina. Lo faceva ogni volta che ne sentiva uno abbastanza chiaramente. E quando sfogliava i suoi appunti ossessivi, Anna vi trovava una serie di accordi che riproducevano i canti degli uccelli, o disegni raffiguranti un cardellino e la Renault 4 dei signori Q.

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La prima volta che Rafael ebbe un appuntamento con una ragazza, aveva diciassette anni. Era un venerdì sera e doveva camminare per qualche chilometro fino al paese, fare un pic-nic con lei nei pressi del ponte e andare al cinema. Aveva raccolto un mazzo di calendule e poi, siccome era in ritardo, decise di fare l'autostop. Era determinato a far girare la serata per il verso giusto, il che significava che non doveva rendersi ridicolo davanti a un'esponente del gentil sesso. Se qualcosa fosse andato storto, il suo destino sarebbe stato quello di morire in solitudine. Era in grado di elencare quasi un centinaio di possibili pericoli, perché a diciassette anni si è perfezionisti.

Camminava sulla strada alberata stendendo un braccio ogni qual volta sentiva sopraggiungere un'automobile, ma nessuno si fermava. Finalmente un furgone Citroën accostò. A bordo c'erano due uomini e una donna, seduti tutti e tre davanti. Lui fece il giro verso il retro del furgone, aprì lo sportello posteriore e, con indosso una camicia bianca immacolata e un paio di pantaloni stirati di fresco, salì a bordo in un'oscurità pressoché totale. Mentre il furgone ripartiva si ritrovò in mezzo a tre sagome indistinte, che si rivelarono essere muli. Fu il viaggio più lungo della sua vita, e Anna insiste che lui ripercorra con la memoria ogni istante di quel tragitto e dell'appuntamento.

Le rendez-vous, dice lui, n'a pas eu lieu. Quando il furgone lo scaricò davanti alla fontana della città, barcollante, con la camicia fuori dai pantaloni, le scarpe sporche di merda e in mano – in un gesto di cavalleria – sette o otto gambi di quelli che avrebbero dovuto essere fiori, la ragazza gli rivolse una rapida occhiata. Aveva passato tutto il tempo a bordo del Citroën a cercare di salvare il mazzolino tenendolo in alto, ma nel fare questo si era ritrovato alla mercé degli animali, rimasti chiusi nel furgone fin dall'inizio del viaggio a Montricoux.

Qual è stata la cosa peggiore? gli chiede Anna.

La cosa peggiore è stata che quando sono tornato a casa, dopo che la ragazza mi aveva scaricato dicendomi: «Mio padre è malato, devo andare», dopo che mi ero lavato le braccia e il collo, e avevo pulito le scarpe con l'acqua della fontana, dopo che ero andato al cinema tutto solo a vedere Gabin ed ero tornato a casa a piedi in compagnia di un cielo notturno così luminoso che stavo quasi cominciando a sentirmi di nuovo bene – avevo comprato pane ed erbe aromatiche, e camminavo con questo cibo in mano provando una strana gioia, che doveva avere qualcosa a che fare con la fuga – be', la cosa peggiore è stata che quando sono tornato a casa, al villaggio di Dému tutti sapevano già cos'era successo. Ancora oggi se chiedi del «ragazzo dei muli» o della «storia del furgone Citroën», scoppiano a ridere.

Nel corso degli anni Rafael ha arricchito il ricordo traumatico dell'evento di una sfumatura di ironia. Provo a immaginare, dice, le mie mani puzzolenti che cercano di stringere la sua vita nuda o la sua spalla di sedicenne durante La bête humaine. Mi ero abituato a sentir ragliare quando entravo in classe. E un mese dopo, durante gli esami di fine anno, si era improvvisamente alzato un nitrito piuttosto realistico che aveva fatto sganasciare gli studenti e strappato un sorriso allusivo alla professoressa.

Per i quattro anni successivi non ho più avuto un solo appuntamento galante, e dopo, sapendo che non poteva capitarmi niente di peggio, mi sono presentato a quegli incontri con la massima disinvoltura, con una rilassatezza insolita per la mia età. Ma durante quei quattro anni sono stato come in esilio, e mi sono concentrato sulla chitarra. Devo la mia carriera a un mazzo di calendule e a tre muli.

In questo modo Rafael scoprì l'intimità della musica, i suoi accordi nascosti, tutte quelle narrazioni celate. Da quel momento in poi, i conflitti avrebbero avuto luogo solo all'interno della sua arte. E, circondato com'era dall'affetto dei suoi genitori, sapeva che in qualche modo avrebbe dovuto proteggerla. Era ancora il loro amato figliolo, ma sua madre lo vedeva astrarsi facilmente dalle conversazioni che avvenivano nella roulotte. Aveva trovato la sua passione, la sua «urgenza» personale. Disponeva di una via di fuga dal mondo. Come se la sedia sulla quale sedeva fosse un cavallo lanciato al galoppo verso luoghi sconosciuti.

Chi gli aveva insegnato quel segreto? Una volta, quand'era un giovane musicista, aveva assistito alle prove di due ballerini che, prima ancora che lui e i suoi colleghi estraessero dalla custodia gli strumenti, avevano cominciato a esercitarsi da soli sulle note di un brano per pianoforte. Avevano tirato una sorta di sipario tra loro e i presenti. Era come se fossero completamente soli, immersi nei loro esercizi. Ricorda anche qualcos'altro – perché Anna gli ha chiesto se conosceva lo scrittore - per esempio come da ragazzo, vivendo vicino alla casa dello scrittore, trascorresse lunghi pomeriggi con lui in giardino. Il vecchio se ne stava seduto a un tavolo nella profonda conca nel terreno che un tempo era stata un mare, con taccuino, penna e inchiostro senza scrivere nulla. Così Rafael si procurava una sedia, scendeva nella conca e si sedeva accanto a lui. Ricordava come dagli alberi provenisse sempre un cinguettio d'uccelli. Lo scrittore gli chiedeva che cosa succedesse nei campi vicini e Rafael cominciava: un falò, una semina, una strage di corvi. Gli raccontava che suo padre aveva scolpito un enorme corvo di legno, l'aveva piazzato sulla staccionata e poi, con urla raccapriccianti, l'aveva preso violentemente a coltellate. Aveva dichiarato che questo avrebbe tenuto lontano i corvi dal giardino. Capisco, diceva l'uomo seduto al tavolo, guardando oltre il lago, verso quei luoghi di attività. Rafael andava a trovarlo spesso a quel tavolo blu, all'ombra della grande quercia.

Quando scrivevo, diceva l'uomo, erano gli unici momenti in cui pensavo. Mi sedevo armato di penna e taccuino, e mi perdevo in una storia. Il vecchio scrittore, apparentemente in pace con sé stesso, suggeriva a Rafael la strada da seguire nella vita, e gli insegnava che si poteva essere soli ma felici, che ci si doveva tenere lontani da tutto ciò che si conosceva, anche dalle persone che ci amavano, e che in questo strano modo si aveva di esse una visione più completa. Per certi versi era una terribile possibilità di segretezza – ciò che si poteva fare di una vita, di quelle ore trascorse lontano da tutto e tutti – una strada che in qualche modo poteva condurre all'intimità. Quell'uomo ne era un chiaro esempio. Un solitario nel suo affollato mondo d'invenzione. Quella era stata una delle ultime cose di cui gli aveva parlato lo scrittore.

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Pagina 105

Da alcuni anni Claire conduceva due vite distinte. Durante la settimana aveva un impiego a San Francisco presso un avvocato di nome Vea, un pezzo grosso dell'ufficio della pubblica difesa. Il lavoro consisteva per lo più in complesse ricerche: Vea aveva insegnato a Claire i segreti del mestiere, e aveva notato che c'era qualcosa di ossessivo in quella donna capace di fiutare a miglia di distanza la più piccola informazione. Poi, nei weekend, Claire spariva. Saliva in macchina e raggiungeva la fattoria a sud di Petaluma, dove il venerdì sera trascorreva un'ora o due con il padre.

Cenavano seduti l'uno di fronte all'altra. Lei non poteva fare a meno di notare quanto fosse invecchiato. Si accorgeva di come ora i vestiti gli andassero larghi, anche se appariva ancora severo, rigoroso nel modo in cui si muoveva e parlava seduto al tavolo della cucina. Era lui che, a vent'anni, aveva reso praticabile la maggior parte dei terreni circostanti lavorando per giorni interi, e aveva ricacciato indietro i coyote e i tassi che a quanto si diceva erano pericolosi quanto i ghiottoni. A lei e ad Anna aveva raccontato di quella volta in cui con i suoi due cani aveva dato la caccia a un puma, costringendo l'animale del peso di un quintale a rifugiarsi su un albero per poi sparargli con il fucile. Le ragazze avrebbero voluto che lui rendesse quei racconti ancora più drammatici, li trasformasse in grandi avventure della sua giovinezza. Ma lui si rifiutava, nascondendo il paesaggio del suo passato dietro un laconico silenzio. Persino dopo tanto tempo, lui e Claire continuavano a evitare l'episodio che aveva portato all'allontanamento di Anna dalle loro vite, non ne parlavano mai. Era come se la perdita di Anna lo avesse consumato a un punto tale da annullare in lui l'espressione delle emozioni, un po' come doveva essere accaduto dopo la morte della moglie, quando le sue figlie erano troppo piccole per capire. E anche se la sofferenza e un forte affetto per Anna gli scorrevano ancora sotto la pelle, lui e quell'unica figlia che gli era rimasta non toccavano più l'argomento. L'ultima volta che Claire aveva fatto il nome di Anna, suo padre aveva alzato una mano supplicandola di tacere. Non c'era più alcuna intimità tra lui e Claire; qualsiasi tipo di vicinanza fosse esistita un tempo tra i due era sempre stata alimentata da Anna.

Durante quelle visite, Claire trascorreva ancora qualche breve istante con lui la mattina seguente per poi andare a cavalcare in collina provvista di impermeabile, acqua e un tascapane con il cibo sufficiente per le successive trentasei ore. Con il suo cavallo saliva sulle colline che una parte di lei aveva sempre considerato la sua vera casa. Lì poteva prescindere da quello che avrebbe potuto dire la sua famiglia, poteva mettersi in gioco rischiando in prima persona, sentire l'eccitazione di raggiungere un accampamento la notte dopo aver vagato nella nebbia, quella divina sensazione dell'essere per metà persi, per metà disorientati, seguendo un filo di fumo proveniente da un fuoco da campo.

Lassù rischiava il tutto per tutto, lanciandosi a folle velocità per gli stretti sentieri nella luce lunare, nuotando in fiumi dalle correnti turbolente, galoppando sul No Hands Bridge a briglia sciolta, le braccia spalancate. I suoi colleghi in ufficio avrebbero fatto fatica a riconoscerla. Persino suo padre avrebbe avuto qualche difficoltà, sebbene conoscesse il suo amore giovanile per le fughe. (Lei l'aveva sempre visto come un uomo immobile, che raramente si metteva al volante di un'auto o montava in groppa a un cavallo.) Claire credeva di aver ereditato quell'amore per le sfide da un antenato centauro. Infilava un piede nella staffa e in un attimo si liberava dalla sua andatura claudicante, scoprendo dentro di sé distanze più vaste.

La prima volta che Claire aveva partecipato a una gara di resistenza a cavallo, era stata disarcionata ed era caduta in una scarpata disseminata di rocce. Mentre cercava di tornare in sella con una spalla slogata, l'animale era rimasto paziente ad aspettarla, avvolto in una nuvola di polvere rossa. Aveva continuato per un paio di chilometri prima di arrendersi. Con un'intuizione poco istintiva, più che altro dettata dal buon senso e dallo spirito di sopravvivenza, aveva deciso di seguire i segni gialli sui tronchi degli alberi per tornare al campo di Robinson Flat. Il cavallo aveva preso a recalcitrare durante la discesa di un canyon, ma a quel punto lei l'aveva già perdonato. Anche i cavalli dovevano fare i conti con i loro demoni. Qualcuno poi le aveva rollato una canna, che si era fumata con calma prima di telefonare a suo padre.

Un'ora dopo lui era arrivato con un rimorchio per il trasporto di cavalli. Era andato da lei e aveva visto nei suoi occhi lo sguardo di un cane che si fosse lanciato in una corsa selvaggia e si fosse fatto male per non aver ben compreso ciò che era in grado di affrontare, o di ottenere. Lei gli aveva detto che non era niente di grave, ma una volta tornati alla fattoria, quando era scesa dal furgone, non riusciva a camminare e lui l'aveva presa in braccio, portandola in casa di peso. Era la prima volta che la toccava da anni. L'aveva depositata sul lungo tavolo della cucina e le aveva messo addosso un asciugamano caldo; dopo di che, puntandole un ginocchio contro la schiena, aveva ruotato la spalla infortunata, facendola scoppiare in lacrime. Al secondo tentativo, era svenuta.

Al suo risveglio, si era ritrovata lì dove lui l'aveva lasciata. Sotto la testa aveva un cuscino. Lo aveva visto seduto sul vecchio divano scozzese, mentre per sicurezza la sorvegliava. Claire aveva provato a girarsi sul fianco sinistro e poi su quello destro. Poi era salita in macchina e aveva guidato per i quaranta minuti necessari a tornare a San Francisco, dove il giorno successivo la aspettavano al lavoro.

L'ufficio della pubblica difesa forniva la difesa d'ufficio a chi era senza soldi, e Claire lavorava lì da cinque anni. Aldo Vea, un avvocato dello stato, aveva due collaboratrici che lo aiutavano nelle ricerche; una era Claire. Ogni mattina Vea s'incontrava con Claire e Shaun in un caffè a Geary Street, e tra un boccone e l'altro discutevano dei casi pendenti. Vea andava a ruota libera, bravissimo a elaborare e presentare diversi spunti per la difesa. Per le nove e mezzo erano già appese al telefono, intente a contattare chiunque avesse fatto parte del passato dell'accusato di turno: compagni di scuola, amanti, impiegati. Poi conducevano indagini sulla vittima. Nel suo passato poteva essersi verificato un insignificante episodio di violenza in grado di ribaltare il caso. Portavano con sé un taccuino bene in vista e un microfono nascosto. Vea diceva che erano meglio degli sbirri. Ed erano una famiglia. Quando la moglie di Vea si era ammalata, Claire era andata a prendere i bambini dopo la scuola e li aveva portati con sé durante gli appostamenti. Quando Shaun aveva confessato la sua crescente attrazione per le donne, Claire e Vea avevano cenato con lei e le avevano dato consigli strategici.

Ogni lunedì mattina Claire si presentava in ufficio con un vestito dai colori pastello. Vea diceva che era importante avere un'aria semplice e inerme, ma lei sospettava anche di piacergli. Portava un anello che poteva spostare da un dito all'altro in base alla persona che stava interrogando. Agli uomini i suoi vestiti suggerivano dolcezza e cortesia; non dava l'impressione di ricoprire un ruolo di responsabilità. Se qualcuno la importunava, l'anello al dito tornava in primo piano e dichiarava di essere incinta. (Quando un tipo dall'aria pericolosa le aveva domandato con aria interrogativa: «Aspetta un figlio?», lei aveva abbassato la testa per nascondere un sorriso. Ora l'avrebbe trattata come una madonna.) Doveva mostrarsi sempre comprensiva, mai distaccata, gentile e compassionevole. Lei sapeva qual era il momento migliore per far parlare le persone. Le donne davano il loro meglio al telefono, perché contemporaneamente potevano fare altro. Durante gli appostamenti, se qualche vicino curioso bussava sul finestrino della sua auto e le chiedeva che cosa stesse facendo, lei indicava una casa. «Lì abita il mio ragazzo. È ubriaco fradicio», diceva. «Sono stata costretta a uscire. Lo sto aspettando.» «Posso portarle qualcosa, mia cara?» le chiedevano. «No, grazie.» Moriva dalla voglia di bere un caffè, ma poi avrebbe dovuto fare pipì. Nei pedinamenti si viveva in uno stato di tensione continua, e a fine giornata si era esausti.

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