Autore Michel Onfray
Titolo Teoria della dittatura
Sottotitolo- preceduto da - Orwell e l'impero di Maastricht
EdizionePonte alle grazie, Milano, 2020, Saggi , pag. 222, cop.fle., dim. 13,7x20,5x2 cm , Isbn 978-88-3331-376-4
OriginaleThéorie de la dictature - précédé de - Orwell et l'Empire maastrichien
EdizioneLaffont, Paris, 2020
TraduttoreMichele Zaffarano
LettoreFlo Bertelli, 2020
Classe politica , destra-sinistra , filosofia , critica letteraria












 

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Indice


1   Orwell e l'impero di Maastricht               9

2.  Teorizzare la dittatura                      29

3.  Cosa racconta 1984                           38

    Primo comandamento   Distruggere la libertà  30
    Secondo comandamento Impoverire la lingua    57
    Terzo comandamento   Abolire la verità       71
    Quarto comandamento  Sopprimere la storia    80
    Quinto comandamento  Negare la natura        86
    Sesto comandamento   Propagare l'odio        93
    Settimo comandamento Aspirare all'impero    100

4.  Teorizzare la rivoluzione                   111

5.  Cosa racconta   La fattoria degli animali   118

Conclusione   Il progressismo nichilista        178


 

 

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Pagina 9

Capitolo primo
Orwell e l'impero di Maastricht


Considero il pensiero politico di George Orwell come uno dei più grandi, al pari di quello consegnato da Machiavelli nel Principe, da La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria, da Hobbes nel Leviatano e da Rousseau nel Contratto sociale. Orwell aiuta a pensare la politica partendo da un'ottica socialista e libertaria. Il fatto però di aver scelto di esprimere le proprie idee solo attraverso romanzi e favole a soggetto animale ha fatto sì che i pensatori istituzionali non gli prestassero alcuna attenzione: la letteratura lo lascia ai filosofi e i pensatori lo lasciano agli studiosi di letteratura. Il risultato è che nessuno se ne occupa veramente. Nel frattempo, nei paesi in cui la gente si trova privata delle proprie libertà, lo si legge sotto banco.

A parte Camus , sono pochissimi i pensatori del socialismo libertario che si smarcano con convinzione dalla versione autoritaria del socialismo. Bakunin e Kropotkin , per esempio, da bravi hegeliani di sinistra, continuano nonostante tutto a strizzare l'occhio a Marx , dal quale si differenziano certo sulla scelta dei mezzi con cui arrivare al potere, ma niente affatto sui fini. Per tutti quanti, in ogni caso, la realtà, più che come realtà, vale come idea. Ci volevano filosofi del calibro di Proudhon per mettere in moto, a sinistra, un pensiero che riuscisse a superare i paletti marxisti. In questo senso, anche 1984 e La fattoria degli animali offrono un loro contributo.

I due libri di Orwell, li ho letti molto tempo fa. La Russia era ancora sovietica e mio padre era ancora vivo, mio padre che nel suo paesino natale (che è anche il mio paesino natale) aveva conosciuto l'occupazione nazista e che, di questa occupazione, mi aveva parlato a lungo nei miei anni d'infanzia. I totalitarismi che erano serviti da referente per quei due libri, cioè quello nazionalsocialista e quello marxista-leninista, sono molto lontani dalla realtà dei nostri giorni. Anzi, oggi che quei due mostri sono ormai morti, può addirittura sembrare che le opere di Orwell abbiano perso la propria attualità. Che parlino di un tempo ormai defunto.

La peste, che Roland Barthes riteneva caricasse un po' troppo il mulo bolscevico e non abbastanza l'asinello nazista, può apparire un libro antifascista datato perché troppo calcato sui particolari totalitarismi del proprio momento storico. Allo stesso modo, anche il valore dell'opera politica di Orwell sembrerebbe essere crollato assieme al muro di Berlino.

Sarebbe però dimenticare che proprio alla fine della Peste Camus ci spiega che quest'ultima non sparisce mai del tutto, dorme sempre con un occhio aperto e gli basta pochissimo per ripresentarsi, con il suo strascico di topi morti a segnare il ritorno dell'epidemia. La peste era un libro che spiegava quello che era successo ieri ma che aiutava (ed è questo il suo aspetto geniale) a decifrare non solo quello che succede oggi, ma anche quello che succederà domani, addirittura dopodomani. Anche Orwell è un autore di questo tipo: pensa un passato che potrebbe essere il futuro e che spesso si rivela essere anche il presente. Detta in altre parole: Orwell rientra in un campo universale perché quella che ci propone è una teoria della dittatura.

Da una parte, quindi, la teoria, che è etimologicamente contemplazione, osservazione, disamina; dall'altra, la dittatura, che va invece riformulata su nuove basi. Ai tempi della sua nascita a Roma, la dittatura era l'eccezionale concessione dei sommi poteri da parte del console, su mandato del Senato, a una singola persona per un tempo determinato, mai più di sei mesi, allo scopo di affrontare una situazione altrettanto eccezionale e a patto che tutti i mezzi offerti servissero a risolvere il problema che aveva portato a quella concessione del potere supremo. È così che, per esempio, Silla viene incaricato di restaurare la repubblica.

Anche se Gengis Khan nella Cina tra il XII e il XIII secolo, anche se Tamerlano nell'Uzbekistan e nel Kazakistan del Trecento e del Quattrocento e anche se Cromwell nell'Inghilterra del Seicento ci dimostrano che la dittatura appartiene a ogni epoca e a ogni continente, sono soprattutto le dittature del Novecento a contribuire alla definizione di una loro nuova tipologia.

Il secolo del nucleare è stato in effetti anche il secolo delle dittature, all'inizio nella sua formulazione marxista-leninista e in seguito, come reazione ma in maniera gemella, nella sua versione nazionalsocialista. La prova della loro gemellarità è fornita dal patto germano-sovietico che ha celebrato il matrimonio tra i due mostri totalitari dal 23 agosto del 1939 al 22 giugno del 1941. Una sottile analisi di questo fenomeno la dobbiamo a Hannah Arendt e al suo Le origini del totalitarismo, grosso lavoro in tre tomi pubblicato tra il 1951 e il 1983 - un'analisi in cui peraltro il nome di Orwell non compare mai, non più di quanto avvenga nella sua opera completa o nella sua corrispondenza.


In realtà, a me pare che neanche i nostri tempi post-totalitari riescano a impedire la formazione di un tipo nuovo di totalitarismo. Al contrario. La dittatura è una forma politica che continua a durare attraverso i secoli e che, grazie alla propria dialettica e alla propria plasticità, riesce ad assumere cadenze diverse secondo i tempi.

La Germania nazista è morta nel 1945, mentre la Russia sovietica esala l'ultimo respiro nel 1991, provocando a catena la scomparsa delle democrazie cosiddette popolari appartenenti al blocco orientale. In linea teorica, per quello che riguarda l'Europa, i due totalitarismi che Orwell aveva in mente non esistono più. In pratica, però, scavalcando í tempi storici, quella cui pensava era una forma pura di totalitarismo. 1984 e La fattoria degli animali offrono due occasioni per pensare appunto questa forma pura.

Riassumo le tesi costitutive di questa Teoria della dittatura.

Come si può instaurare oggi una dittatura di tipo nuovo? Ho messo a fuoco sette fasi principali: distruggere la libertà; impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l'odio; aspirare all'Impero. Ognuna di queste fasi è a sua volta composta da momenti particolari.

Per distruggere la libertà, bisogna: assicurare una sorveglianza continua; distruggere la vita personale; eliminare la solitudine; divertire con le feste comandate; uniformare l'opinione; denunciare i crimini di pensiero.

Per impoverire la lingua, bisogna: praticare una lingua nuova; usare un linguaggio a doppia valenza; distruggere parole; piegare la lingua all'oralità; parlare una lingua unica; eliminare i classici.

Per abolire la verità, bisogna: imporre l'ideologia; strumentalizzare la stampa; diffondere notizie false; creare la realtà.

Per sopprimere la storia, bisogna: cancellare il passato; riscrivere la storia; inventare la memoria; distruggere i libri; industrializzare la letteratura.

Per negare la natura, bisogna: distruggere la pulsione di vita; organizzare la frustrazione sessuale; imporre vincoli di norme igieniche; procreare per via medica.

Per propagare l'odio, bisogna: creare un nemico; fomentare guerre; ridurre il pensiero critico a problema psichiatrico; dare il colpo di grazia all'ultimo uomo.

Per aspirare all'Impero, bisogna: indottrinare i bambini; gestire l'opposizione; governare assieme alla classe dirigente; ridurre in schiavitù grazie al progresso; dissimulare il potere.

Chi oserà dire che non siamo arrivati a questo punto?

E, se è vero che ci siamo arrivati: quand'è successo? E come? Con chi? Dove?

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Il Sessantotto segna la fine del dominio gollista-comunista e la sua sostituzione con il tandem liberal-libertario. Prima del Sessantotto, la filosofia era globalmente marxista; dopo il Sessantotto, diventerà strutturalista e decostruzionista. La formula marxista filosovietica viene insomma sostituita da una formula neoliberale e atlantista. Volendo parlare per personaggi: il Sartre normaliano che lasciava de Gaulle di stucco con la sua Critica della ragione dialettica (1962) cede il posto a un altro normaliano, Bernard-Henri Lévy , autore di un libro come La barbarie dal volto umano (1977) che così tanto rallegra Valéry Giscard d'Estaing...

Lo strutturalismo è una delle metamorfosi del platonismo, un pensiero cioè che considera l'idea più vera della realtà. Parliamo della tabula rasa di Barthes in materia di linguistica e di linguaggio, di quella di Lévi-Strauss in ambito antropologico, di quella di Lacan sul terreno della psicologia, di quella di Althusser nel settore della storia, di quella di Derrida nel campo della verità, di quella di Foucault nella sfera della sessualità, di quella di Deleuze per quanto riguarda la razionalità.

Il materialismo dialettico sfuma a favore di un nichilismo decostruzionista. Ecco che si scopre che la lingua è fascista, che la civiltà giudaico-cristiana viene messa ai margini, che il soggetto cosciente scompare sotto l'inconscio letterario, che le masse e il proletariato non fanno più la storia, che la verità di ognuno si trasforma nella verità tout court, che la marginalità sessuale diventa norma e che lo schizofrenico viene assunto a prototipo della ragion pura.

Sono, queste, alcune delle linee di forza del gauchismo culturale in cui viviamo grazie al post-Sessantotto. E quali sono gli articoli di fede di questo gauchismo? Distruggere il linguaggio, fallocratico portatore degli stereotipi di classe e di genere; accelerare il processo del crollo della civiltà giudaico-cristiana e celebrare qualsiasi cosa contribuisca alla sua perdita; negare la natura umana, la biologia, l'anatomia e la fisiologia in nome di un corpo concettuale che viene decretato più vero del corpo reale; abolire la libertà, la scelta e la responsabilità individuale in nome dei determinismi sociali e sociologici; offrire alle minoranze razziali, sessuali, culturali e religiose il ruolo di autori avanguardisti della Storia; smantellare una volta per tutte la verità una e unica a tutto vantaggio di un prospettivismo in cui ogni cosa vale qualsiasi altra cosa; mandare in frantumi l'immagine patriarcale della coppia monogama a profitto della meccanica raggelata di concatenazioni egotistiche; mettere in causa la ragione ragionevole e ragionante e ratificare il discorso del metodo del pazzo.

L'ideologia strutturalista soddisfa gli Stati Uniti. È del resto proprio negli USA che questo pensiero si trasforma in French Theory! Il pensiero sessantottino soddisfa lo Zio Tom perché è critico nei confronti del blocco sovietico - che comunque scompare nel 1991... Aureolato del prestigio ottenuto in un paio di campus oltreoceano, questo pensiero rientra in Francia dopo aver vinto una guerra ridicolmente inconsistente. A importare non sono tanto i giochi verbali della teoria francese, quanto il fatto che quest'ultima è capace di sviare dal marxismo culturale, dal comunismo politico, dalla rivoluzione proletaria e dalla minaccia sovietica: è tutto quello che le si chiede.

È per esempio tutto quello che Giscard d'Estaing le chiede quando comincia abilmente a far trapelare che i nouveaux philosophes lo interessano parecchio. Spalleggiati da un'incredibile copertura mediatica, nel settembre del 1978, dopo una famosa puntata del programma televisivo Apostrophes cui partecipano assieme agli autori del libro Contro i nuovi filosofi François Aubral e Xavier Delcourt, i tre nuovi filosofi Bernard-Henri Lévy, André Glucksmann e Maurice Clavel vengono invitati dal presidente della Repubblica francese a un pranzo all'Eliseo. Un'occasione che, ovviamente, decidono di non lasciarsi sfuggire.

Giscard ha ormai i suoi pensatori e il giscardismo i suoi ideologi. A parte una parentesi tra il 1981 e il 1983, il giscardismo è al potere dal 1974 - e ci avviciniamo al mezzo secolo... Trionfa ancora oggi con i difensori dello Stato di Maastricht, tra i quali non ci sorprenderà riconoscere parecchi ex gauchisti sessantottini: Daniel Cohn-Bendit, Alain Geismar, Serge July, Henri Weber, Romain Goupil, Lionel Jospin e Pierre Moscovici. A tenerli uniti è l'odio nei confronti del gollismo: è l'unica cosa cui sono rimasti fedeli.

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In quasi un quarto di secolo, lo Stato di Maastricht è diventato altrettanto tossico dei regimi una volta sostenuti da questi stessi ex sessantottini: di certo, questi ultimi sono rimasti fedeli al proprio amore per le forme politiche capaci di tenere i popoli al guinzaglio.

Questa particolare forma politica è stata venduta con i metodi della pubblicità, addirittura con quelli della propaganda. Grazie all'appoggio dei media del servizio pubblico e di quelli privati, l'Europa di Maastricht è stata presentata come l'unica forma possibile di Europa; rifiutare l'Europa liberale perché era liberale e non perché era Europa significava rifiutare l'Europa, significava rifiutare tutte le forme possibili di Europa, significava rifiutare l'idea stessa di Europa. E soprattutto significava prendere le parti del nazionalismo, il che significava a sua volta parteggjare per la guerra, come ci ha ben illustrato lo stesso François Mitterrand al Bundestag tedesco, senza peraltro mai passare alla dimostrazione! Da quest'uomo, che era stato a suo tempo compagno di strada dell'organizzazione segreta della Cagoule, decorato dell'ordine della Francisque per mano del maresciallo Pétain, e che nel corso della sua ultima colazione ufficiale all'Eliseo aveva fustigato la lobby ebraica in presenza di Jean d'Ormesson , avremmo apprezzato una qualche spiegazione sulle ragioni e sugli argomenti che gli permettevano di affermare che sostenere l'idea delle nazioni significava sostenere il nazionalismo e che sostenere il nazionalismo significava sostenere la guerra! La Prima guerra mondiale non è stata una guerra tra nazioni ma un conflitto mondiale tra imperi, e non è la stessa cosa. Gli imperi implicano la guerra in maniera molto più decisa di quanto non facciano le nazioni.

La propaganda non si è limitata a presentare la Francia come una nazione che sarebbe dovuta morire prima di rinascere in un nuovo Stato dominato dalla Germania! L'intossicazione si è spinta fino a far credere che l'Europa di Maastricht avrebbe rappresentato la fine della disoccupazione, il pieno impiego, l'amicizia tra i popoli, la scomparsa delle guerre, la prosperità generale e l'armonia sociale organizzata dall'alto.

Un quarto di secolo più tardi, la promessa non è stata assolutamente mantenuta e si è anzi avverato il contrario: povertà galoppante, diffusione del razzismo e dell'antisemitismo, partecipazione alle guerre atlantiche in ogni angolo del globo, distruzione degli equilibri del Vicino e del Medio Oriente, crollo dei sistemi di protezione sociale e del servizio pubblico. Mai promessa fu a tal punto tradita.

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Per più di due decenni, questa Europa ebbe dalla propria parte tutti i poteri e tutti i media del sistema. E in effetti nel corso di questi quasi venticinque anni, la criminalizzazione di ogni pensiero critico non si è mai interrotta: chiunque non fosse d'accordo con il progetto d'abolizione della sovranità nazionale a favore di un ideale rivelatosi con il tempo solo una truffa veniva trattato sociologicamente da ignorante, da vecchio, da campagnolo, da sottoccupato, da poveraccio, da illetterato, e politicamente da nazionalista, da guerrafondaio, da razzista, da xenofobo e, più tardi, da omofobo e da populista. In ogni caso, sempre da sostenitore di Vichy, da pétainista e da nazista.

Il re dei volantinatori di questa parte politica è stato incontestabilmente Bernard-Henri Lévy, che non ha lesinato i propri sforzi, il proprio tempo, la propria energia e il proprio patrimonio. Il trionfo dello Stato di Maastricht è anche il trionfo dei nouveaux philosophes all'interno della linea politica liberale che si opponeva a una sinistra che volesse essere degna di questo nome, ed è il trionfo dello strutturalismo per quanto riguarda la linea nichilista. Questo fronte liberal-nichilista, più che liberal-libertario, rappresenta senz'ombra di dubbio la disfatta di Sartre.

Nonostante il martellamento ideologico da manuale a scuola, sui giornali, sui media, in editoria e in politica, se l'Europa di Maastricht non fa più sognare, un motivo c'è: non è più possibile prendere in giro un popolo che alla fine vede quello che c'è da vedere piuttosto che quello che ci si spertica a volergli far credere. A partire dal 1992 e per più di due decenni, a questo popolo era stato offerto il paradiso; oggi, in realtà, si rende perfettamente conto di vivere in un inferno.

La prima volta che gli è stato permesso di esprimere il proprio parere, è stato su proposta di Jacques Chirac con il referendum sul trattato costituzionale europeo del 29 maggio del 2005. La storia la conosciamo: il popolo si è espresso sovranamente e ha fatto sapere che rifiutava quel trattato con il risultato del 54,68%.

Nonostante questo, dopo che Chirac lascia il potere, Sarkozy, che lo sostituisce, fa approvare dall'Assemblea nazionale e dal Senato contro il voto popolare il trattato di Lisbona che, secondo le parole dello stesso Giscard d'Estaing, a parte qualche modifica ottenuta spostando alcuni paragrafi, è identico a quello rifiutato nel 2005... I sarkozisti, assieme al Partito Socialista guidato da un certo Fraçois Hollande, votano contro il popolo. Si tratta di un vero e proprio colpo di Stato degli eletti contro il popolo.

Innegabilmente, l'Europa di Maastricht non si tira indietro di fronte a nulla per essere e per durare: propaganda, menzogna, indottrinamento, calunnia, diffamazione, avvelenamento, tradimento, prevaricazione e, in ultimo, non senza rinunciare a nessuno di questi vizi, sfrontata repressione poliziesca e sfruttamento della presunzione di colpevolezza nei confronti di alcuni manifestanti.

Perché non c'è alcun dubbio che il movimento dei gilet gialli, nella sua origine e nell'essenza delle proprie rivendicazioni più palesi e chiaramente identificabili, rappresenta il ritorno del rimosso maastrichtiano.


Oggi come oggi, lo Stato di Maastricht esiste e ha una sua bandiera, una sua valuta, un suo inno, una sua costituzione, una sua compagine di eletti, un suo parlamento, un suo insieme di organi direttivi, un suo diritto, un suo complesso di leggi e una sua ideologia liberal-nichilista. Puntando alla propria posterità, questo Stato vorrebbe diventare un impero e progetta di ingrandirsi.

I gilet gialli non ne possono più di questo Stato che rende grama la loro vita. Vedono bene che questo Moloch è forte con i deboli, cioè loro, e debole con i forti. Per strada, ci scendono innanzitutto per esprimere la propria sofferenza e, di fronte alla risposta poliziesca che il potere maastrichtiano riserva loro da mesi, anche la propria collera. Una collera che minaccia di fare più danni di quelli che il potere sembrava immaginarsi.

L'analisi che Orwell propone della dittatura è utile per comprendere il nostro presente. Ed è utile per preparare il nostro futuro. Ci ricorda le parole di La Boétie, che ci ha mostrato l'unica strada possibile quando vogliamo porre fine a una dittatura: «Siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi».

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Capitolo secondo
Teorizzare la dittatura



                        «Si era stabilito che la Novalingua entrasse pienamente
                        in vigore solo a partire dal 2050»



Viviamo dentro a 1984 almeno dal 1983... Il romanzo di Orwell rappresenta una finzione vera, un sogno concreto, un'utopia realizzata. Detto in altri termini: un modello di società totalitaria che ha funzionato in passato ma che dimostrerà di riuscire a produrre effetti anche in futuro, essendo già attiva sul piano del nostro presente.

1984 trova ovviamente la propria ispirazione nelle dittature della prima metà del Novecento e sono parecchi i passaggi che fanno pensare al nazionalsocialismo e al marxismo-leninismo. Però questo libro gelido e raggelante si fa anche presago di quelli che potrebbero essere i regimi a venire. Ricordiamo che il romanzo propone il 2050 come orizzonte temporale per la realizzazione del proprio programma di asservimento delle masse e distruzione della civiltà. Nella finzione, proprio come nella realtà, ci troviamo quindi all'interno di un periodo che sembra puntare all'instaurazione di un impero. Avanzo l'ipotesi che l'Impero di Maastricht sia una delle forme assunte dalla società totalitaria descritta da Orwell in questo romanzo.

Dibattiti bizantini dividono da almeno mezzo secolo chi sostiene che il totalitarismo di marca bruna sia peggiore del totalitarismo di marca rossa da chi ritiene il contrario... I nazisti avrebbero voluto fin dall'inizio uno Stato della razza, uno Stato cioè assai meno difendibile dello Stato di classe cui aspiravano i marxisti-leninisti. In realtà, però, quale differenza potrà mai esserci tra chi è morto in un campo nazionalsocialista perché nato ebreo o perché diventato comunista, massone, laico, testimone di Geova, partigiano o omosessuale, e chi è morto perché nato nobile o ricco, proprietario terriero o ultimo rampollo di una stirpe militare al servizio del regime zarista? Che differenza può fare, per un cadavere, essere diventato cadavere perché nato ebreo o perché nato nobile? In entrambi i casi, l'«ebreo» e l'«aristocratico» sono condannati dalla nascita da uno o dall'altro di questi due regimi.

Anna Frank, quindici anni, è morta perché nata ebrea; Aleksej Nikolaevic, tredici anni, e sua sorella, Anastasija, diciassette, sono stati uccisi su ordine diretto di Lenin a colpi di arma da fuoco e finiti con la baionetta, bruciati e sfigurati con l'acido solforico perché nati figli di zar. Potremmo ricordare come anche la Rivoluzione Francese abbia ucciso a fuoco lento Luigi XVII, colpevole di essere figlio dei suoi genitori. Dobbiamo davvero stabilire un ordine gerarchico delle abiezioni quando si tratta di persone uccise per il semplice fatto di essere nate?

Proprio come succede alla famosa Lettera rubata di Edgar Allan Poe , nascosta eppure in bella evidenza sotto lo sguardo di tutti, nemmeno noi riusciamo a distinguere e a riconoscere quello che si trova palesemente sotto i nostri occhi, e cioè che nazismo è un termine che mette assieme nazionale e socialismo. In verità, per essere più chiari, dovremmo usare un termine come natsoc, creandolo sul modello di quel radsoc che una volta, in francese, veniva impiegato per indicare i socialisti radicali. Il fatto è che, con il termine nazismo, dimentichiamo una parola importante e questa parola è proprio... socialismo! L'uso del termine nazismo permette di annegare questo socialismo facendolo scomparire nel suffisso. Come a dire che la volontà di distinguere i due totalitarismi si fonda sempre sul desiderio di salvarne almeno uno - quello dei bolscevichi.

L'intento del libertario George Orwell non era di salvare il totalitarismo bolscevico solo perché per natura si opponeva al totalitarismo nazionalsocialista. In tutta questa storia, poi, c'è anche un altro punto cieco: il nazionalsocialismo e il marxismo-leninismo hanno fatto causa comune stringendo il loro famoso patto dal 23 agosto del 1939 al 22 giugno del 1941, ossia per quasi due anni di una guerra che ne è durata cinque... Ricordiamo che tale patto non è stato assolutamente denunciato dai bolscevichi ma semplicemente rotto dalle colonne dei blindati nazisti che, con l'Operazione Barbarossa, hanno invaso l'Unione Sovietica. La collaborazione tra bolscevichi e nazisti si fondava su un programma comune che univa le due mostruose ideologie in un unico odio contro la plutocrazia ebraica e inglese, contro la resistenza gollista, contro il capitalismo americano, contro la democrazia parlamentare e contro la cosiddetta arte degenerata, solo per fare qualche esempio. Cui potremmo aggiungere il gusto condiviso per il potere dittatoriale di un solo uomo la cui parola diventa fondatrice del diritto.

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Capitolo terzo
Cosa racconta 1984



Con 1984, George Orwell ci propone un grande libro di filosofia politica in forma di romanzo. La trama è molto povera e schematica e funziona in realtà quasi solo da pretesto per l'esposizione del pensiero filosofico dell'autore. Siamo in Inghilterra nel 1984, ossia trent'anni dopo l'esplosione della bomba atomica e la fine della guerra dell'Est contro l'Ovest: sulle ceneri di questa catastrofe nucleare è sorto un regime totalitario. Il mondo si divide in tre grandi blocchi, strutturati attorno ad altrettante ideologie dittatoriali: in Oceania c'è il Socing, ossia il socialismo inglese; in Eurasia, il Neo-bolscevismo; e in Estasia, il Culto della Morte. Questi tre regimi, originariamente socialisti, si sono tutti trasformati in sistemi totalitari, arrivando a imporre, piuttosto che una dittatura del proletariato, una vera e propria dittatura sul proletariato. Accanto ai tre blocchi, ne esiste poi anche un quarto, oggetto delle mire dei primi tre.

Questo, il quadro generale della situazione.

Il protagonista del romanzo si chiama Winston Smith e abita a Londra.

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Pagina 47

In sostanza, si tratta di una trama romanzesca molto semplice: in un regime totalitario, un uomo s'innamora di una donna ma, essendo l'amore bandito, così come i sentimenti o qualsiasi altra cosa renda umani, l'uomo viene arrestato, incarcerato e torturato mentalmente e fisicamente; alla fine è costretto a rinunciare all'amore e a scegliere il partito dell'odio; ossia, per riuscire a salvarsi, deve accettare i princìpi dei sistema. A quel punto, però, l'uomo è perduto e il regime può sbarazzarsi di lui: la morte è il prezzo da pagare per continuare a esistere nel sistema.

Su questo intreccio romanzesco troviamo innestato un particolare discorso filosofico che ci porta a riflettere su quanto anche la nostra epoca sia un'epoca di dittatura intesa nel senso di tirannia di una minoranza. Orwell ci parla del potere, del totalitarismo, della natura umana, ma anche e soprattutto della nostra modernità: dell'ipocrisia del linguaggio, della polizia del pensiero, del ricorso al politicamente corretto, della costruzione dell'opinione pubblica attraverso i media di massa, del controllo della vita attraverso i teleschermi, dell'abolizione della privacy, della distruzione del linguaggio, della riscrittura della Storia, della fabbricazione dei nemici mediatici, della diffusione di notizie false, del governo delle élite, dell'estromissione del popolo dai centri di potere, dell'invisibilità del vero governo, dell'impoverimento linguistico, dell'invenzione di un corpo igienicamente normato, del ricorso alla procreazione assistita, dell'abolizione della verità, dell'eliminazione della solitudine, della messa in scena di momenti dedicati esclusivamente all'odio, dell'esultanza da dimostrare in occasione delle feste obbligate, della riassegnazione degli edifici ecclesiastici, della creazione dei musei della Propaganda, della distruzione dei libri, della relegazione dei poveri nelle periferie delle città, dell'organizzazione della frustrazione sessuale, dell'industrializzazione della produzione artistica, della gestione dell'opposizione, dello sfruttamento del progresso a scopo di dominazione, delle mire imperialistiche, dell'insegnamento di una lingua unica, dell'abbassamento del livello d'istruzione generale, della riduzione di qualsiasi pensiero critico a problema psichiatrico, dell'indottrinamento dei bambini, della distruzione della pulsione di vita, della negazione delle leggi della natura, della creazione di una realtà fittizia, della soppressione della bellezza, della pratica di un gergo generalizzato, dell'invisibilità del potere, dell'eliminazione dell'ultimo uomo.

Chi avrà il coraggio di dire che non siamo già arrivati a questo punto? Secondo Orwell, il termine ad quem di quest'impresa totalitaria è il 2050. Se il romanzo comincia negli anni Cinquanta del Novecento è perché, all'autore, un secolo sembrava ampiamente sufficiente per realizzare una profezia tanto funesta. Proviamo a pensarci. Quanto manca alla data finale? Alla velocità con cui stanno andando le cose, Orwell finirà per avere ragione e il 2050 non sarà più un'illusione riservata ai nichilisti che si autoproclamano progressisti...

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Pagina 178

Conclusione
Il progressismo nichilista
Anche il male può progredire



Chi può dire, oggi come oggi, di non essere d'accordo sul fatto che il ritratto del totalitarismo abbozzato da Orwell sia quasi un affresco dei nostri anni? Anche oggi, in effetti, la libertà è difesa male, la lingua messa sotto attacco, la verità cassata, la storia strumentalizzata, la natura bypassata, l'odio incoraggiato e l'imperialismo in marcia.

Quello che a noi viene presentato come un progresso è, in realtà, una marcia verso il nichilismo, un'avanzata verso il nulla, un movimento verso la distruzione. È proprio come quando si parla del progresso di un tumore o di un'altra malattia che porta inesorabilmente alla morte. Il culto che oggi tutte le persone che rivendicano a sé la qualifica di progressista votano al progresso per il semplice fatto di essere progresso, sembra quasi una genuflessione di fronte all'abisso un attimo prima di precipitare nei flutti, come le pecore di Panurgo... Il progresso è diventato un feticcio e il progressismo si è trasformato nella religione di un'epoca priva di esperienze del sacro, è diventato la speranza di questi tempi disperati, la credenza di una civiltà senza fede. Noi però abbiamo la possibilità di non accettare questa nuova religione e di preferirle un tragico ateismo sociale che non s'inginocchia di fronte a nessuna trascendenza. È questo rifiuto della rassicurazione della fede a definire l'uomo libertario.




1.



Prima tesi: la libertà si rimpicciolisce come una pelle dí zigrino. Siamo una società sottoposta a controlli di ogni tipo, una società in cui la parola, la presenza, l'espressione, il pensiero, le idee e gli spostamenti sono completamente tracciati e tracciabili. Le informazioni recuperate potranno essere tutte usate per istruire le pratiche destinate al tribunale del pensiero.

Noi siamo archiviati. Lo siamo grazie al nostro telefono portatile, strumento nomade per eccellenza della servitù volontaria, e lo siamo grazie al nostro computer, variazione connessa alla rete di questo primo strumento. Lo siamo grazie alle telecamere di sorveglianza presenti un po' dappertutto: per strada, nei parcheggi, nei negozi, nei palazzi, nei dispositivi di schermatura come i videocitofoni e all'entrata delle case. Lo siamo grazie alla domotica interconnessa, tipo Alexa, che installa nelle abitazioni dei microfoni con cui diventa possibile ascoltare tutto. Lo siamo grazie alla limitazione prodotta da tutti questi strumenti nomadi e grazie agli orologi digitali che, connessi anche loro alla rete, auscultano il nostro corpo, annotano il tasso di zucchero e di grassi, contano i battiti cardiaci, si segnano le abitudini sportive, le ore di sonno, il numero di piani fatti e le consuetudini alimentari. Siamo archiviati grazie ai tracciamenti dei microchip nelle carte di credito, nelle tessere sanitarie e anche nelle carte fedeltà dei negozi. Lo siamo grazie ai radar e alle videocamere installate sulla rete stradale, lo siamo grazie alle apparecchiature degli indici di ascolto e grazie agli istituti di sondaggio. Lo siamo grazie alle piattaforme di telefonia e grazie ai social network, piaga delle piaghe, strumento della perfetta esposizione di sé in ogni campo. Siamo capaci di esibire senza ritegno i nostri acquisti alimentari e il modo in cui li cuciniamo, e siamo capaci di mettere senza vergogna in mostra il nostro corpo tatuato, abbronzato, ingrassato, allenato, raggrinzito, pettinato, rasato, pompato, truccato, vestito, denudato, ingravidato, malato e ferito. Non abbiamo nessun problema a sbandierare i nostri pensieri, i nostri giudizi, i nostri commenti, le nostre riflessioni, i nostri insulti, le nostre predilezioni e le nostre antipatie e non facciamo difficoltà a mettere in piazza tutte queste cose senza nemmeno sentire il bisogno di chiedere a quelli che incontriamo, in contesti pubblici o in contesti privati o addirittura intimi, la traccia o la prova di tutti questi incontri. Ci esprimiamo sull'arte contemporanea anche se non sappiamo chi sia Marcel Duchamp; commentiamo la politica anche se ignoriamo persino il nome del primo ministro; diamo giudizi sulla religione anche se non abbiamo mai aperto il Talmud, la Bibbia o il Corano; diamo valutazioni sulla cucina di un ristorante senza averci mai messo piede, su un film senza averlo mai visto, su un libro senza averlo mai letto, su un paese senza averlo mai visitato, su un concerto senza esserci mai stati, sul pensiero di un autore senza avere mai nemmeno sfogliato uno dei suoi libri; diffondiamo foto e selfie, ci filmiamo mentre facciamo sesso o mentre ce ne stiamo da soli, quando siamo in due o quando siamo in tanti, oppure ancora quando ce ne stiamo con il nostro canarino; carichiamo sui social gli scatti dei nostri animali domestici, cani, gatti, pitoni, topi, pesci rossi o conigli d'angora. Niente sfugge alla riduzione in immagine che noi stessi operiamo per riuscire a captare l'attenzione altrui.

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Ci stiamo muovendo verso una società simile a quella dell'antico Egitto, con un'élite di scribi che saprà leggere, scrivere e far di conto e che opererà in perfetta simbiosi con la casta dei sacerdoti a loro volta al servizio dei nuovi faraoni, la cui religione pagana avrà per dio il postumano e per culto il transumanesimo. Da qui, l'utilità di distruggere la lingua e di riservarne l'uso e la conoscenza a una classe ristretta.




2.



Seconda tesi: l'attacco alla lingua. L'inizio della fine comincia quando, a scuola, nel cuore pulsante del santuario dell'apprendimento linguistico, si è cominciato a distruggere un metodo di lettura che aveva dato prova di tutta la propria qualità nel corso d'intere generazioni, per promuovere al suo posto altri sistemi patrocinati da sedicenti esperti di sedicenti nuove scienze dell'educazione, sistemi in realtà estremamente dannosi per gli allievi, trasformati per l'occasione in pure e semplici macchine per l'apprendimento.

[...]

Del resto, se osserviamo la cosiddetta «letteratura per ragazzi», possiamo notare come la sua sempre più grande diffusione dipenda e parta dal principio che il libro non è uno strumento per diventare adulti e accedere al mondo intellettuale, spirituale e culturale di questi ultimi, ma solo un'occasione per propagandare il catechismo postmoderno. Ecco allora l'iniziazione alla bellezza sociale delle famiglie allargate, delle coppie omosessuali, della raccolta differenziata, della difesa del pianeta, della procreazione assistita, del riscaldamento globale, del consumo eco-responsabile, del cibo bio e senza carne, delle virtù delle energie rinnovabili, delle macchine elettriche (anche se queste ultime in pratica continuano a funzionare sulla base dell'energia nucleare)... Si tratta di costruire degli esseri adulti vuoti e piatti, sterili e privi di profondità, del tutto compatibili con il progetto postumano.

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È evidente come, in un regime decerebrato come questo, le statistiche sulla lettura possano rivelarsi assolutamente sconfortanti: gli analfabeti sono sempre più numerosi persino tra coloro che hanno superato l'insegnamento superiore; anche i professori e i loro studenti leggono sempre meno; il grande pubblico colto scompare senza che nessun'altra categoria arrivi a sostituirlo; la capacità di leggere testi dotati di una certa complessità crolla. Quando i professionisti del libro sciorinano le loro cifre facendole passare per cifre positive, parlano del libro in generale, ma nella categoria inseriscono anche manga e fumetti, testi destinati allo sviluppo personale e all'uso pratico come raccolte di ricette e guide sul bricolage, libri dedicati alla puericultura e al tempo libero, manuali tecnici e libri sulle diete alimentari... Se mettiamo da parte i testi che le varie celebrità (attori, comici, politici, sportivi, personaggi mediatici e protagonisti di fatti di cronaca) pubblicano a proprio nome anche se scritti in realtà da altri, il libro degno di questo nome se la passa davvero male...

Non c'è alcun bisogno di bruciare i libri come facevano san Paolo o Savonarola nella realtà, George Orwell o Ray Bradbury nella finzione, o Hitler e Lenin con le loro dittature: basta semplicemente rendere la figura del lettore impossibile.

Eppure, negli anni Settanta, Barthes e Foucault ci avevano insegnato con genuina curiosità che l'autore era decisamente morto - anche se mai i due si erano spinti fino a rifiutare i diritti d'autore versati per questo genere di succulente opere... E in effetti l'intellighenzia trovava la cosa geniale. Quella di vedere nell'autore una semplice escrescenza purulenta e nel lettore una vera e propria divinità era una civetteria che l'autore accordava a sé stesso nonché una concessione fatta alla demagogia dei tempi: Proust diventava un essere inferiore, mentre il lettore della Ricerca del tempo perduto si trasformava nel demiurgo che grazie alla propria lettura creava l'opera...

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All'avversione nei confronti del testo, della pagina, del foglio, del libro e della carta si accompagna la venerazione della parola, dell'oralità, del verbo, della favella e della cosa detta - segno evidente di una regressione, perché è esattamente da lì che arriviamo. L'oralità aveva certo le sue virtù ma alla fine noi ne conserviamo solo i vizi. Che fine fanno virtù come la memoria, la mnemotecnica, la fedeltà, la trasmissione, la tradizione, il lignaggio? Nei suoi Immemoriali, Victor Segalen data l'inizio della fine di una civiltà nel momento in cui questa civiltà si rivela incapace di scandire le proprie linee genealogiche senza sbagliarsi. La morte dell'apprendimento a memoria segnala la morte della civiltà. È già da parecchio tempo che la nostra civiltà non sa più scandire le proprie linee genealogiche, né recitandole a memoria, né avvalendosi di qualsiasi altro supporto... Senza passato possibile, il futuro si rivela impensabile e nemmeno il presente è più immaginabile. È per questo motivo che la verità scompare.




3.



Terza tesi: l'abolizione della verità. Affermando l'esistenza di strutture noumeniche onnipotenti visibili solo alle intelligenze raffinate in zona Saint-Germain-des-Prés, lo strutturalismo parigino legittima sotto il profilo intellettuale la fine del metodo sillabico e l'avvento del metodo globale. Allo stesso modo e nello stesso tempo, abolendo l'analisi logica per lasciare spazio alla cosiddetta «grammatica generativa» (grazie Noam Chomsky! ), si stabilisce come nuova e insormontabile verità il fatto che non esistono più verità ma solo prospettive. E guai a chi rifiuta la nuova verità sull'inesistenza delle verità!

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5.



Quinta tesi: la cancellazione della natura. Con l'intellettuale da camera che si accontenta di manipolare tutto il giorno idee e concetti, il rischio è di credere che il mondo sia fatto soltanto d'idee e di concetti.

Quando scrive la sua Storia della follia nell'età classica, Michel Foucault non si azzarda a mettere piede fuori dagli archivi perché pensa che solo gli archivi possano raccontare il mondo. Per come la vede lui, se non ci fossero archivi che raccogliessero le testimonianze di quello che è successo, quello che è successo non sarebbe successo. Il che implica che gli archivi, se esistono, vanno a occupare lo spazio della verità anche quando sono archivi che raccolgono finzioni. È per questo motivo che, elaborando la propria teoria della follia, Foucault accorda una grande importanza a letterati come Hölderlin, Sade, Lautréamont, Nietzsche e Roussel. Foucault può non aver mai incontrato un solo pazzo in tutta la sua vita, ma sarà comunque in grado di formulare una teoria della follia. È il trionfo dei platonici e la disfatta dei pensatori empirici!

Il corpo dei decostruzionisti è un effetto del linguaggio o dell'inconscio, è un archivio storico, un'elaborazione concettuale. La stessa cosa vale per la natura, che è sempre e soltanto un soggetto d'analisi per grammatici, zoologi, geologi ed economisti, mai un'entità tangibile. Per rendercene conto, basta dare un'occhiata a Le parole e le cose dello stesso Foucault, il quale riassume la realtà nell'insieme dei discorsi che su di lei vengono prodotti. Una realtà priva di discorsi che la raccontino è una realtà che non esiste. La realtà è quello che della realtà viene detto: nient'altro.

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7.



Settima tesi: l'Impero è in marcia. Ma quale Impero? La fine delle nazioni è stata voluta dagli attori dell'Europa di Maastricht. La scomparsa di quello che resta della sovranità nazionale francese è addirittura stata rivendicata da un deputato della maggioranza presidenziale come l'orizzonte politico del macronismo. Non è forse il concretizzarsi della speranza di François Mitterrand che, il 20 gennaio del 1983, aveva sostenuto al Bundestag che «nazionalismo significa guerra»? Aveva avuto ragione, però si sarebbe dovuto anche accorgere che l'Europa di Maastricht, proposta come una nazione che sostituiva le vecchie nazioni, rappresentava anche lei, anzi soprattutto lei, un'entità con le stesse caratteristiche!

Affermare che il capitalismo aspira a dominare il pianeta non è una paranoia da pensiero complottista: è il progetto confessato dai suoi stessi artefici... L'Europa di Maastricht, alimentata da nazioni antichissime, è stata pensata come una macchina da guerra del capitalismo, il cui cuore pulsante è il liberalismo. Il mercato deve imporre le proprie regole. E, in effetti, il primo gesto di questa Europa è stato proprio quello di creare una moneta unica. Come a dire: una confessione.

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