Copertina
Autore Nico Orengo
Titolo L'intagliatore di noccioli di pesca
EdizioneEinaudi, Torino, 2004, Supercoralli , pag. 378, cop.ril.sov., dim. 140x220x28 mm , Isbn 978-88-06-16816-2
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa italiana
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Pagina 16

- Come sta il mio nocciolo di pesca? - chiese malizioso.

Marisa si mosse sulla sedia, trattenendo il respiro, incurvando il ventre e lasciando poi uscire il fiato, che rigonfiò la stoffa morbida intorno all'ombelico.

Scullino chiese ancora: - Come sta il nocciolo di pesca?

Marisa rise, sporgendo la punta rossa della lingua fra i denti: - Da qui non so, non vedo... dovrai dirmelo tu, anche questa volta, se vorrai...

Scullino voleva, si sentiva già meglio anche se non aveva ancora ordinato la sua tisana alla menta. La chiese con urgenza, sporgendo la testa dal séparé. Domandarsi come stava il «nocciolo di pesca» era un loro antico gioco verbale, un'allusione erotica: Marisa custodiva sul gluteo sinistro una voglia grande quanto un nocciolo di pesca, un cammeo con una sua misteriosa proprietà, quella di cambiare forma e colore a seconda dell'umore, del tempo e in anticipo rispetto a quello della sua proprietaria. Il nocciolo veggente, che insieme avevano definito di pesca nella sua condizione migliore, poteva diventare una fragola, un supermirtillo, un lampone, e colorarsi di rosso, di blu intensissimo, di rosa e di giallo morbido.

- Mi sento già meglio, - disse con soddisfazione Scullino alla seconda tazza di tisana alla menta. - Farò quella telefonata e poi, mia cara, credo che potremmo ritirarci al ricetto per una buona serata.

Marisa spinse il busto in avanti, emise un sí evocativo e sorrise.

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Pagina 17

Era un rito a cui non sapeva sottrarsi. Il martedi mattina, alle otto, Pietro Scullino era già dal giornalaio, dove comprava la «Riviera» che imbottiva poi di «Stampa», «Secolo» e «Repubblica», naturalmente dopo essersi assicurato che la sua recensione fosse stata pubblicata. Poi si avviava con passo deciso verso via Gerolamo Rossi, dove c'era il suo ex Istituto Aprosio. Rallentava il passo sotto i grandi oleandri e fingendo un sovrappensiero o una distrazione andava incontro ai suoi ex colleghi ed ex studenti.

- Chi hai strapazzato questa settimana, Scullino?

Il primo ad abboccare era stato Geraci, napoletano, proffio di matematica che aveva mancato lo «scivolo» per pochi mesi e si era, dicevano i ragazzi e i loro famigliari, incattivito, caricando di compiti e note la classe. Scullino avrebbe preferito imbattersi in qualcuno di piú disponibile.

- Fai bene a mazziare, Scullino. La narrativa italiana ormai è una perdita di tempo: morta la Ortese, morto Moravia, morto Soldati, morto Calvino, morto Sciascia, chi ci rimane, eh? Chi hai mazziato questa settimana?

Scullino era indeciso, doveva dirglielo? L'avrebbe fatto felice e non gli andava. Disse, a malincuore:

- Camilleri, La paura di Montalbano: qualche riserva su questo suo dialetto siciliano, pura invenzione.

Nicola Geraci chinò la schiena, proprio come faceva da dietro la cattedra o davanti alla lavagna quando voleva sottolineare che stava per dire qualcosa di fondamentale.

- Eh, no. Permettimi, Scullino, ti parlo in veste di lettore, acculturato se vuoi ma pur sempre un lettore, eh, no: quel dialetto di Camilleri è una vera invenzione, uno stile autentico. Camilleri si è creato un metalinguaggio che corre per la Penisola giú e su. Va be', poi le storie son quel che sono, una gazzosa come il suo commissario. Ma il linguaggio no, quello me lo dovevi salvare, Scullino...

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Pagina 22

Lo studiolo era zona interdetta. Nessuno di casa vi aveva accesso e dunque toccavano a lui anche le pulizie, il toglier la polvere e il cambio dell'acqua per i fiori. Già, perché gli piaceva avere fiori freschi, mentre leggeva o scriveva, un gran vaso alla Matisse che componeva con i fiori del mercato: calendule, rose, rami di ginestra bianca o di mimosa o di plumbago. Al vaso aveva assegnato un tavolino piu piccolo di fronte al tavolo da lavoro, a fianco del gran finestrone sul mare. Il professore aveva i suoi riti.

Quando il postino o la Carmela arrivavano con i pacchi di libri - due, tre al giorno, ma anche cinque o sei se si era sotto Natale o in maggio per la Fiera del Libro di Torino, o alla ripresa dopo il rientro estivo - li lasciavano nell'ingresso, sopra una cassapanca, dopodiché si incaricava lui di trasferirli nel suo studiolo. Dove venivano ordinatamente parcheggiati sul tavolo e scartati a seconda della supposta prelibatezza del contenuto: prima Einaudi e Adelphi, poi Feltrinelli e Sellerio, poi Bompiani, Fazi e Fandango e via via a seguire Rizzoli, Mondadori, Baldini&Castoldi, Editori Riuniti. Usava guanti e forbici per l'operazione perché si era ferito piu volte con i materiali di imballaggio, specie con i pacchi di Rizzoli e di Einaudi, che usavano chiusure in fibra tagliente; apprezzava invece le buste di Adelphi e Sellerio, piu informi ma anche piu pratiche. Una volta conclusa l'apertura dei pacchi e delle scatole, il professore li sistemava in ordine di priorità culturale.

Le novità le divideva per importanza d'autore, sia per gli italiani, sia per gli stranieri. Se ce n'erano, faceva poi delle pile per esordienti, ristampe, chicche e répechages. Piccoli mucchietti o anche singole unità, di cui, in piedi, dava subito un giudizio - sulla copertina, innanzitutto, provando a riconoscerne l'artista o andandoselo a cercare nel risvolto, nella quarta o sul retro, già chiedendosi se l'illustrazione corrispondesse allo spirito del testo e dell'autore o a un vezzo dell'editore o dei suoi uffici iconografici. Poi si concentrava sul risvolto di copertina, perché era da li che capiva se il testo l'avrebbe preso. Ma questo era un amo che non funzionava piu come una volta. Una volta la bandella era scritta meglio, aveva un linguaggio piu mimetico con il testo, fungeva da prologo e chiave di lettura: oggi, spesso, apparivano invece scritture e intenti svianti. Funzionava ancora con Adelphi, non con tutti gli Einaudi, con i Sellerio e i Feltrinelli. Gli altri risvolti, a meno che fossero d'autore o firmati, gli pareva che mirassero piú al sensazionalismo, all'imbonimento pubblicitario.

Al professore piaceva anche dare uno sguardo alla biobibliografia, leggere l'età e il luogo di nascita, le opere all'attivo, vedere quanti anni erano passati dall'ultima fatica, ripercorrere cosi le tappe di una carriera letteraria.

Tutte queste operazioni venivano condotte con un sottile e intenso piacere, contrappuntato da mugolii di soddisfazione e anche, in qualche caso, di disappunto, comunque piacevole. C'era un che di erotico, inutile negarlo, dall'arrivo dei pacchetti, delle buste, delle scatole, alla loro spoliazione, al denudamento del contenuto, che poi si sarebbe prolungato, in poltrona, durante la lettura.

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Pagina 37

Appena posato il piede sulla stuoia di cocco oltre la soglia, Scullino, desideroso di appoggiare la pesante e scivolosa burnia di tordi sott'olio, venne colpito in piena fronte dallo spigolo di un volume. Vacillò rischiando di perdere la presa sulla burnia, gli si appannò la vista per un attimo e quando gli ricomparve la stanza d'ingresso con il suo appendiabiti, la cassapanca con il samovar d'argento, l'anfora olearia per gli ombrelli e il grande quadro di Punta Mortola di Freya Stark, vide in terra l'oggetto che l'aveva centrato in fronte: Anima Mundi di Susanna Tamaro. Lo raccolse amorevolmente, era stata una delle recensioni piú sentite, nella quale aveva cercato di trasmettere al lettore tutta la spiritualità della scrittrice triestina.

- No, la Tamaro no, - disse raccogliendo il libro e posandolo, insieme alla burnia, sulla cassapanca. - Lucrezia, tu devi avere rispetto per i libri in generale, perché non son proiettili, e per la Tamaro in particolare. E una donna che soffre...

- Te la do io la donna che soffre, con tutti quei cavalli e quei miliardi...

- Cosa vuol dire... si può soffrire anche da miliardari...

- La Nazzarena è una donna che soffre, altro che la Tamaro...

«Già, la Nazzarena», pensò Scullino: gli era passata del tutto di mente in quel lungo pomeriggio di rossese e delicatezze.

- Quelle son donne con problemi reali, di vita quotidiana dura, è per questo che voglio che mio figlio veda Pulp Fiction e non quelle scemenze di Walt Disney.

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Pagina 50

Era una mise en abīme quella voglia sulla natica di Marisa, una voglia in una voglia piu grande, il desiderio intagliato in un cammeo. E Scullino se lo festeggiava a colpi di lingua, schiocchi di labbra come fosse stato un fantastico cono al cioccolato, uno di quelli che da bambino stringeva fra le mani lungo la Marina San Giuseppe, o quelle pesche melba che i genitori, un anno si e uno no, e chissà perché quella sequenza, lo portavano a mangiare in un pomeriggio domenicale e dicembrino lassú alla Mortola, dai Lorenzi, nel loro ristorante, sulla terrazza coperta e fiorita di gerani rampicanti.

Scullino seguiva, con la punta della lingua, le forme in divenire della voglia, con uno stupore continuo e l'incapacità di prevederne lo sviluppo. «Voglia del Novecento», l'apostrofava, «voglia d'avanguardia» e ci rideva su, guardandola e chiamandola: «mio piccolo Joyce», «mio Kafka», «mio Ernest», «cosa combini ai miei occhi?» E la Marisa rideva sollevando le natiche e chiedendo cosa stesse combinando «là in fondo» il suo «sciocco Yoghi» e poi interrompendo per «gelosia» il gioco, voltandosi sulla schiena e invitando Scullino ad affrontarla de visu, posizionandosi su di lei, con complimenti ed esclamazioni conseguenti che lei avrebbe potuto condividere, restituire, ampliare.

Scullino non rifiutava l'imposizione, accettava il cambio di gioco, qualche volta salutava la voglia con un «ciao Gaddus», qualche volta con un «a presto Vladimir», e si preparava felice ad allungarsi sulla sua «balena bianca» come «il primo dei fucilieri della Pequod». Dentro di sé sorrideva: in amore era letterariamente esterofilo. Doveva farci qualcosa? Non aveva mai troppo tempo per pensarci perché veniva travolto dall'abbraccio di Marisa e dai suoi singhiozzi erotici che gli facevan perdere abbastanza repentinamente ogni connessione con qualsiasi storia della letteratura di sua conoscenza. Nessuna litania di Molly Bloom o lamento di Portnoy sarebbe risultato all'altezza di quel canto di conchiglia.

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Pagina 203

- Noitura de merda, tutta in girasse e rigirasse, in durmisse e svejasse, in isasse e curegasse, e non per colpa di una mangiatina de purpetti in cassarola o de sardene a beccafigu faita a seira prima, perché almeno una rajiun di quella affannata insonnia ci sarebbe stata, invece nossignore, manco questa soddisfazione poteva pigliarsi, a seira prima u l'ajeiva avou lo stomaco cuscí strentu che non ci sarebbe passato manco un filo d'erba...

- Tutto bene, papà?

Scullino aveva sconfinato in salotto, reggendo l'ultimo Camilleri, Il giro di boa, già in classifica, sopra il Faletti. Si distrasse dalla lettura, guardò Lucrezia: aveva un tono gentile, rifletté, dopo il «colpo» non l'aveva piú accolto con un libro in fronte, la malattia aveva anche i suoi lati positivi.

Disse: - Sto provando a tradurre in dialetto nostro il siciliano di Camilleri. Che effetto ti fa?

Lucrezia scosse le spalle. - Niente. Rimane dialetto. Non c'è niente dentro: non c'è mafia, non c'è cinema, non c'è teatro, non c'è letteratura. Non ci son facce con coppola e lupara e neanche fichi d'india e granatine.

Scullino assenti: - Non è un dialetto internazionale, via...

- Il siciliano è una lingua come l'inglese, - aggiunse Lucrezia.

- Come il toscano dei tempi di Dante?

- In un mondo di malaffare, corruzione, droga e omicidi diventa una lingua importante, nazionale e internazionale, come l'inglese, o meglio, lo spagnolo.

- La fortuna di Camilleri, la sua astuzia... altro che Simenon...

Lucrezia non rispose, e Scullino rientrò nel suo studio. Posò il libretto blu sulla cassapanca mentre gli si affacciava alla mente il dialetto di Edoardo Firpo: «Poesse fa comme l'ochin, pe ogni onda che arriva arsame sempre un pittin».

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Pagina 333

    Seguendo il raggio che sale e scende
    Sull'umida edera di primavera.
Quei due versi gli vennero in mente aprendo la portafinestra che dava sul terrazzo. Di chi erano? Katherine Mansfield? No, della Mansfield erano questi: «Ah! Ah! Sei mesi, sei settimane, sei ore, fra queste splendide palme e questi fiori». Di chi allora? Si era chiesto Scullino uscendo all'aperto e respirando il profumo delle foglie nuove e ancora umide di rugiada della palma che s'appoggiava al muro del terrazzo. Guardò gli ulivi a ponente, la luce saliva a illuminare i rami piu bassi verniciando i tronchi di sfumature che andavano dal nero al marrone, dal grigio cenere all'argento. Vide che erano già fioriti gli iris, un tappeto viola sulle bordure delle fasce.

Dall'estate prima era stata dimenticata una sedia di vimini, il legno si era scrostato sotto l'acqua e il sole, perdendo colore.

Scullino saggiò i braccioli, poteva sedersi. Il sigaro gli si era spento ma era piacevole da succhiare. Una leggera bava di vento scendeva da Belenda, un'aria fresca e priva di forza che scuoteva appena la cima degli ulivi e i fiori degli iris e che sulle larghe foglie di palma non aveva effetto.

Il silenzio venne interrotto dal treno, che usciva dalla galleria alle spalle della casa e prendeva velocità sul rettilineo verso Muro Rosso: fu come un colpo di mina, sordo e breve, seguito poi dallo sballottolio delle ruote sulle giunture dei binari. Dopo tornò il silenzio appena strinato dalla bava di vento e Pietro si accorse di sentire il mare che batteva sugli scoglietti sotto casa. Si tolse il sigaro di bocca e inspirò profondamente l'aria che sapeva di umido e di sale. Scacciò il pensiero di doversi organizzare la giornata e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Chiuse gli occhi, il sole gli era arrivato alla gola, presto la luce e il tepore gli avrebbero preso il volto. Prima di chiudere gli occhi vide un ragno che saliva sul glicine. Rise, pensando all'ultima storia che Bari gli aveva raccontato su Tenaglia e i suoi ragni bianchi, che lui allevava perché gli costruissero grandi reti da stendere sotto gli ulivi per prendere verdoni e cardellini. Ma non era tanto l'assurdo di quell'allevamento di ragni e del suo impossibile impiego che ora faceva sorridere Scullino, quanto il seguito della storia. A ogni angolo di rete stesa sotto gli ulivi, diceva Tenaglia, doveva accendere una candela per allontanare gli stessi ragni bianchi che l'avevano costruita e che tornavano indietro a disfarla. «Fai e disfa - diceva Tenaglia - come gli uomini, anche i piú illuminati, quelli che nella giungla del mondo hanno osato proporre democrazie. Meravigliosi pazzi».

Sentí la luce e il calore sul volto e si lasciò andare a un dormiveglia che non gli era arrivato a letto, ci si abbandonò.

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