Autore Daniele Orlandi
Titolo Le chimiche di Primo Levi
EdizioneOdradek, Roma, 2013 , pag. 166, cop.fle., dim. 14,5x21x1,2 cm , Isbn 978-88-96487-27-3
LettoreCorrado Leonardo, 2014
Classe critica letteraria , shoah , chimica , scienze naturali












 

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Indice


Prefazione                                          5

Avvertenza                                          7

Premessa                                            9

1.    Segno d'alchimista                           15

2.    La chimica della razza                       41

3.    La chimica della salvezza                    69

4.    La chimica del ricordo                       93

5.    La chimica del dolore                       119

6.    La chimica interrotta                       135

Nota bibliografica essenziale                     161


 

 

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Pagina 11

Accadono incontri, dal passo così instabile, su cui non scommetteresti mai. Lo sapeva bene Primo Levi per aver sperimentato la promiscuità della deportazione e del fortunoso viaggio di ritorno da cui trasse il ricco campionario umano dei suoi racconti, e per aver appreso dalla sua professione di chimico che in fondo l'asimmetria «coincide con la vita». In una poesia del 1985 aveva scritto:

    Di noi ciascuno reca l'impronta
    Dell'amico incontrato per via;
    In ognuno la traccia di ognuno.



Erano misteriose affinità di cui egli prendeva atto senza troppo darsene pensiero o al più giustificandosi ironicamente: «Si vede che, per quanto io ami negarlo, uno straccio di Es ce l'ho anch'io».

Si parva licet, anche questo incontro nasce nel segno di una dissomiglianza che non starò a svolgere: Levi è figlio di una cultura scientifica che mi è del tutto preclusa e in questo libro le "chimiche" non possono intendersi come analisi degli aspetti tecnici dei suoi scritti. Ma il filo rosso della chimica lega le diverse esperienze narrative dello scrittore al cronista del Lager come una vera e propria «interfaccia tra letteratura e scienza». La lente dello stravolgimento irreparabile avvenuto nel consorzio umano nel periodo che va dalle leggi razziali alla partenza dei primi treni: la sostituzione sulla porta di Delphi del gnôthi seautón col derisorio Arbeit macht frei. Proprio questa sua irrisolta natura di "centauro" rende obbligatoria quella premessa che trovo di rado negli studi sul grande torinese. Parlare di Levi, chiosarlo come si fa con i classici, passabili di aggiornamenti ma in sé definitivi, è un terreno pieno di insidie. L'esprimeva chiaramente Cesare Segre: «Il critico non può sbagliare molto con Levi, che si è già spiegato benissimo da solo; e non gli resta nemmeno molto spazio per l'invenzione personale. Può solo esplicitare meglio i moventi dell'atto di scrivere, magari andando alla ricerca di quelli (penso pochi) di cui Levi non si rende conto». Nel rapporto con quegli auctores che copiando glossavano a margine, i medievali usavano definirsi nani sulle spalle di giganti. In relazione agli studi primoleviani, i giganti sono pochi e i compilatori molti. Tuttavia, come scrisse il suo amato Huxley, «spirito arguto può diventare falsa sostanza [...] e compito del riassuntore è saper semplificare, ma senza giungere alla falsificazione». Il Testimone del «nero monumento impermeabile alla ragione e alla parola» annichilisce ogni maldestro tentativo di avvicinamento. Con quella che impropriamente è stata definita la trilogia del Lager, composta da Se questo è un uomo (1947; 1958), La tregua (1963) e I sommersi e i salvati (1986), Levi ha legato in eterno il suo nome al fiume della letteratura sulla Shoah e dei suoi numerosi affluenti. Non ci si può esimere se non altro dal lambire il tema che di quest'uomo rappresenta il movente principale dell'intera opera. Ma sarà un incedere in punta di piedi. Del resto, ci viene in soccorso Levi stesso specificando a più riprese quale sia stato "in quelle tenebre" il suo angolo di visuale: «La storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall'incomprensione» (SES, 8).

Questo non è dunque un libro di chimica né di pura critica letteraria: è più un monologo interiore che rumina, ossessivo, brani di Levi mandati a memoria negli anni. Ma critica è pure, nel senso etimologico di scelta, distinzione, dal greco [...]. Tra i tanti, ho scelto la chimica in quanto luogo in cui Levi meglio impegna il suo dialogo con gli umanisti, comportandosi, è stato giustamente notato, come i «suoi progenitori alchimisti che riconoscevano nella materia un carattere umano». «Non tutti i libri», scriveva nella prefazione a un testo sulla deportazione, «resistono a una domanda, che spesso viene rivolta a viso aperto all'autore: perché questo libro esiste? [...] Spinto da quale sollecitazione, ti sei messo al lavoro?» (AV, 136). Se la rivolgo a me stesso, non posso che rispondere come avrebbe fatto lui: si scrive «perché se ne sente l'impulso o il bisogno», (AM, 31). A costo, non mi resta che aggiungere, di qualche riepilogo.

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Pagina 16

Ai tempi della scelta universitaria e della chimica come futura professione, la contingenza storica non aveva un gran peso nemmeno sul giovane Primo - figlio dell'ingegner Cesare Levi e di Ester Luzzati - diplomato al liceo Massimo D'Azeglio di Torino. Non era dato ancora immaginare che la sommatoria delle formule del "piccolo chimico" sarebbe stata Auschwitz. L'edificio della Facoltà proteggeva, come il vasto chiuso giardino dei Finzi-Contini, dall'esterno in cui impazzavano le leggi razziali e nuvole foriere di tempesta battevano il cielo: Francisco Franco, l' Anschluss, la beffa tragica di Monaco.

Fuori delle mura dell'Istituto Chimico era notte, la notte dell'Europa [...] Ma dentro quelle mura la notte non penetrava; la stessa censura fascista, capolavoro del regime, ci teneva separati dal mondo, in un bianco limbo di anestesia. (SP, 39)


Né c'erano segnali evidenti che quei mesi inenarrabili, uniti alla scienza del pesare e dividere, distillare e rettificare – gli elementi chimici così come la materia prima dell'esperienzas –, avrebbero fatto del timido studente uno dei più importanti scrittori del mondo. A partire da quel libro "fatale", per dirla con Saba, documento-monumento al sistema concentrazionario che è Se questo è un uomo (1947). Una testimonianza che travalicando i confini del genere memorialistico con «pagine di autentica potenza narrativa», «arriva naturalmente all'arte». Prima del suo arresto sulle montagne della Val d'Aosta nel dicembre del 1943, il neodottore formatosi agli studi classici aveva tentato amatorialmente la scrittura di cui resta traccia in una poesia, Crescenzago (1943) e due racconti alchemici, Piombo e Mercurio (1941), poi inseriti nel grande romanzo delle molecole che è Il sistema periodico (1975). Levi elesse, infatti, la chimica inorganica, con le sue lunghe catene molecolari legate tra loro in un sol punto ma stabili, a specchio del suo mondo emotivo, semplificandola radicalmente, dove opportuno, per trarne significati privati e universali. Dopo l' epos di Se questo è un uomo e La tregua, sulla base di Mendeleev, nel '75 Primo Levi ci dà il nomos della chimica: ordinamento e localizzazione. Il sistema periodico verrà insignito nel 2006 del titolo di the best science book ever (miglior libro a contenuto scientifico di ogni tempo), istituito dalla prestigiosa Royal Institution of Great Britain. Proprio nel 1985, la traduzione inglese a cura di Raymond Rosenthal, The periodic table, (già uscito in Usa nel 1984 e lodato da Saul Bellow come un libro «meravigliosamente puro») veniva pubblicata a puntate sulla rivista «Science», riscuotendo successo nella comunità scientifica internazionale. Il libro ha il merito indubbio di aver reso fruibili a un ampio pubblico di non specialisti molti aspetti base della chimica inorganica (per «riuscire comprensibili ai non addetti senza annoiare o scandalizzare gli addetti», AV, 210). È, questa della divulgazione tecnico-scientifica, un'ambizione non secondaria della letteratura primoleviana. Il saggio L'asimmetria e la vita (pubblicato su «Prometeo» nell'84), ad esempio, trattava in maniera accessibile delle molecole cosiddette "chirali", vale a dire non sovrapponibili alla propria immagine speculare, caratteristica degli aminoacidi, alla base della formazione delle proteine. L'universo ha dunque un'origine asimmetrica? Era il tema scientifico ma anche filosofico (ne parla Kant nella Critica della ragion pura, come di opposti incongruenti) affrontato dallo studente Primo Levi nella sua tesi in Chimica (1941), sulla Inversione di Walden.

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Pagina 23

Chimica come ponte principale per «unire la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo [...] frutto di lontani tabù e della controriforma» (AM, VI). La scienza degli elementi si riversa nella narrativa primoleviana sia nello stile sia nel contenuto. Mediata dalla chimica vi è la chiarezza, la faticosa scelta dello scrivere limpido contro lo "scrivere oscuro", dando il «massimo dell'informazione con il minimo ingombro» (Ivi, 236), "benedicendo", si potrebbe affermare: "dire bene" le cose. Quel famoso articolo, Dello scrivere oscuro (per «La Stampa», 11 dicembre 1976), nel quale Levi accennava una sorta di manifesto stilistico, suscitava la reazione di Giorgio Manganelli che gli rispondeva nell' Elogio dello scrivere oscuro (sul «Corriere della sera», 3 febbraio 1977) accusandolo di «terrorismo assistenziale», teso a fornire «stampelle di abbecedario a beneficio dei soggetti intellettualmente svantaggiati». Nella scarsa attenzione che la cultura ufficiale gli prestava come scrittore-non scrittore, scrittore per caso, tecnico prestato alla letteratura – «tipico "intellettuale che scrive"» lo definì Bassani - , va inserita anche questa incomprensione: si trattava di una scrittura-raffinazione delle parole, «scelte, pesate, commesse a incastro con pazienza e cautela», come spiega egli stesso in La lingua dei chimici I (AM, 127), allo scopo di decriptare il codice segreto di chiunque scriva, «anche solo sui muri», affermava nel racconto Decodificazione (R, 567). Il passaggio dallo stato liquido, dove le molecole sono poco vicine tra loro e hanno un volume ma non una forma; solido, dove gli atomi sono legati insieme a occupare un volume e costituire una forma; gassoso, dove le particelle vivono libere, informi e occupano il volume stesso dell'aria, allo "stato scritto", dove – Levi lo sapeva terribilmente -, le molecole occupano il volume dei ricordi e hanno la forma del tempo che passa. Occupando la carta come mezzo, la scrittura risolve «il grande problema dell'imballaggio, che ogni chimico esperto conosce» (Cerio, SP, 144).

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Pagina 31

In pochi, tra gli amici, credevano alla drammatica serietà che la professione aveva assunto per Primo Levi. Soprattutto dopo aver letto i suoi libri, in pochi credevano allo "scrittore per caso", incitandolo a fare il salto verso la scrittura di professione. In un'intervista, Edith Bruck, ad esempio, gli chiedeva se dopo tutti queste opere giocasse ancora a «fare il chimico» (CI, 296). Al contrario, tutta la sua bibliografia – e parliamo di romanzi, racconti, saggi, articoli – è intrisa di chimica per spiegare e spiegarsi gli aspetti più incomprensibili di quell'anno ai bordi dell'umano. Filo rosso e filo di Arianna per ritrovare sempre una via di superficie negli abissi concentrazionari. Lo percepì uno dei massimi narratori viventi, Philip Roth , quando tornando da un breve soggiorno in casa Levi pubblicava sulla prestigiosa «New York Times Book Review», (12 ottobre 1986) il resoconto di quelle giornate allegre e istruttive col titolo A Man Saved by his Skills, tradotto in italiano con L'uomo salvato dal suo mestiere («La Stampa», 26-27 novembre) e propose per La chiave a stella il titolo di Questo è l'uomo. Quando il serbatoio di materie prime da distillare e cristallizzare in forma scritta, quella memoria «strumento meraviglioso ma fallace» (SES, 13) parrà esaurito, Primo Levi sperimenterà un nuovo genere di letteratura. Col passaggio – discusso e incompreso – alla dimensione fantastica (o fantascientifica) dei racconti – da Storie naturali (1966) a Vizio di forma (1971) a Lilìt e altri racconti (1981) – il Lager opera aperta e la chimica virgiliana passeranno dall'alta cronaca di un dramma declinato al passato a quella di un incubo futuribile che proprio nelle falde infette di Auschwitz affondava le sue radici.

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Pagina 33

A un uomo a cui viene tolto tutto, passato, affetti, dignità, nome, abiti, capelli, non restano che le molecole del proprio corpo scheletrico. Bruciando i cadaveri e disperdendone le ceneri o asfaltandone i viali dei Lager, i nazisti s'industriavano a cancellare anche queste o a farne composti chimici per l'indotto della morte (la IG Farbenindustrie, la Bayern produttrice dello Ziklon B, la Topf produttrice dei forni crematori). Auschwitz, Treblinka, Sobibór, Belzec e gli altri campi, con le loro diverse chimiche infernali, furono anche questo: un nuovo sistema periodico inteso al male. Contro tale sovvertimento dell'impegno scientifico, la narrativa di Levi oppose tutta la sua resistenza. Ma senza la chimica e un laboratorio "tutto per sé", parafrasando la Woolf, Se questo è un uomo e tutta la carriera letteraria dell'autore torinese avrebbero avuto un destino imprevedibile. Entrare e restare, sia pure in disparte, nel mondo della letteratura senza togliersi il camice bianco è stato per lo scrittore anche sciogliere un ex voto (AV, 149). Tuttavia, alla domanda se Primo Levi fu un chimico o uno scrittore non c'è infine risposta. Nemmeno asserire che fu entrambe le cose, a ben vedere, è corretto. Si può soltanto prestar fede a quanto avrebbe risposto lui medesimo: «Scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo» (AM, 14, corsivo mio, ndr).

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Il corso avanzato in chimica della razza s'interrompe in Lager. La Facoltà di Auschwitz non prevedeva tirocini. Nell' incipit danzante nella testa di Levi già nei giorni del campo, il verso che muore per un sì o per un no, stava a significare che la sola preoccupazione del prigioniero è qui sopravvivere. Mangiare (come sarà la zuppa stasera, liquida come ieri o più densa?), proteggersi dal freddo, ricavare pezze per i piedi, non farsi rubare la gamella, imparare presto il tedesco, evitare le percosse, scansare i lavori più massacranti, non ammalarsi. L'enormità di ciò che si svolge intorno a lui è relegata in secondo piano da questi più urgenti bisogni. La morte «nuda, ignominiosa e immonda» (AV, 7), essendo costitutiva del Lager stesso, era l'ultimo dei problemi. Lo rende magistralmente Améry, quando scrive che ad Auschwitz «il morire era onnipresente, la morte si sottraeva». Salvo rari casi – come l'Hermann Langbein di Uomini ad Auschwitz – il miglior storico del Lager non era mai il prigioniero. Tagliato fuori dal resto del mondo, dalla geografia, dall'accesso alle informazioni. Spesso all'oscuro di dove si trovasse il campo, dell'esistenza di altri campi nelle vicinanze, dell'ubicazione delle camere a gas. «Circondato dalla morte, spesso il deportato non era in grado di valutare la misura della strage che si svolgeva sotto i suoi occhi» (SES, 8). E il testimone per eccellenza, sarà un teste muto. All'entrata in campo, non era dunque dato immaginare che le due muse ispiratrici di Levi, la chimica e la fisica, si stessero trasformando in una mostruosa controscienza, nell'itinerario che da Norimberga passava per Tiergartenstrasse 4 a Berlino, fino a Birkenau.


Nel 1985, in Brasile vengono scoperte le spoglie di un uomo di sessantasette anni morto per attacco cardiaco e seppellito sotto falso nome nel 1979. Nel '92, l'esame del DNA dimostra che a Wolfgang Gerhard corrisponde in realtà Josef Mengele, uno dei più ricercati criminali contro l'umanità, medico, ufficiale delle SS e novello Frankenstein, comandato ad Auschwitz il 30 maggio del 1943: «Il maggiore e il peggiore di tutti» (SES, 99). Mengele diviene oggetto di pubblica infamia quando nel 1958 iniziano a moltiplicarsi le testimonianze contro di lui di sopravvissuti e collaboratori dei suoi esperimenti su cavie umane, finalizzati alla creazione del perfetto ariano. Figlio della borghesia bavarese, già nella sua tesi di laurea antropologica in "morfologia razziale" e in quella in medicina, Ricerche genealogiche su casi di labbro leporino (1937), è anticipato l'interesse per l'ereditarietà razziale dei caratteri somatici che il medico coltiverà in un impianto come Auschwitz, enorme magazzino di materie prime.

Il culto demoniaco della personalità di Mengele, dai tratti contraddittori, capace di alternare efferatezze a inspiegabili gesti umani soprattutto verso i bambini necessari alle sue prove (da qui il soprannome di Todesengel, angelo della morte), lo vuole uomo di bell'aspetto sulla banchina all'ingresso del campo, con in mano un frustino, seguito da due collaboratori a sfilare davanti ai condannati per decidere Links o Rechts (sinistra o destra) o Zwillinge heraus - fuori i gemelli omozigotici – per il suo laboratorio dove confluivano prendendovi corpo tutte le teorie eugenetiche naziste in spregio al giuramento ippocrateo. La scienza tedesca, la stessa che aveva espresso altezze come Albert Einstein, negli anni che vanno dal 1933 al 1945 passerà sotto l'egida nazista, divenendo strumento di un disegno di dominio incontrastato degli Übermenschen (superuomini) sugli Üntermenschen (sottouomini), attraverso la sterilizzazione e lo sterminio, esaltato, è ormai noto, da credenze esoteriche iniziatiche.

Quello di "vite indegne di vita" era un concetto già reso esplicito nel Mein Kampf come raccolta e conservazione dei caratteri originari della presunta razza tedesca per evitare il delirante pericolo di una "morte del popolo" (Volkstod). A capi politico-militari come Eichmann, Himmler, Höss corrispondevano stregoni come Viktor Brack, Karl Brandt, Werner Heyde. A luoghi come Mauthausen e Auschwitz avevano fatto da banco di prova "centri di eliminazione" come Hadamar, Hartheim, Grafeneck e molti ospedali psichiatrici riconvertiti. Nel quadro del "risanamento biomedico della razza ariana", la cosiddetta Action T4 (dall'indirizzo berlinese del suo quartier generale, Tiergartenstrasse, n. 4) prevedeva la sterilizzazione e l'eliminazione segreta dei malati di mente. In queste amene località di provincia, alla presenza di due SS laureate in chimica, in locali docce adibite a camere della morte i degenti venivano gasati tramite monossido di carbonio (CO) attraverso condutture per l'acqua e gettati poi nei crematori.

Il complicato iter burocratico che dai "questionari" statistici per l'anamnesi dei morituri e la loro localizzazione conduceva alle soppressioni multiple, ha in un certo senso preparato gli stermini su scala più vasta. Diremmo che l'operazione T4, genocidio minore, è stata la prova generale della Endlösung (la "Soluzione finale"). La chimica di uomini al servizio di Himmler quali Mengele e Carl Clauberg a Ravensbrück, si basava inizialmente su iniezioni (il verbo tedesco einspritzen, sta per spruzzare, iniettare, somministrare) di fenolo (C6H5OH), in vena o nel cuore, che precorsero l'uso del gas Ziklon B (in particolare ad Auschwitz e Majdanek), sulla formalina (CH2O) o la novocaina (C13H20N202) per la sterilizzazione delle donne, di blu di metilene negli occhi dei gemelli per la colorazione dell'iride. Protocolli portati avanti con satanica sicumera, come nel famigerato Block 10 di Auschwitz, un vero e proprio museo degli orrori. Sempre con risultati mostruosi: mutilazioni, gravi lesioni, cecità, decessi.

Gli effetti raccapriccianti di tali prassi non sono stati descritti direttamente da Levi nella cronaca del Lager, mentre ci tornerà in articoli e saggi e nel suo lascito spirituale de I sommersi e i salvati sottoforma di riflessioni sul vasto indotto industriale generato dal sistema concentrazionario tedesco a cui le spoglie dei cadaveri fornivano materiali come fertilizzanti, drenanti, isolanti a «esprimere che non si trattava di resti umani, ma di materia bruta, indifferente» (Ivi, 100). Ma la sfida di Levi era lanciata alla materia abnorme e alla sua incomunicabilità, ed è stata vinta malgrado la necessità di non guardarsi attorno il meno possibile, di non pensare, di «ne pas chercher à comprendre» come l' Häftling Clausner aveva inciso sul fondo della sua gamella (Ivi, 93).

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5. La chimica del dolore



                             O soci, troverò la causa, la sua: calore vorticoso.

                                                      (Calore vorticoso, R, 474)



La differenza tra un nazista e il resto del mondo sta nel fatto che un nazista deve imparare a sopportare il dolore. Non il suo bensì quello che deve provocare agli altri per essere un buon nazista. Suo compito è vincere dentro sé ogni eccesso di spirito umanitario, come ha ordinato il capo supremo, e ogni misericordia. Jean Améry sta pensando questo, quando con la mente torna in quei «corridoi» di Fort Breendonk, nel Belgio occupato, «illuminati da flebile luce rossastra, dove di continuo si aprivano e, rimbombando, si richiudevano nuove inferriate». Il nazionalsocialismo, scrive, fu dolore. Non paura ma dolore, non come effetto ma come essenza. Senza dolore, non è immaginabile la Terza Germania. Mentre riflette su questo per redigere, vent'anni dopo, la sua dichiarazione spontanea, il filosofo si accorge che è tornato nel bunker, il posto in cui subì quel "trattamento" che per i funzionari della Gestapo non era solo una pratica poliziesca ma anche una prassi politica. Accade brevemente. Come ogni avvenimento che lascia postumi di lunga durata e conseguenze irreversibili. Mani dietro la schiena, un gancio fissa le manette a una catena che pende dal soffitto. Il ferro è tirato verso l'alto e il corpo sale trascinato dalle braccia innaturalmente contorte. Pochi secondi di resistenza imperlata di sudore poi lo «schianto e uno scheggiarsi nelle spalle che il mio corpo sino a oggi non ha dimenticato. Le teste degli omeri saltarono dalle loro sedi» ed ecco un uomo appeso. Un nuovo crocifisso. «Tortura, dal latino torquere: che dimostrazione pratica di etimologia!». Dov'è la parola, si chiede Améry, per esprimere quel dolore e quello stato d'animo? «Chi volesse rendere partecipi gli altri del proprio dolore fisico, sarebbe costretto a provocarlo e a diventare così lui stesso un aguzzino». Tutto l'essere umano è adesso corporeo, un "tronco che sente e pena", per dirla con Leopardi. Questo corpo ora appartiene alla sfera del dolore e quando non sente attende con terrore un nuovo assalto. Sopraffazione senza soccorso, come uno stupro. Traccia indelebile. Inquisizione senza conforto della redenzione né fuochi purificatori. Il Reich è unicamente braccio secolare poiché non contempla altri livelli di potere. Il torturato si autoaccusa, confessa fantasie, affinché cessi di penzolare, di sentire, di vivere. Lo Stato nazista è protetto dalla tortura-istituzione, dal "ministero" della tortura. Qualcosa rimanda a Orwell. A cose fatte, i funzionari possono accendere una sigaretta, fare colazione, tornare alle famiglie. Bruti ottusi, li definisce Améry, alla maniera leviana, o in taluni casi poco più di questo. Il dolore diventerà angoscia soltanto dopo, quando cessate, con un po' di fortuna, le infiammazioni e i gonfiori, le lussazioni e le ustioni, la guerra e la prigionia, al risveglio da uno stato precomatoso l'uomo s'accorge di essere di nuovo in balia dell'incubo, della meraviglia, di un mondo lontano. Di un Io a se stesso estraneo.


Primo Levi distingue almeno tre tipi dolore. Quello fisico delle malattie, della fame, del freddo, delle percosse, rabbiose o senza collera, dei triangoli verdi; il dolore delle cose viste, che semplificando potremmo definire morale; infine, il dolore legato a un male universale che si esprime in uno dei suoi racconti più complessi, Verso occidente. Il primo genere, a cui Levi si confesserà molto sensibile, sarà paradossalmente la prima cosa che i reduci dimenticheranno del Lager. Già in campo venivano continuamente messi in pratica numerosi stratagemmi per recuperare energie contro la fatica del lavoro, come mordersi le labbra a sangue per incitarsi a continuare o a scattare, evitando le punizioni e la morte, come quando si inietta benzina direttamente nel cilindro di un motore usurato (SQU, 60). I Kapos stessi, a volte picchiavano e insultavano i prigionieri durante il lavoro per spronarli «quasi amorevolmente» (Ibidem) come si fa con le bestie da soma. A fronte della violenza psicologica e morale patita, sembra volerci dire Levi, la prova fisica del Lager fu, nel complesso un'operazione simile al tatuaggio d'immatricolazione: «Lievemente dolorosa» (Ivi, 24).

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