Copertina
Autore Yitzhank Orpaz
Titolo Storia d'amore e di formiche
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008 [1995], Fiabesca 95 , pag. 136, cop.fle., dim. 12x16,6x1 cm , Isbn 978-88-6222-056-9
OriginaleNemalim [1968]
CuratoreGaio Sciloni
TraduttoreGaio Sciloni
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa israeliana , narrativa russa
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Pagina 11

Capitolo I



Il divorzio è rinviato per un breve lasso di tempo — Il libro dei conti e il Libro dei Libri — Un modo originale di celebrare la venuta del Santo Sabato — Una formica fa eccitare mia moglie e io mi vendico.


* * *



Avevamo deciso di divorziare. Già da tempo sapevo che avremmo dovuto farlo. Mia moglie non aveva mai detto chiaramente "sì", ma quando io le ho detto "vieni", era già vestita e pronta ad andare.

Ci fu difficile spiegare al Rabbino il perché. Uno va dal dottore perché un moscerino lo punge in un orecchio, e quando arriva dal dottore il moscerino si cheta. Il nostro appartamento è piccolo: un attico, un sottotetto composto da una camera e un salottino d'ingresso, e noi ci scontriamo continuamente l'uno con l'altra e siamo tanto, tanto imbarazzati. Se mia moglie fosse stata come tutte le donne, avrebbe partorito dei bambini. Ma mia moglie non mi permette di usare con lei come un uomo deve usare con la donna. Io sono un muratore di Prima Categoria, posso spezzare in due un assito d'impalcatura, se ce n'è bisogno. Ma non posso toccare duramente Rachel. Chissà di cos'è fatto il meraviglioso fiore della sposa? E io ho sempre avuto paura di toccarlo, quel fiore. È candido come la neve, e nobile, e né il sole né la pioggia hanno sopra di lui potere alcuno. Rachel è bella, alta, ha un passo morbido, tiene i capelli bruni raccolti con forcine sulla nuca; il suo corpo è bianco, candido come l'alabastro. Può giacere anche per ore e ore al sole, ma il suo corpo resta sempre bianco.

Il Rabbino aspettava. Non sapevamo cosa dire. D'un tratto mi sono alzato, mi sono avvicinato a mia moglie e l'ho baciata forte sulle labbra. Lei, mia moglie, ha morso il mio labbro a sangue. Poi ha sputato la sua saliva in un fazzoletto candido come la neve e vi si è strofinata le labbra.

Il Rabbino ha chiesto a Rachel se mi odiava. Lei ha risposto: "Non in modo particolare". Le ha chiesto se mi amava e lei ha risposto: "Non in modo particolare". Le ha chiesto se ha amato altri uomini prima di me, e lei ha risposto che non ricordava. Aveva uno sguardo innocente e schietto. Per un momento, mentre rispondeva al Rabbino, si è passata le lunghe dita sotto il seno, come per grattarsi. Quando ce ne siamo andati via dall'ufficio le ho chiesto perché aveva fatto quel brutto gesto davanti al Rabbino. Rachel mi ha risposto che le era sembrato di sentirsi brulicare sul corpo delle formiche. Intanto il Rabbino aveva sentenziato che dovessimo ritornare da lui fra due mesi; nel frattempo – così ci consigliava – avremmo forse potuto cambiar casa.

"Cambio di posto, cambio di fortuna", aveva detto, citando un vecchio proverbio.

L'idea di cambiar casa mi era piaciuta. Sì, costruire una casa, una casa per me e per Rachel. Chissà, forse, davvero... casa nuova – vita nuova. E poi, sono o non sono un muratore, io?

Appena siamo giunti a casa ho preso il calendario che sta appeso nella nostra cucinina, ne ho sfogliato alcune pagine, e a lato di una certa data che mi pareva adatta ho scritto – dopo averne scacciata via con una ditata una formichina che l'attraversava velocemente – le seguenti parole: Casa Nuova. Le ho scritte con una calligrafia chiara e precisa, con una grossa linea tracciata sotto la parola Nuova. Sopra la scritta svettava un panorama pieno di colori (tutte le pagine di quel calendario sono adorne di splendidi panorami a colori rappresentanti siti storici): una rupe con sopra antiche mura, che un tempo erano sbrecciate e arse e adesso sono state ricostruite. Ho detto a mia moglie che avrei costruito una casa, una casa per noi due. Mia moglie ha detto "va bene" guardando da un'altra parte.

Adesso che ho deciso di costruire la nostra casa nuova, mi è più facile tollerare i malanni della casa vecchia. Ho già detto che abitiamo in un piccolo attico, un quartierino sottotetto in una vecchia casa: una cameretta e un salottino-ingresso. Dal salottino si entra in camera, dalla camera si entra in una cucinina, dalla cucinina si entra in un bagnetto minuscolo con la doccia – non c'è tinozza – e lo sciacquone stretti stretti l'una vicino all'altro. Le porte sono tutte in fila, in linea retta con il tetto, e a mia moglie e a me è dunque impossibile non scontrarci l'uno con l'altra ad ogni piè sospinto. Rachel e io ci scontriamo di continuo e ne siamo imbarazzati. Nei primi tempi dopo il nostro matrimonio Rachel sorrideva e mi sfuggiva. Adesso si gratta, non senza una certa grazia, nei sottobracci, fra i seni, o sul ventre – e corre a farsi una doccia. Quando improvvisamente l'abbraccio, lei ride di quel suo riso che tintinna meravigliosamente ma è freddo come un vetro, fino a che io la lascio andare.

La notte Rachel si avviluppa nelle lenzuola, come se vi fosse scolpita dentro. Mura bianche, sbarrate.

La nostra casa è sempre molto pulita. Quando ritorno dal lavoro, mi cambio i vestiti sul tetto ed entro nella doccia calzando ciabatte. Lei, mia moglie, stende una ruvida coperta sul verde copriletto, quando io mi ci sdraio su per riposare. Quando faccio per appoggiare i gomiti sul tavolo, mia moglie dice "scusa un attimo" e mi stende sotto i gomiti una tovaglietta grigia ma pulita. Ci serve i pasti avvolta in un camice bianco da infermiera. Dopo mangiato, quando faccio per prendere la sua mano nella mia, lei si rifugia nel bagno. Io lavo i piatti e ascolto lo scorrere dell'acqua della doccia che accarezza il corpo di Rachel. Una volta le ho chiesto perché si lava tanto, perché corre sempre alla doccia.

"La casa brulica," mi ha risposto. Nella sua voce ho sentito germogliare uno strano riso, ragionevolmente trattenuto.

Posso, naturalmente, tenermi occupato in altre faccende, come per esempio la tenuta del libro dei conti. Oh, questo libro lo tengo con gran cura – ne dipende il nostro sostentamento. Però mi basta tirare le somme, mi contento del bilancio che riassumo ogni sabato mattina. Tutti gli altri giorni apro il libro dei conti tornando a casa, per annotarvi, in chiare lettere, due o tre righe sulle spese sostenute per l'acquisto dei materiali, per il pagamento dei salari e via dicendo. Libri veri e propri quasi non ne leggo. Mi sembra di aver perduto il gusto della lettura. Al giornale, ah!, a quello gli dò una sbirciata, a volte, per esempio durante la colazione, in cantiere, mentre mangio i panini che vi sono involtati. Oltre quello, leggo il Libro dei Libri. Lo leggo tutti i Venerdì Sera, alla vigilia del Sabato, dopo cena, e anche le altre sere, prima di andare a dormire; è una questione di tradizione. Un tempo lo leggevo con tutto il cuore, con entusiasmo, eccetera. Oggi sento la mia voce che lo legge, e intanto penso ad altro, ma non ricordo precisamente a cosa. Forse mi ha preso una certa pigrizia. Non ho mai letto il Libro in modo sistematico, ma solo un po' qua e un po' là, alle pagine aperte per caso. C'è un passo che rileggo spesso, perché mia moglie ama ascoltarlo, soprattutto il Venerdì Sera, all'inizio del Sabato, dopo cena, quando lei si accende una sigaretta alla fiamma del cero. A volte lo leggo anche in altre sere, mentre Rachel giace, a occhi chiusi, nel suo letto. "Continua a leggere," dice Rachel quando io chiudo il Libro, credendola addormentata.

"Imperocché il mio paese è stato invaso da un popolo immane, un popolo di esseri innumerevoli che hanno denti di leone e mascelle di leoncello". Qui mi interrompo, ma mia moglie dice: "Continua a leggere", e io salto un brano e leggo: "Ahah, guai a quel giorno! Perché prossimo è il giorno del Signore e sarà come un saccheggio eseguito dalle mani dell'Eterno".

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Capitolo III



Le formiche fanno a pezzi uno scarafaggio mezzo morto — Gloria alle antenne dello scarafaggio e allo splendore del suo guscio.


* * *



Quando le ho viste, la prima volta, brulicare piccole e misere — esserini lunghi pochi millimetri, animaletti grigiastri e rigidi, ridondanti di giravolte e di inchini sgraziati, con quei loro corpi fatti di tante articolazioni tondeggianti, e i più piccoli fra di loro non erano più grossi di una cacatura di mosca — quando le ho viste, la prima volta, che accerchiavano quel monte bruno e fremente — lo scarafaggio — mi è parso di assistere a un'incoronazione o a un altro rito, diverso, al cui centro fosse un Essere tondeggiante e sublime e molto sensibile. Ma ben presto ho compreso che mi sbagliavo: quell'Essere le formiche lo stavano facendo a pezzi.

Pian piano lo scomponevano in tante particelle. Ciò che era più crudele e più orribile in questa opera era il fatto che quel monte bruno era ancora vivo. Mentre quello era disteso sul dorso (solo il Dio delle formiche sa come avevano potuto metterlo così) gli facevano strane cose. Alcune di esse sembrava che ne succhiassero la linfa: lo tenevano immobile, stretto come con tenaglie, e nessun fremito di quel grosso corpo riusciva a rimuoverle. Avrei già da tempo cancellato dalla mia mente quell'orrendo spettacolo di tortura, se il mio occhio non fosse stato attratto dall'accuratissimo modo con cui le formiche si occupavano delle antenne dello scarafaggio. Le antenne sono, senza dubbio alcuno, il vero serto di gloria di questa bella specie d'insetti: sono molto lunghe, agili e sensibili. È facile giungere perciò alla congettura che tali antenne siano un oggetto molto ricercato nel reame delle formiche — forse per servirsene come antenne di telecomunicazione a lunga distanza. Ma, Dio Santo, in quale modo meraviglioso le formiche le afferravano! Che splendida danza di movimenti e di forme! Pareva proprio che quelle minuscole formichine volessero fare un gioco, e così mi sono chiesto se c'è qualcosa di vero in ciò che si narra sull'efficienza, la diligenza e il senso di praticità delle formiche; così si narra di loro in quelle leggende che perfino il Libro dei Libri aiuta non poco a diffondere.

Una formica afferra la punta di un'antenna lunga forse dodici volte e più della formica stessa. Né dobbiamo dimenticare che una formica è lunga un ottavo delle sue braccia; così dice il proverbio. L'antenna si ribella e fa scorrere ondate di fremiti tortuosi da una estremità all'altra, che è stretta forte fra le dentate mascelle della formica. La formica tira l'antenna da una parte con un non trascurabile sforzo, come dimostrano i sempre mutati atteggiamenti del suo corpicino; e l'antenna la segue, arresa, e viene pian piano a formare un arco ben teso. Ma proprio nel momento in cui ci si attenderebbe che l'arco luccicasse in mille colori, o scoccasse una freccia mortale, ecco che l'antenna si libera, scaglia la formica in aria con un lancio da giganti, si raddrizza mentre è ancora in aria, per poi posarsi in terra, alla fine, dritta e liscia. Però, ecco che – un vero miracolo! – la formica si tiene sempre appesa là, in cima all'antenna, e riprende di nuovo a tirare.

Lo confesso: i miei nervi irritati non mi hanno lasciato seguire più oltre quel brutto, ignobile, sciatto e monotono gioco delle formiche, per vedere fino dove sarebbe arrivato. A giudicare dalla diligenza con cui quegli esserini scavavano le occhiaie dello scarafaggio e ne succhiavano la gustosa linfa, non era difficile prevedere cosa sarebbe accaduto!

Lo scarafaggio si svuotava pian piano, proprio come si svuota un recipiente a cui sono stati aperti i rubinetti di sfogo. Ma quanto splendido era quel recipiente! Era fatto tutto di foglie d'oro arrotondate, come una corazza regale coperta di ornamenti; una corazza vuota di corpo, tanto che veniva da chiedersi se quelle antenne avrebbero trovato ancora in sé la forza di manovrare con regale solennità. Poi ho visto che una delle foglie d'oro del manto regale – un lembo che avrei chiamato, non so, un giubbetto, appartenente, per esempio, all'armatura del gigante Golia – era già completamente spezzettata. A lode di quelle schifose formiche si deve dire che esse conservano attentamente quei tesori nei loro forzieri e anche che si prendono gran cura di ripulire bene il loro campo d'azione. La mattina dell'indomani, sul pavimento del mio bagno non sarebbe restata più alcuna traccia.

Non senza ribrezzo ho preso fra due dita una di quelle brutte sabotatrici e l'ho posata sul marmo di cucina, presso il vasetto con la gelatina al miele lasciata da Bilha e da Rachel. Forse intendevo osservarlo per un poco, ben bene, quell'esserino, guardarlo con la lente d'ingrandimento che conservo da giorni lontani, quando collezionavo francobolli; però me ne sono subito dimenticato e mi sono coricato accanto a Rachel, che era avviluppata in lenzuola molto candide – ahimè, candide come la neve.

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Capitolo XI



La storia di una formica che è uscita di fila, ed è finita male – Mia moglie in funzione di carnefice – Il modo di uccidere delle formiche – I molti usi che si possono fare del cadavere – Alcune leggende e tradizioni.


* * *



Le ghiandole lacrimali del mio cuore non erano ancora, a quanto pareva, asciutte. Secernevano ancora certi sentimenti strani, certi veleni umanistici – residui dell'Età del Cuore. Cosa ci possiamo fare noi se da bambini ci hanno fatto succhiare latte e non ferro? È davvero una triste e amara cosa. Mi batto e ribatto tre volte il petto e confesso e riconfesso la mia colpa, ma il mio cuore – non posso negarlo – il mio cuore sanguina compiangendo quella formica e la sua fine così orrenda. Avrei dovuto sorvolare su questo fatto, ma non posso. Narrerò dunque l'episodio della formica uscita dalla fila.

Passavo per la cucina e ho visto un gran brulichio sul marmo del lavello. Sul piano quadrato di marmo, la cui estensione, in misura di formiche, è circa un miliardo di teste quadrate, si svolgeva in quel momento qualcosa che mi sembrava una sfilata o un corteo o una processione o una dimostrazione o qualcosa del genere. Non scorgevo il palco delle autorità, ma era facile supporre che si trovasse nell'interno del muro, in una delle arcate ad ampia volta. Ma sul grande spiazzo, oltre quelle formiche dall'aspetto formidabile e a testa tesa avanti, che certo svolgevano il servizio d'ordine e si tenevano ognuna al proprio posto tutto attorno al sito della manifestazione, con le antenne erette e le fauci scoperte – oltre quelle, tutte le altre formiche erano in movimento.

E che movimento! Schiere e schiere di formiche affluivano-scorrevano da un'arcuata apertura nel muro, e dopo esser passate sullo spiazzo di marmo, rifluivano-scorrevano dentro un'altra apertura nello stesso muro. L'ordine strano, ma al tempo stesso lontano da ogni spreco, del movimento delle formiche, aveva in sé qualcosa di sbalorditivo. Reggimenti, brigate, armate intere si caricavano – correndo in modo organizzato, a gruppi e gruppi – di granellini di zucchero, senza mai turbare il buon ordine. Senza alcun dubbio, era un successo organizzativo di prim'ordine. Ogni squadra che accorreva era fiancheggiata da una squadra di caricatori. Tanti granellini di zucchero, grandi come teste di spillo, erano abbondantemente sparsi sul marmo – chissà chi ce li aveva sparsi? Forse mia moglie! – e l'ordine della loro spartizione era come segue:

– le schiere dei corridori scorrevano in file mobili, una fila dopo l'altra, entro le file immobili, una fila dopo l'altra;

– le formiche delle file mobili afferravano tutte insieme, con le mandibole, a un certo segno, bianchi e luccicanti granellini di zucchero, e proseguivano il loro molto preciso fluire;

– qualche momento dopo, a un certo segno che non riuscivo a identificare, le formiche delle file mobili prendevano, tutte insieme, i granellini di zucchero e li caricavano sul dorso delle formiche in corsa;

ed eccovi dunque un grande esercito meravigliosamente organizzato, che avanzava con una sicurezza addirittura divina e con una precisione geometrica, mentre ciascun membro di ciascuna delle sue diverse unità portava su di sé due relativamente grossi granelli di zucchero.

Era più che naturale pensare che questo fosse il modo con cui le formiche salutavano le autorità, invisibili da qui, che stavano sul palco: con un granello di zucchero stretto fra le mandibole e un granello di zucchero ritto e biancheggiante sul dorso.

Ogni tanto, a intervalli di qualche secondo, le file mobili si immobilizzavano, e al loro posto le file immobili già si muovevano in quel loro sicuro e inarrestabile fluire, mentre le formiche delle file che si erano immobilizzate nel ritmo di un turno a tempi fissi divenivano caricatrici e caricavano le altre con un moto anch'esso ritmico, e così via e così via.

Non sono riuscito a capire se erano sempre le stesse formiche che formavano quel grande esercito che sfilava all'infinito, senza capo né coda, e mentre le schiere che avevano aperto il corteo avevano fatto ritorno all'opera usata – raschiare, tagliare, tritare, macinare dentro le tortuose gallerie – nuove schiere, di retroguardia, offrivano adesso lo spettacolo delle loro file compatte; o se erano sempre le medesime schiere che ripetevano un medesimo ciclo rotatorio, in parte dentro il muro e in parte sullo spiazzo di marmo.

Questo non lo potevo chiarire. È così difficile distinguere fra l'una e l'altra formica entro la loro riga bruna!

Ma quale splendore, quale gloria irradiava da quell'esercito! Migliaia di trasmissioni bilaterali, una gigantesca macina di nastri dentati moventi l'un verso l'altro, una fiumana nera tempestata di lame d'argento... Mi sentivo pieno di timore e di ammirazione – ma basta così! Tanto non riuscirò mai a descrivere quella cosa superba. Una sentenza, un giudizio in movimento! I miei occhi non erano capaci di contenerla. Mi ha salvato quella formica che all'improvviso ho scoperto fuori della fila, solitaria, isolata, miserevole, ma anch'essa così stupenda, così minuscola perché sola, ma al tempo stesso sempre così possente nelle sue mosse frettolose e imbarazzate...

Come le era successo di uscire dalla fila, non lo so. D'un tratto – ne era stata fuori. Forse aveva perduto il ritmo, aveva inciampato e non era stata riammessa nelle file serrate. Forse aveva cercato di ritornarci e non c'era riuscita, e le altere guardiane del servizio d'ordine l'avevano ricacciata indietro. In ogni modo, quelle altere guardiane non l'avevano degnata neppure di uno sguardo.

La povera formica era corsa di qua e di là. Per un po' aveva aggirato il posto, inciampando: era abituata a correre dentro una fila, e adesso, trovandosi sola, non sapeva più dove posare i piedi. Si era quasi rotta l'osso del collo, la poverina, torcendo la testa a destra e a sinistra in un'insensata ricerca, mentre il granellino di zucchero le premeva sulle articolazioni del dorso.

Poi si era un po' ripresa ed era arrivata al bordo dello spiazzo di marmo. Là si era arrestata e aveva visto nel mezzo di una gigantesca vallata – un anfratto con ripidissime pareti – una collinetta di terriccio le cui pendici erano immerse in alcuni laghetti, separati fra di loro da lingue di terra e di caolino. Da quella collinetta spuntava, alta alta, una piantina grassa fatta tutta di foglie verdi scure, carnose, succulente, che sbocciavano una da dentro l'altra verso l'alto e verso i lati. Una pianta alquanto rozza, che aveva rinunziato ad avere steli fini come alamari d'ornamento e a polloni elastici e dondolanti al vento. Aveva preferito essere fatta tutta di foglie grosse e spesse come palmi di mani rozze, di callose mani di operai, con un palmo dentro l'altro e tutti i palmi ricoperti di una pelle ruvida e spinosa.

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